VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

domenica 18 novembre 2012

DENIS JOHNSON - CRONACHE ANARCHICHE dall'America e dai confini del mondo - ALET 2005



Tornare a un raduno hippy nelle foreste dell’Oregon dopo 25 anni dal primo acido e scoprire la triste epitome della propria generazione, “una generazione di Peter Pan accuditi da Wendy austere e materne come Bill e Hillary Clinton”. Avventurarsi per la seconda volta e contro ogni buonsenso in una Liberia dilaniata da guerre civili mettendo a durissima prova la capacità di resistere alla paura e all’orrore fino ad ammettere, in un mare di guai, un cedimento alla codardia. Scegliere come viaggio di nozze un’escursione nelle solitudini dell’Alaska alla ricerca del metallo prezioso con cui costruire le fedi nella speranza realizzata di ritrovare una vita fondata “su cose basilari e immutabili che traggono forza da pochi elementi: fuoco, acqua, cibo, sesso, oro”. Atterrare in Etiopia con un aereo stracolmo di sacchi di chat, l’erba eccitante più diffusa nel Corno d’Africa, per raggiungere avventurosamente la Somalia e rimanere l’unico giornalista americano a Mogadiscio dopo l’uscita delle Nazioni Unite. Ritrovarsi a Dhahran quando scatta, nel 1991, la prima offensiva contro Saddam, e ancora piombare in una Kabul appena conquistata da minacciosi guerriglieri talebani con barbe intrecciate e turbanti sudici. Queste sono alcune delle imprese che Denis Johnson ci racconta in questo libro trasformando il reportage in un genere aperto a molteplici influenze e divagazioni. Da scrittore e poeta in bilico tra conciso realismo e sprazzi di visionarietà psichedelica, tanto da essere considerato uno dei migliori esponenti della drug literature, quando nel corso degli anni Novanta si trova ad essere corrispondente internazionale per il “New Yorker” e “Rolling Stones”, Johnson batte strade pericolose e marginali. Da una parte riesce a trovarsi in prima linea dove divampano conflitti in cui sono impegnati, direttamente o tramite la multiforme azione dei servizi segreti, gli Stati Uniti d’America, dall’altra si cala in realtà e aspetti sociali più intimamente americani. E anche qui, impegnandosi in illuminanti indagini “interne”, rivela una capacità notevole nel cogliere lo spirito ottuso e gli scabrosi fanatismi di gran parte della classe media. Nello scritto intitolato “Motociclisti nel nome di Gesù” prendiamo parte a un ritiro del reverendo Douglas Copeland, della Kenneth Copeland Ministries, azienda tele-evangelica dedita alla salvezza delle anime su vasta scala. Si tratta di un motoraduno pervaso da aneliti spirituali in tinta biker e infervorato da un trito ma funzionante populismo religioso, davanti al quale ci chiediamo se la “Chiesa motociclistica di Cristo” non sia un’espressione meno bacata di tanti altri fondamentalismi sparsi nel mondo. E’ anche questa l’America su cui occorre aprire gli occhi per capirne meglio il riflesso esterno nelle scelte più intransigenti della sua politica internazionale. Ma Johnson, addentrandosi nel dedalo di sette religiose più tranquillizzanti che colorano la realtà americana, scende nei luoghi desertici del sud lungo la punta orientale del deserto Yuma dove tra i segni di antiche civiltà scomparse e il baluginio in mezzo al nulla della città di Las Vegas trova “un paesaggio onirico di desolazione asteroidale e cumuli di scorie laviche.” E’ qui, in un sito apparentemente invivibile, che si sono stabiliti i Figli della Luce, 19 tra donne e uomini, una comunità di eletti che vive in assoluta autonomia ascoltando la Voce dell’anziana guida Eletta Opale. Non mettono nulla in vendita e non sollecitano contributi. Coltivano il cibo che mangiano grazie alla miracolosa scoperta di un lago sotterraneo d’acqua dolce e accumulano provviste per sopravvivere alla prossima fine del mondo ad opera del fuoco. Sembra  ormai di essere arrivati oltre i confini degli Stati Uniti così come di qualsiasi altro paese. E la silenziosa, apocalittica attesa dei Figli della Luce diventa un altro luogo estremo che questo strano reporter a caccia di guerre e di istanti mistici segna lungo il suo percorso.  

