E’
iniziata aggirandomi nel frastornante labirinto dei mercati africani. Attratto
dalle voci, dagli sguardi, dai richiami delle mani, dalle insistenze trascurate
e dagli inviti irrinunciabili. E’ iniziata sedendomi a osservare, accanto a un
tè e assi di legno che si riempivano di mercanzie. Collane di ogni sorta
proposte come antiche e moderne, infilate di perle in vetro, pietre dure,
fusioni in bronzo, ciondoli prodotti da svariate etnie, depositi europei giunti
in Africa il giorno prima, anni, decenni o secoli prima. Un labirinto dentro un
labirinto. Orientarsi era un miracolo. Ascoltavo la parola del mercante con
prudenza, bilanciandomi tra stupore e diffidenza, confrontando le opinioni e
cercando di capire senza assecondare subito il desiderio di portare a casa
frammenti di un mondo sconosciuto. Occorreva pazienza, virtù che accomuna
l’amante di perle al collezionista, al viaggiatore curioso, al cultore di
oggetti che diventano scrigni di passato, sedimenti che riflettono un prisma
infinito di storie, superfici, infine, riflettenti la pura bellezza delle loro profondità.
Le perle sono questo: mirabili colpi di bellezza preparati da antiche sapienze
artigianali, da equilibri di tinte, sfumature, inventiva di forme, preziosi
pigmenti e il valore aggiunto del tempo, il lavorio degli anni e del caso che creano
quella famosa patina antiquaria e in un processo di lunga selezione naturale
rendono sempre più raro quell’unico pezzo superstite segnato in quel solo unico
modo da secoli di invecchiamento. Ma allora, agli albori della passione tra i
mercati di Dakar e Bamako o di qualche sperduto villaggio africano, non ero
ancora affetto dalla tenera ossessione delle perle. Ero come un bimbo
affascinato da un giocattolo, un innamorato ignaro di trovarsi a un passo dalla
splendida trappola amorosa. Spigolavo nell’immenso serbatoio di vita dei
mercati, raccoglievo i primi campioni e chiedevo a conoscenti, di ritorno dai
miei viaggi consultavo libri, navigavo tra pagine cartacee e pagine di siti
dedicati all’universo delle perle. Quelle di vetro catturarono gran parte della
mia attenzione. Come me erano state segnate dal destino del viaggio. Nel caso
delle più antiche, si erano mosse per secoli da una mano all’altra, da un
Continente all’altro, assaggiando le sabbie del deserto, le tende dei nomadi,
il petto di regine e popolane, assurte al rango di regalo principesco o
trasformate in sostituti del denaro, alternativa alla moneta corrente o merce
di scambio per comunità tribali ai cui occhi diventavano oggetti magici con
valenze apotropaiche. La principale produttrice del secondo millennio fu
Venezia. Le prime tracce in laguna risalgono al 1292, quando un decreto del
Maggior Consiglio stabiliva che per ragioni di sicurezza le vetrerie non
potevano più essere costruite a Venezia ma solo a Murano. I procedimenti di
fabbricazione di vetri e quindi delle perle dovevano rimanere segreti e ne era
vietata, sotto pena di morte, la divulgazione fuori dal territorio veneziano. Si
trattava in principio di perle destinate a formare prevalentemente rosari e
chiamate “paternostri”. Il metodo usato dai perlai “paternostreri” consisteva
nell’accumulare attorno a un ferro coperto da un impasto terroso il vetro in
barre scaldato a un’intensa fonte di calore. Era una tecnica già utilizzata
nella più remota antichità alla quale seguì, verso la fine del Quattrocento, un
nuovo modo di fare perle partendo da una canna forata che tagliata in pezzettini
forniva altrettante perle dette paternostri “colorati”, “a rosette” e “oldani”.
L’invenzione della canna forata consentì di produrre perle in grande quantità.