Denis Johnson



lunedì 24 settembre 2012

JOHN O'HARA - APPUNTAMENTO A SAMARRA


Di ottima famiglia borghese, figlio dello stimato primario di una piccola cittadina della Pennsylvania, Julian English è sposato con l'onesta e avvenente Caroline. La vigilia di Natale del 1930, al circolo Lantenengo, ha inizio la prima tappa del suo breve e disastroso calvario. Sul solito palcoscenico di quarta provinciale, nel corso della consueta cerimonia trasudante snobismo stantio, l'intera società bene di Gibbsville è presente alla scena, pronta a dar fondo a meschine gelosie fondate su arbitrari indizi e ad accendere la miccia dei suoi troppi annoiati livori. Julian, ubriaco, getta un bicchiere di whisky in faccia al magniloquente barzellettaio Harry Reilly, irlandese, cattolico nonché proprietario della concessionaria di auto di lusso per la quale lo stesso Julian lavora. E' uno sfogo istantaneo e improvviso che sceglie un pretesto, più che un obiettivo reale, per voltare le spalle a un mondo e precipitare senza alternative plausibili in un vortice di maledettismo alcolico. Lo scandalismo della gente di Gibbsville non si fa attendere e i pettegolezzi corrono fino ai fantastici retroscena di una relazione amorosa tra Harry Reilly e Caroline English. Julian, ormai impermeabile a ogni chiacchiera, nei tre giorni che seguono, anziché arrestarsi, moltiplicherà le sue sbornie compiendo gesti sempre più plateali e pericolosi. Il romanzo di John O'Hara, autore americano a suo tempo celeberrimo e lodato da Hemingway, di cui l'editore minimum fax avvia un'interessante riscoperta, condensa l'azione narrativa tra la sera della vigilia di Natale e la notte di Santo Stefano. Il sipario, sullo sfondo della Grande Depressione e del proibizionismo, si apre lentamente sulla società dell'America provinciale anni 30' restituendone scorci eloquenti, come quelli sulla vita degli immigrati nelle miniere di carbone, o ritratti vivissimi, tra cui quello di Tony Murasco, alias Al Greco, figlio di italiani che si districa in mezzo a vari furtarelli, tenta la carriera di pugile, assaggia la prigione, diventa un asso alla carambola e finisce per lavorare per il temibile contrabbandiere di alcolici Ed Charney. L'arena in cui le contraddizioni dell'amara e fulminea parabola del protagonista toccano le corde forse più drammatiche è quella della relazione con la moglie Caroline, che offre a O'Hara l'occasione di addentrarsi nelle dinamiche erotiche e amorose della coppia. I due, pur amandosi, non riescono a comprendersi. La rigidità forgiata nel perbenismo familiare di lei si scioglie completamente solo nei momenti di maggiore intimità dove la sottomissione nell'atto amoroso fa da controcanto alla forza spadroneggiante nelle restanti faccende della vita. Julian è invece un uomo che sta dando fuoco a tutto ciò che lo tiene legato al contesto di Gibbsville e la forza centrifuga coinvolge nel rogo anche il suo sentimento più caro. Enormemente ubriaco corteggia l'amante compiacente del boss Ed Charney sotto gli occhi di sua moglie e del guardiano Al. Si assenta con lei per addormentarsi in macchina mentre tutti li credono attori di un'avventuretta peccaminosa. Anche Caroline fraintende e ne resta avvilita. Ma Julian non si arrende e a un altro circolo cittadino combina l'ennesimo guaio, una rissa in cui malmena un avvocato polacco, mette a terra un cugino menomato della moglie e scaglia una caraffa contro un terzo malcapitato. Poi prende la macchina e si allontana da Gibbsville nel gelo invernale. Quando si accorge del nulla che lo attende, non diverso da quello che si è lasciato alle spalle, fa retromarcia, diserta un appuntamento importante e si seppellisce nel salotto di casa da cui la moglie è scappata. "Adoperava il vaso di fiori per bere da fermo e il bicchiere quando si muoveva." La sua avventura finirà di lì a poco. A trent'anni. Il 26 dicembre 1930. 

John O'Hara
 fiori per bere da fermo e il bicchiere quando si muoveva.iato alle spalle, fa retromarcia, diserta un appun  

sabato 15 settembre 2012

MARCO AIME - IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA


L’immagine dell’antropologo vecchio stampo, metà scienziato e metà avventuriero in mondi e società sconosciute, è stata oggi sostituita da quella di uno studioso alle prese con un complesso sistema di relazioni umane da sondare verificando di continuo la propria posizione di osservatore. L’antropologia culturale, prese le distanze dall’etnocentrismo di matrice coloniale, predilige un atteggiamento relativista, consapevole del fatto che la metodologia di approccio condiziona i risultati e che l’equilibrio da ricercarsi corre lungo il labile confine tra sguardo eccentrico e osservazione partecipante. Marco Aime, in questo libro che è un compendio del pensiero antropologico degli ultimi due secoli e al tempo stesso una sua rilettura originale, sceglie per la sua esposizione un approccio “percettivo” e attraversa molteplici sistemi culturali partendo da concetti elementari quali corpo, procreazione, alimentazione, comunicazione, scambio, creatività, credenze soprannaturali. Dopo una panoramica introduttiva sulle diverse scuole di pensiero cha vanno dall’evoluzionismo sociale della seconda metà dell’Ottocento al postmodernismo statunitense nato negli anni Settanta del Novecento sulla scia della decolonizzazione, l’indagine attorno al corpo racconta la sua trasformazione, comune a tutte le società, da corpo naturale in corpo culturale. Le capigliature rasta delle popolazioni oromo dell’Etiopia, le pitture facciali e quelle corporali degli hagen della Nuova Guinea, le scarificazioni e i tatuaggi, questi ultimi di origine polinesiana ed esportati in occidente dai marinai dell’epoca, sono segni di un corpo malleabile. Si tratta di interventi che incidono a volte oltre la pelle, come nel caso dell’allungamento del collo, dei piattelli labiali, della dolicocefalia o allungamento del cranio presso i mangbetu congolesi, della compressione dei piedi e delle mutilazioni genitali, fino alle varie pratiche della chirurgia estetica e a quella del piercing. In conformità all’idea di un uomo che inventa la propria vita restando in bilico tra natura e cultura, pulsioni istintive ed elaborazioni concettuali, anche la procreazione, la crescita e la morte sono percepite in modo specifico nei differenti contesti sociali. Il parto gemellare può essere considerato un segno malefico o una benedizione. L’età biologica assume un significato sociale grazie a un sistema di divisione della popolazione per classi di età che ubbidisce alle regole delle diverse culture. L’idea di “commestibilità culturale” ci trasforma da semplici mangiatori biologici a mangiatori sociali di un cibo che dev’essere prima di tutto “buono da pensare”, filtrato da condizionamenti religiosi e rigore tradizionale. Le forme di linguaggio, così come le scritture, siano esse pittografiche, logografiche, ideografiche o alfabetiche, sono marcate da una straordinaria biodiversità, che rende variegato anche il panorama delle tradizioni orali, specie africane, con la loro spettacolare dimensione teatrale. Povero e omologato è il nuovo linguaggio del web, delle chat lines, degli sms e delle email, in cui l’antropologo vede la deriva della scrittura verso modalità sempre più colloquiali. Il relativismo critico di Aime è particolarmente affilato quando, tra le varie forme di governo, passa al vaglio quella democratica. La misura della democrazia è da ricercarsi nella sua effettiva pratica partecipativa piuttosto che nella sua impalcatura formale, un modello che si regge essenzialmente sulla delega delle decisioni ad altri. La gestione collettiva e partecipata del consiglio di villaggio appare così più democratica di molti governi parlamentari africani modellati sul sistema occidentale. Un breve viaggio attorno al concetto di arte dimostra invece come l’originalità, ritenuta suo fondamento, non è in realtà un dato universale ma spiccatamente culturale e talvolta neppure indispensabile, come nel caso del Sudest asiatico, dove gli artisti tendono a riprodurre schemi tradizionali. 

Marco Aime

giovedì 13 settembre 2012

IAN HOLDING - NEL MONDO INSENSIBILE



Ian Holding, che vive e lavora ad Harare, in Zimbabwe, si è ispirato alla storia di un suo allievo per raccontare in forma di romanzo il disastro sociale del proprio paese, le efferatezze e i saccheggi che hanno marcato la vicenda post-coloniale. Lo ha fatto con una capacità di scrittura che l’ha posto tra i finalisti del Dylan Thomas Prize e con l’onestà di spartire le responsabilità dei crimini tra bianchi e neri, mostrando tutta la bruta violenza che ammorba entrambe le comunità. Lo Zimbabwe è travestito da nazione senza nome, una specie di Stato esemplare, modello di tante simili situazioni africane. Davey è un adolescente cui una banda di sicari massacra i genitori Leigh e Joe Baker, agricoltori bianchi insediati da generazioni nella fiorente fattoria di Edenfields. Mandante dell’omicidio e dello scempio dei corpi è una volgare politicante nera, dispotica accaparratrice che si arroga il diritto di appropriarsi della terra senza curarsi di nessuna legge. Edenfields diventa così il campione di un quadro generale in cui gruppi di potere corrotti si scagliano sui fattori per strappare loro vaste proprietà che da granai del paese si trasformano presto in campi trascurati. Il racconto della tragedia sociale, causata dalla spropositata quanto strumentalizzata reazione al razzismo bianco, passa attraverso il dramma individuale di Davey, segnato a vita dall’esperienza di una crudeltà straordinaria. La zia Marsha che tenta di assisterlo giunge a pensare che per lui sarebbe stato meglio scomparire insieme ai genitori. L’elaborazione e le metamorfosi successive del dolore sono riferite con grande intuito psicologico dallo scrittore-insegnante. Dalla gelida apatia del ragazzo traumatizzato a una forma di masochismo compensatorio; dall’assunzione smodata di alcol e droghe alla trasformazione del sesso femminile in “una cavità umida in cui riversare il proprio odio come una nave cisterna che vomiti morchia.” Si tratta di un notevole climax che passando attraverso il torbido piacere provato nell’ammazzare un coniglio approda alla pulsione omicida che farà di Davey un vendicatore spietato. Il romanzo sviluppa attorno al nucleo della vicenda digressioni che completano l’affresco del dissimulato Zimbabwe allo sfascio. I sacchi da obitorio riciclati in cui sono avvolti Leigh e Joe, la trama di battute e atteggiamenti razzisti della ristretta comunità dei proprietari terrieri, l’incongruo servizio sulla rivista “Garden and Home” interessata al grazioso giardino di zia Marsha o la musica classica che inonda le verande coloniche, sono tasselli stridenti ma verosimili di un libro che precipita verso una disfacimento collettivo e privato. La lunga strada che Davey copre a piedi per compiere la sua vendetta è un’ulteriore iniziazione all’orrore inframmezzata da qualche ingannevole respiro bucolico. Tra gli incontri c’è quello di un vecchio ritirato in una capanna dalla vista magnifica che sotto un genuino anelito spirituale cova l’infondata speranza di diventare un agricoltore. Poco lontano da lui alcuni ragazzi scheletrici saccheggiano la marcescente carcassa di un bufalo nella savana e una coppia di bianchi alcolizzati sopravvivono a loro stessi torturandosi a vicenda. Il villaggio dove alcuni soldati irregolari trascinano Davey viene messo a ferro e fuoco. Immobilizzato e picchiato, il giovane bianco assiste ad atroci violenze. Prima di sfuggire alla mattanza scorge il cranio di un uomo sfondato a bastonate che ha in bocca il pene reciso del suo bambino. Siamo al road movie dell’orrore africano, immagini rabbrividenti dal mondo insensibile che una buona letteratura a tinte fortissime sa raccontare. Tra la legittima rivendicazione di uguaglianza e autonomia e lo sfogo di un sentimento di rabbia fomentato da neri incapaci il cui obiettivo sono i benefici del potere corre un filo sottile che Holding esplora dal cuore dell’Africa.  