Ai “paternostreri” di Murano si affiancarono i “margariteri”, dal nome di Maria
Barovier cui viene attribuita la novità delle canne di vetro con sezioni
colorate concentriche, mentre si andava sviluppando un’altra produzione, quella
delle perle “a lume”, realizzate con tecniche di avvolgimento sulla fiammella
di una lampada a olio. La richiesta internazionale si fece sempre più forte e
al moltiplicarsi in varietà e numero delle perle veneziane, tra cui le celebri
perle a “rosetta” o “chevron”, corrispose l’espatrio illegale di non pochi
vetrai. Nel corso dei Seicento nuovi centri di fabbricazione si svilupparono
nelle regioni baltiche, in Belgio, Francia, Svizzera, Inghilterra, Olanda,
Russia, Boemia e Moravia, dove accanto a perle autoctone si producevano grandi
quantità di perle “alla maniera di Venezia”. Ma nonostante la concorrenza i
perlai della Serenissima riuscirono sempre a dominare il mercato e nel 1606 si
contavano a Venezia ben 251 fabbricanti di perle di vetro. Dopo la crisi
seguita alla caduta della Repubblica per mano di Napoleone, nel 1797,
l’industria perliera veneziana riprese vigore nella seconda metà dell’Ottocento
sulla scia dell’apertura dei commerci verso terre lontane. Esploratori, missionari
e mercanti portavano con sé perle offerte in dono o utilizzate come merce di
scambio con un gran numero di popoli e gruppi etnici, dagli indiani del Nord
America agli abitanti dell’Africa. Nel quadro di attività commerciali lecite o
vergognose come la tratta di schiavi (acquistati anche a suon di murrine!),
conobbe così un enorme successo la grande e variegatissima famiglia delle cosiddette
perle di baratto, le “trade beads” dei mercati anglofoni, che seguirono itinerari
spesso tortuosi e vennero esportate verso colonie e terre di conquista fino
alla prima Guerra Mondiale. Le perle veneziane di forma cilindrica con disegno
a mosaico, particolarmente apprezzate e diffuse in Africa occidentale, si
meritarono così l’appellativo di “africane”.
murrine "africane" antiche
La
prima volta che le incontrai ero a spasso in un mercato di Dakar. Oggi non sono
più facili a trovarsi e hanno diversi soprannomi a seconda dei paesi. Il mio
amico Babacar, appartenente a una famiglia di mercanti senegalesi da
generazioni, me le indicò con lo stravagante nome di “ciaciaciò”. Una sua
vecchia conoscenza ne aveva riportata un’interessante partita da Accra, in
Ghana: alcune decine di pesanti collier di millefiori a mosaico e altre perle
di baratto risalenti perlopiù alla seconda metà dell’Ottocento e di una varietà
impressionante. Perle schiette, monocolore, perle a oliva con disegni floreali,
perle con tracce consumate di avventurina, perle cilindriche, azzurre,
trasparenti, a melone, decorate di piume, di palme dorate, chevron verdi e blu
e molte altre, oltre ovviamente ai tronchetti millefiori di diversa specie. Non
tutte provenivano da Venezia. Ce n’erano di olandesi, iugoslave, e una certa
quantità di origine mediorientale accanto a esemplari di cui era difficile
accertare la provenienza. Babacar raccontava dando fondo alle sue conoscenze
mentre il mercante giunto da Accra attendeva una proposta di acquisto. Lo
facemmo trepidare un intero weekend. Abusando della sua pazienza riportai dalla
mia camera in affitto un libro dedicato alle perle africane ricco di disegni e
fotografie. Babacar è un uomo che ama ciò che tratta e vuole conoscerlo sempre
più a fondo, così che ci trovammo a trascorrere giornate sotto la tettoia della
minuscola boutique mentre nel mercato si spargeva la voce che era giunto uno
strano toubab (uomo bianco presso i wolof del Senegal) particolarmente esperto,
forse un ricchissimo mercante europeo pronto a grandi acquisti. Alla partita di
collier ghanesi ne seguirono altre di perle fabbricate in Africa, paste di
vetro realizzate da svariate etnie tra cui gli Astanti e i Krobo, popoli che una
volta appresa la tecnica dagli occidentali hanno iniziato a produrre perle con
risultati sorprendenti. Spuntavano tè e mercanti ovunque. Il gusto della
chiacchiera e della contrattazione trasformò la boutique di Babacar nel
crocevia più vitale del mercato, mentre il mio imbarazzo cresceva insieme alla
preoccupazione per il magro portafoglio che tenevo in tasca. “Babacar” mi confidai,
“ora cosa faccio? Che dico a questa gente? Io posso spendere soltanto un
centinaio di euro, non sono un mercante come credono…” Dalla bonaria autorità
dei suoi cento chili Babacar tentò di rassicurarmi. “Non preoccuparti, fai
quello che puoi, nessuno ti chiederà di più… C’est l’Afrique mon vieux, il faut
faire l’habitude!” E l’abitudine la feci, chiedendo un prestito dall’Italia e
precipitando all’improvviso, sotto il sole cocente del sahel, nella trappola
amorosa delle perle. Da amante a sposo quasi senza accorgermene.