Ian Holding

domenica 2 settembre 2012

La trappola amorosa delle perle


E’ iniziata aggirandomi nel frastornante labirinto dei mercati africani. Attratto dalle voci, dagli sguardi, dai richiami delle mani, dalle insistenze trascurate e dagli inviti irrinunciabili. E’ iniziata sedendomi a osservare, accanto a un tè e assi di legno che si riempivano di mercanzie. Collane di ogni sorta proposte come antiche e moderne, infilate di perle in vetro, pietre dure, fusioni in bronzo, ciondoli prodotti da svariate etnie, depositi europei giunti in Africa il giorno prima, anni, decenni o secoli prima. Un labirinto dentro un labirinto. Orientarsi era un miracolo. Ascoltavo la parola del mercante con prudenza, bilanciandomi tra stupore e diffidenza, confrontando le opinioni e cercando di capire senza assecondare subito il desiderio di portare a casa frammenti di un mondo sconosciuto. Occorreva pazienza, virtù che accomuna l’amante di perle al collezionista, al viaggiatore curioso, al cultore di oggetti che diventano scrigni di passato, sedimenti che riflettono un prisma infinito di storie, superfici, infine, riflettenti la pura bellezza delle loro profondità. Le perle sono questo: mirabili colpi di bellezza preparati da antiche sapienze artigianali, da equilibri di tinte, sfumature, inventiva di forme, preziosi pigmenti e il valore aggiunto del tempo, il lavorio degli anni e del caso che creano quella famosa patina antiquaria e in un processo di lunga selezione naturale rendono sempre più raro quell’unico pezzo superstite segnato in quel solo unico modo da secoli di invecchiamento. Ma allora, agli albori della passione tra i mercati di Dakar e Bamako o di qualche sperduto villaggio africano, non ero ancora affetto dalla tenera ossessione delle perle. Ero come un bimbo affascinato da un giocattolo, un innamorato ignaro di trovarsi a un passo dalla splendida trappola amorosa. Spigolavo nell’immenso serbatoio di vita dei mercati, raccoglievo i primi campioni e chiedevo a conoscenti, di ritorno dai miei viaggi consultavo libri, navigavo tra pagine cartacee e pagine di siti dedicati all’universo delle perle. Quelle di vetro catturarono gran parte della mia attenzione. Come me erano state segnate dal destino del viaggio. Nel caso delle più antiche, si erano mosse per secoli da una mano all’altra, da un Continente all’altro, assaggiando le sabbie del deserto, le tende dei nomadi, il petto di regine e popolane, assurte al rango di regalo principesco o trasformate in sostituti del denaro, alternativa alla moneta corrente o merce di scambio per comunità tribali ai cui occhi diventavano oggetti magici con valenze apotropaiche. La principale produttrice del secondo millennio fu Venezia. Le prime tracce in laguna risalgono al 1292, quando un decreto del Maggior Consiglio stabiliva che per ragioni di sicurezza le vetrerie non potevano più essere costruite a Venezia ma solo a Murano. I procedimenti di fabbricazione di vetri e quindi delle perle dovevano rimanere segreti e ne era vietata, sotto pena di morte, la divulgazione fuori dal territorio veneziano. Si trattava in principio di perle destinate a formare prevalentemente rosari e chiamate “paternostri”. Il metodo usato dai perlai “paternostreri” consisteva nell’accumulare attorno a un ferro coperto da un impasto terroso il vetro in barre scaldato a un’intensa fonte di calore. Era una tecnica già utilizzata nella più remota antichità alla quale seguì, verso la fine del Quattrocento, un nuovo modo di fare perle partendo da una canna forata che tagliata in pezzettini forniva altrettante perle dette paternostri “colorati”, “a rosette” e “oldani”. L’invenzione della canna forata consentì di produrre perle in grande quantità. Ai “paternostreri” di Murano si affiancarono i “margariteri”, dal nome di Maria Barovier cui viene attribuita la novità delle canne di vetro con sezioni colorate concentriche, mentre si andava sviluppando un’altra produzione, quella delle perle “a lume”, realizzate con tecniche di avvolgimento sulla fiammella di una lampada a olio. La richiesta internazionale si fece sempre più forte e al moltiplicarsi in varietà e numero delle perle veneziane, tra cui le celebri perle a “rosetta” o “chevron”, corrispose l’espatrio illegale di non pochi vetrai. Nel corso dei Seicento nuovi centri di fabbricazione si svilupparono nelle regioni baltiche, in Belgio, Francia, Svizzera, Inghilterra, Olanda, Russia, Boemia e Moravia, dove accanto a perle autoctone si producevano grandi quantità di perle “alla maniera di Venezia”. Ma nonostante la concorrenza i perlai della Serenissima riuscirono sempre a dominare il mercato e nel 1606 si contavano a Venezia ben 251 fabbricanti di perle di vetro. Dopo la crisi seguita alla caduta della Repubblica per mano di Napoleone, nel 1797, l’industria perliera veneziana riprese vigore nella seconda metà dell’Ottocento sulla scia dell’apertura dei commerci verso terre lontane. Esploratori, missionari e mercanti portavano con sé perle offerte in dono o utilizzate come merce di scambio con un gran numero di popoli e gruppi etnici, dagli indiani del Nord America agli abitanti dell’Africa. Nel quadro di attività commerciali lecite o vergognose come la tratta di schiavi (acquistati anche a suon di murrine!), conobbe così un enorme successo la grande e variegatissima famiglia delle cosiddette perle di baratto, le “trade beads” dei mercati anglofoni, che seguirono itinerari spesso tortuosi e vennero esportate verso colonie e terre di conquista fino alla prima Guerra Mondiale. Le perle veneziane di forma cilindrica con disegno a mosaico, particolarmente apprezzate e diffuse in Africa occidentale, si meritarono così l’appellativo di “africane”.

murrine "africane" antiche

La prima volta che le incontrai ero a spasso in un mercato di Dakar. Oggi non sono più facili a trovarsi e hanno diversi soprannomi a seconda dei paesi. Il mio amico Babacar, appartenente a una famiglia di mercanti senegalesi da generazioni, me le indicò con lo stravagante nome di “ciaciaciò”. Una sua vecchia conoscenza ne aveva riportata un’interessante partita da Accra, in Ghana: alcune decine di pesanti collier di millefiori a mosaico e altre perle di baratto risalenti perlopiù alla seconda metà dell’Ottocento e di una varietà impressionante. Perle schiette, monocolore, perle a oliva con disegni floreali, perle con tracce consumate di avventurina, perle cilindriche, azzurre, trasparenti, a melone, decorate di piume, di palme dorate, chevron verdi e blu e molte altre, oltre ovviamente ai tronchetti millefiori di diversa specie. Non tutte provenivano da Venezia. Ce n’erano di olandesi, iugoslave, e una certa quantità di origine mediorientale accanto a esemplari di cui era difficile accertare la provenienza. Babacar raccontava dando fondo alle sue conoscenze mentre il mercante giunto da Accra attendeva una proposta di acquisto. Lo facemmo trepidare un intero weekend. Abusando della sua pazienza riportai dalla mia camera in affitto un libro dedicato alle perle africane ricco di disegni e fotografie. Babacar è un uomo che ama ciò che tratta e vuole conoscerlo sempre più a fondo, così che ci trovammo a trascorrere giornate sotto la tettoia della minuscola boutique mentre nel mercato si spargeva la voce che era giunto uno strano toubab (uomo bianco presso i wolof del Senegal) particolarmente esperto, forse un ricchissimo mercante europeo pronto a grandi acquisti. Alla partita di collier ghanesi ne seguirono altre di perle fabbricate in Africa, paste di vetro realizzate da svariate etnie tra cui gli Astanti e i Krobo, popoli che una volta appresa la tecnica dagli occidentali hanno iniziato a produrre perle con risultati sorprendenti. Spuntavano tè e mercanti ovunque. Il gusto della chiacchiera e della contrattazione trasformò la boutique di Babacar nel crocevia più vitale del mercato, mentre il mio imbarazzo cresceva insieme alla preoccupazione per il magro portafoglio che tenevo in tasca. “Babacar” mi confidai, “ora cosa faccio? Che dico a questa gente? Io posso spendere soltanto un centinaio di euro, non sono un mercante come credono…” Dalla bonaria autorità dei suoi cento chili Babacar tentò di rassicurarmi. “Non preoccuparti, fai quello che puoi, nessuno ti chiederà di più… C’est l’Afrique mon vieux, il faut faire l’habitude!” E l’abitudine la feci, chiedendo un prestito dall’Italia e precipitando all’improvviso, sotto il sole cocente del sahel, nella trappola amorosa delle perle. Da amante a sposo quasi senza accorgermene.   

martedì 14 agosto 2012

AMADOU HAMPATE BA - IL SAGGIO DI BANDIAGARA


C’è un libro che ho tenuto a lungo sul comodino. Racconta la vita, la parola e l’insegnamento di Tierno Bokar (1875-1940). Lo rileggo spesso, a tratti. Prima di cercare la traduzione italiana e di scoprire che Peter Brook ne ha offerto una mirabile versione teatrale, ho acquistato a Dakar l’edizione francese pubblicata dalle Éditions du Seuil nel 1980. L’autore, allievo del maestro sufi di Bandiagara, villaggio maliano nei pressi della falesia dei Dogon, è Amadou Hampaté Bâ. Tierno Bokar non ha lasciato nulla di scritto, ma la sua parola può ancora riverberarsi grazie al lavoro del grande scrittore, etnologo e storico delle tradizioni africane, riferimento essenziale per chiunque voglia avvicinarsi a quelle culture e a quell’universo spirituale. Sono pagine capaci di dispormi a una forma di serena concentrazione indotta dalla lettura di una lezione di saggezza e amore incarnato in una vita trascorsa nell’osservanza della legge rivelata mai disgiunta dal suo senso mistico. Ogni professione di fede e ogni devozione sono praticate e insegnate da Tierno Bokar con un intuito tanto profondo quanto semplice nella forma del suo offrirsi, grazie ad apologhi che mirano al cuore dell’ascoltatore con rara intensità maieutica. Fu un uomo, le sage de Bandiagara, capace di adattare i suoi insegnamenti alle diverse capacità di comprensione dei suoi interlocutori, inventando parabole che seminano grani luminosi in ogni spirito. Il racconto del pozzo che si nutre di acque filtrate dalla terra e non dai saltuari rivoli della superficie, quello delle tre diverse luci, dei tre gradi della fede, quello del commerciante avaro o dei molti bambini con un solo padre sono gemme scelte da uno scrigno di raffinatissima sapienza. Tierno Bokar, marginalizzato e perseguitato sul finire della vita, illustrando la potenza del Verbo divino sosteneva che tutto, nell’universo, a tutti i livelli, è vibrazione e solo le differenze di velocità di queste vibrazioni ci impediscono di percepire le realtà che chiamiamo invisibili. Usava a proposito l’immagine dell’elica di un aereo, che soltanto a partire da una certa velocità di rotazione diventa invisibile. "Dite: noi crediamo in Dio, in ciò che è stato rivelato a noi e in ciò che fu rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, e alle Dodici Tribù, e in ciò che fu dato a Mosè e a Gesù, e ai profeti dal Signore; non facciamo differenza alcuna tra loro e a Lui tutti ci diamo!” Si tratta di un versetto coranico (II, 136) citato in queste pagine che ricorda la radice unica di tutte le grandi religioni monoteiste. Un illusorio prisma si concentra in un solo raggio e cammini in apparenza distanti si conciliano rischiarati da un occhio che mira all’essenza, restaurando quella che il maestro chiamava la religione primordiale.

Amadou Hampate Ba

Amadou Hampate Ba, a proposito delle tradizioni orali africane :

mercoledì 1 agosto 2012

JUAN JOSE' SAER - L'INDAGINE



Morvan è un commissario di polizia che a quarant'anni si trova completamente solo, reduce da un fallimento matrimoniale con Caroline, senza figli, con un padre morto suicida e una madre scomparsa subito dopo la sua nascita. E' un uomo paziente, meticoloso, schivo e affetto da un sonnambulismo che trasforma le sue solitarie passeggiate parigine in visionarie panoramiche su una città crepuscolare, fantasmatica, intrisa di immagini inquietanti. Nel decimo e undicesimo arrondissement, attorno a piazza Léon Blum, la sanguinaria follia di un mostruoso assassino ha fatto strage di ventisette vecchiette, squartate, violentate e sventrate accuratamente al termine di amabili cenette tete-à-tete. Morvan viene nominato capo del distaccamento speciale preposto alle indagini. Dall'altra parte del mondo, in Argentina, tre amici di vecchia data, Tomatis, Pichon e Soldi, sono accomunati dalla passione per il ritrovamento del dattiloscritto di un estroso romanzo storico, di autore anonimo, ambientato nell'accampamento militare greco alle porte di Troia ancora inattaccabile. Due universi separati, quello dell'indagine del commissario e quello delle chiacchierate degli amici in una caldissima notte di fine estate, che collidono quando scopriamo che la storia di Morgan è narrata proprio da Pinchon ai due compagni tra sorsi di birra rinfrescante e dense boccate di sigari cubani, in un'atmosfera di attesa sospesa e rarefatta. Juan José Saer, uno dei più notevoli scrittori argentini scomparso a Parigi nel 2005, fondendo in un originalissimo esercizio letterario le sue competenze giuridiche, filosofiche e cinematografiche, ci intriga in una narrazione realistica e metafisica, colma di elementi in apparenza incongrui ma che entrano a far parte di un'unica indagine sottile, da romanziere attento agli sviluppi della trama ma incline per natura ad addentrarsi nel più fitto mistero dell'umano. Basterebbe pensare, per accogersene, al modo in cui rivela gradualmente il passato del solitario Morvan, fino a quella decisiva ferita della scomparsa materna, o all'acume clinico e sentimentale con cui restituisce i ritratti delle sfiorite pensionate metropolitane, tra gli ultimi vezzi di esistenze al tramonto e quella verità raggiunta solo quando non c'è più niente da perdere, "una sincerità senza premeditazione" a cui Saer rende omaggio in alcune delle pagine più belle. O ancora, per provare quanto lo scrittore sia interessato al risvolto più interiore dell'indagine poliziesca, basterebbe rileggere il passo in cui Pinchon, sospetto alter ego del narratore, confessa il suo improvviso accesso all'età adulta quando si accorge che il ritorno nel suo luogo natale, l'Argentina, non gli dà più alcuna emozione, perché essere veramente adulti significa ormai riconoscere che la propria patria non è un luogo spaziale o geografico, ma qualcosa di "fisico, chimico, biologico, cosmico".   L'indagine è insomma un libro che leggiamo e percepiamo a più livelli, curiosi di seguire le scie dell'assassino e sorpresi di imbatterci in intuizioni di portata universale che possono trasformare un racconto realistico in un dissimulato trattato filosofico. Mentre nella sudatissima notte sudamericana ci si arrovella attorno alle ipotesi del possibile colpevole, a Parigi, nel corso del ventottesimo omicidio, l'introvabile sterminatore seguito dal distaccamento speciale e da tutti i quotidiani del mondo compie il primo passo falso lasciando un pezzettino di carta rivelatore nel corridoio d'entrata dell'appartamento della vecchietta martoriata. Si tratta del lembo di una lettera stracciata poco prima nella stanza del commissario. E in un epilogo sorprendente i sospetti passeranno all'improvviso dalla preda all'inseguitore, stringendo la rete proprio attorno a lui, Morvan, ventinove volte matricida. Anche se nulla, dopo un finale dei finali ambiguamente duplice, possiamo dire con certezza.



Juan José Saer

martedì 10 luglio 2012

KEN SARO-WIWA - SOZABOY


Dukana è un tranquillo villaggio nigeriano in cui gli echi della politica e dei disastri del regime militare arrivano attutiti, per via di occasionali racconti. Il Pastore Bàrika annuncia la fine del mondo, il capo villaggio, Chief Birabee, continua le sue piccole pratiche di taglieggiamento quotidiano a spese degli ingenui abitanti, ma tutto sommato la vita scorre insensibile agli ammazzamenti di Lagos e alle avvisaglie della guerra che si sta preparando. Lo sguardo attraverso il quale ci viene raccontata la storia è quello del giovane Mene, apprendista autista, che assiste a quel che gli capita con disarmato candore e sogna ad occhi aperti un favoloso avvenire. Prende in moglie la bella Agnes i cui seni lo sconvolgono come perfette colline appuntite e la porta nella casa materna mentre un altro sogno si fa strada nel suo animo semplice. Suggestionato dai mitici racconti delle gesta guerresche del compaesano Zaza, sedicente eroe di una campagna in Birmania contro il potente nemico Hitla (da leggersi come Hitler in un fantastico rimando al secondo conflitto mondiale), Mene ambisce con entusiasmo di giorno in giorno crescente a farsi soldato. Sconsigliato dalla madre ma appoggiato dalla giovane sposa raggiunge la città di Pitakwa in occasione di un incontro allo stadio, dove un alto graduato imbastisce un pomposo discorso in favore dell'arruolamento davanti a una folla di ragazzi giunti da villaggi vicini e lontani. Raccolta l'indispensabile bustarella per entrare nell'esercito Mene si trasforma così in Sozaboy, contrazione gergale di soldier boy, ragazzo soldato. Il capolavoro di Ken Saro-Wiwa, martire civile impiccato dieci anni fa al termine di un processo farsa per aver dato vita a una battaglia pacifica a difesa della sua etnia, gli ogoni, le cui terre venivano devastate dal dissennato sfruttamento petrolifero del delta del Niger, è un romanzo che racconta la guerra civile del Biafra guardandola dal basso e inventando un linguaggio, quello parlato dal Sozaboy, che come premette l'autore "è ciò che chiamo rotten English (pessimo inglese), un amalgama di pidgin nigeriano, inglese sgrammaticato, e buon inglese, con punte addirittura idiomatiche". La traduzione in italiano, tentata ora per la prima volta dopo vent'anni dalla pubblicazione del libro, riesce malgrado gli inevitabili impoverimenti a restituirne l'effetto sbalorditivo. L'eroe e io narrante di Saro-Wiwa è una specie di Don Chisciotte rivisitato da una trasecolata verve surrealista che al prezzo di una durissima serie di colpi impara ad essere uomo e a vedere la guerra in tutto il suo nudo e insensatissimo orrore. Vede arrivare un aereo e qualcosa che cade verso terra. Si mette a ridere come se un bizzarro uccello volante scaricasse bozzoli di escrementi ma un attimo dopo assiste al cruento spettacolo dei corpi dei compagni ridotti a brandelli dal bombardamento. In fuga per giorni nella foresta, il giovane soldato scampato al massacro viene raccolto, imprigionato e torturato dal nemico che lo grazierà per miracolo arruolandolo come autista nelle sue fila. Le avventure di Mene-Sozaboy sono una carrellata di orrori e assurdità per cui stare da una parte o dall'altra del fronte risulta assolutamente indifferente e quello che è certo è soltanto l'universale cataclisma della guerra civile. Nella corsa verso la conclusione queste avventure si trasformano in un fuga alla ricerca della madre e della moglie scomparse ormai da due anni. Sozaboy attraversa l'incubo inumano dei campi profughi con "tutta quella gente con i capelli lunghi lunghi e la pancia grande grande e le gambette da zanzara". Tra sorprese sconvolgenti che completeranno il suo percorso di iniziazione approderà stremato al villaggio natale, Dukana, in cui tutti sono pronti a linciarlo come un fantasma malefico e lo storpio Duzia gli darà notizia della morte sotto le bombe della madre e della bellissima Agnes. 

Ken Saro-Wiwa

ROBERTO SAVIANO PARLA DI KEN SARO-WIWA E DI SOZABOY:


L'ULTIMA INTERVISTA DI KEN SARO-WIWA:

martedì 3 luglio 2012

JOSE' SARAMAGO - LE INTERMITTENZE DELLA MORTE




Le strategie romanzesche di Saramago prendono spesso avvio da paradossi eclatanti, sovvertimenti di regole naturali che producono conseguenze condotte dallo scrittore portoghese fino agli estremi sviluppi. In questo caso è la morte a indire un sciopero che scoccato alla mezzanotte del 31 dicembre sconvolge gli equilibri sociali e politici di un innominato paese. I moribondi restano eternamente tali, incidenti e tentati omicidi, benché efferati, non producono effetti letali e i ricoveri per la terza età, le tristi "dimore del felice occaso" si avviano a un sovraffollamento ingestibile. E' stato d'allarme. Il primo ministro, emesso un comunicato ufficiale che ratifica l'incredibile sciopero, riceve una drammatica telefonata dal cardinale. "Senza morte non c'è resurrezione e senza resurrezione non c'è chiesa." Il clero, se da una parte tranquillizza i fedeli invitandoli alla rassegnazione di fronte agli imperscrutabili disegni divini, dall'altra sente minacciate le fondamenta dei propri disegni e rimedi teologici. E come sempre nei frangenti cruciali c'è chi converte i disastri pubblici in copiosi tornaconti personali. I rappresentanti delle agenzie di pompe funebri, toccati nel portafoglio, chiedono che vengano ufficialmente riconosciute e diffuse la sepoltura e la cremazione degli animali domestici. Alcune famiglie, il cui esempio viene presto seguito da molte, iniziano a trasportare vecchi infermi e malati terminali oltre le frontiere dello stato, dove la morte non ha ancora cessato la sua attività. Il governo, nel tentativo di fermare questo increscioso traffico di moribondi, sparpaglia un po' dappertutto agenti e sorveglianti che vengono però malmenati dalla maphia, reinventata all'occorrenza con la semplice modifica della f in ph, la quale mafia finisce per gestire il traffico in proprio. A tutte queste ansie e malversazioni si aggiungono poi, secondo logiche quanto inverosinili deduzioni, altri problemi che affliggono l'amministrazione statale, tra cui la non piccola minaccia di dover pagare in eterno pensioni di vecchiaia e invalidità. José Saramago, avviluppando il lettore nella spirale della sua prosa dai tratti barocchi e concettuali, districandosi con provata maestria tra il novero di pietosi casi individuali e speculazioni ironicamente metafisiche, spinge il romanzo fino a un punto limite. Al direttore della televisione giunge una lettera firmata dalla morte stessa che annuncia la sospensione dello sciopero a partire dalla prossima mezzanotte. Manco a dirlo, è nuovo panico. Il direttore corre in udienza privata dal primo ministro, che decide di non rendere pubblico il comunicato prima delle ore 21 al fine di limitare a sole tre ore l'immaginabile stato di subbuglio generale. Ma dopo la mezzanotte un'altra bizzarria si aggiunge al ritorno della nera signora armata della sua falce millenaria. La morte decide di inviare a ciascun morituro nei confini del paese una letterina con la quale annuncia la propria visita con sette giorni di anticipo. Una pena insopportabile per i cittadini che si disperano nella consapevolezza di dovere spirare nel tal giorno e alla tal ora. Una pena per tutti tranne che per un solo uomo che rispedisce la letterina al mittente. Si tratta di un violoncellista quarantanovenne cui la morte, stupita di tanta impudenza, decide di fare visita. Si apre così il capitolo finale del libro, una virata che trasforma la fantastica storia collettiva dell'innominato paese in un'avventura tra un'artista solitario e un bellissimo fantasma che decide di concedersi per la prima volta un amore mortale. Galeotto, lo spartito della suite in re maggiore di Bach che finalmente, dopo vane prove e riprove, il violoncellista esegue con tocco impeccabile. Dopo averla ascoltata, "la morte tornò a letto, si abbracciò all'uomo e, senza ben capire quel che le stava succedendo, lei, che non dormiva mai, sentì che il sonno le faceva calare dolcemente le palpebre."    

José Saramago

JOSE' SARAMAGO INTERVISTATO DA SERENA DANDINI:


lunedì 25 giugno 2012

DAMON GALGUT - L'IMPOSTORE



Damon Galgut, nato a Pretoria nel 1963, è uno dei più interessanti scrittori sudafricani. In questo ultimo romanzo restituisce un quadro efficace del suo paese che si specchia nella storia esemplare del protagonista Adam Napier. Tutti i personaggi dell’Impostore sono forti ritratti psicologici e modelli di uno status sociale in un Sudafrica dall’identità sfuggente, le cui uniche certezze sono l’affarismo spregiudicato e il mai sopito odio interrazziale. Un contesto da cui il quarantenne bianco Adam, lasciato il lavoro e ogni bene materiale, tenta di fuggire isolandosi in una casetta di campagna appartenente al fratello Gavin, “un costruttore edile disonesto, ossessionato dalla rubinetteria economica”. L’uomo di mezza età in profonda crisi, autore di una giovanile e mediocre raccolta di versi, vuole riconsegnarsi anima e corpo alla poesia, traendo ispirazione dal magnifico paesaggio del Karoo, circa otto ore da Città del Capo. Un proposito velleitario, quello di liberarsi da ogni compromesso per lasciare spazio al “suo io fondamentale”, di cui lui stesso non appare molto convinto. Il senso di “calma incolore” del suo rifugio, un tempo inchiodato a un’eterna domenica pomeriggio, l’assenza della storia e dei fatti che si svolgono nelle lontane città, lo sprofondando nella depressione e trascorre intere giornate a contemplare gli squallidi locali della vecchia proprietà o le mosse di un misterioso vicino che come lui si nasconde al mondo. Ma anche in questo luogo remoto giungono i segni del disagio generale. Basta fare un giro nel villaggio per accorgersi della povertà, della frustrazione degli abitanti e della situazione pietosa della limitrofa township, il quartiere ghetto dei neri non molto diverso da quelli cittadini. L’opinione della gente attorno alla nuova strada in costruzione, che porta sviluppo ma anche prostituzione e criminalità, oscilla tra aspettative di progresso e nostalgie di un passato bucolico. E’ il tipico contrasto psichico della mentalità sudafricana, divisa tra slancio verso il futuro e conservatorismo. Mentre l’ispirazione poetica di Adam tace e il senso del fallimento personale sembra arrivato a un punto di non ritorno, appare come un fantasma Kenneth Canning, un vecchio compagno di scuola, ex commerciante mezzo alcolista che ha ereditato dall’odiato padre una riserva di caccia nei dintorni. Il sogno del feudatario antica maniera, un appezzamento di terra selvaggia ai piedi di una gola verdeggiante, diventa la meta preferita dei week-end di Adam e nel contesto meno prevedibile svela tutte le nefandezze del Sudafrica da cui l’improbabile poeta aveva preso le distanze. La riserva di Gondwana è oggetto di una speculazione guidata dal trafficante internazionale Genov, che grazie alla complicità dei nuovi politici neri vuole trasformarla in un lussuoso campo da golf. Trascinato da un destino che Damon Galgut scandisce con stile forte e asciutto, Adam Napier si trova immerso in un thriller dall’esito quasi fatale. Diventa l’inconsapevole corriere di soldi consegnati al sindaco per ottenere i permessi abusivi di costruzione e viene irretito dalla trappola erotica di Bimba, la giovane moglie di Canning, ex prostituta d’alto bordo. Fredda e irresistibile, contemporanea amante del pericoloso Genov, la donna prende il posto dell’ambizione poetica. “Quando è a letto con lei, il clamore della coscienza si raccoglie in un calor bianco in cui passato e futuro convergono”. Galgut coglie tutta l’ambiguità del male nascosto nella seduzione femminile fiorita dalla miseria e nella violenta sete di potere delle classi emergenti. Un vortice da cui Adam Napier riesce a scampare all’ultimo tuffo, facendo ritorno a quella civile vita borghese che in fondo era sempre stata la sua.     


Damon Galgut

mercoledì 20 giugno 2012

W.G. Sebald - LE ALPI NEL MARE


Analitica e sinuosa, la prosa di Sebald fa di questi brevi scritti un piccolo tesoro di meditazione letteraria in cui la vita e le visioni strappate al suo fluire dialogano con l’universo delle cose che non sono più, in un intreccio di cronaca e testimonianza, memorie storiche e personali. I quattro racconti editi nella Biblioteca minina adelphiana e tratti dal libro postumo Campo Santo sono il resoconto dell’ultimo viaggio dello scrittore in Corsica. Il percorso inizia con la Breve escursione ad Ajaccio, nel museo del cardinale Flesh, zio di Napoleone e infaticabile collezionista d’arte. L’attenzione di Sebald si focalizza su un duplice ritratto dell’artista lucchese del Seicento Pietro Paolini, un’opera in cui due figure femminili emergono a stento dallo sfondo giocando con una tenebra che svela il sottilissimo panneggio delle vesti. I cimeli napoleonici e la minuscola custode di Casa Bonaparte, straordinariamente somigliante all’imperatore, sono parte di un ambiente rimasto quasi identico a come lo aveva descritto Flaubert nei suoi diari. La clamorosa ascesa di un piccolo monello a spasso per i vicoli di Ajacco fino alla conquista dell’Europa offre lo spunto per una riflessione su quei minimi dettagli che mutano il corso imponderabile della storia, e quindi, poco oltre, sull’umana impossibilità di immaginare una verità attendibile. La passeggiata attorno a Piana, raccontata in Campo Santo, giù fino alla baia adamantina in fondo a un precipizio e poi a ridosso del paese, nel cimitero abbandonato, è un’avventura che approda a un luogo di lapidi divelte, erbe incolte e immagini di estinti incorniciate in ovali sbiaditi da decenni di intemperie. Un funzionario coloniale, un ussaro biondo in uniforme, una ragazza morta nel giorno del suo diciannovesimo compleanno inaugurano una documentata ricognizione attorno ai vari metodi di sepoltura, ai rituali funebri e alla costante presenza degli “antinati” nella quotidianità degli antichi isolani. La narrazione scivola verso un lontano mondo di prefiche o “voceratrici” in bilico tra disperazione passionale e freddezza teatrale, interminabili banchetti funebri e i cosiddetti culpa morti, acciatori o mazzeri, che uscivano di casa nottetempo abbandonando il proprio corpo per compiere cruenti sacrifici dagli effetti mistici. In una terra di faide e banditismo, questo universo di credenze e riti trasformava l’aldilà in qualcosa di vicino, accessibile per vie misteriche, sempre più estraneo a quanto accade in un mondo sovrappopolato, dove il culto dei morti viene progressivamente trascurato e confinato negli effimeri cimiteri virtuali. Le Alpi nel mare inizia nel tono pacato di un reportage sulle foreste diradate dagli abusi umani e da incendi devastanti, un tempo abitate da animali estinti come il mitico cervus elaphus corsicanus, per terminare nei risvolti demoniaci della passione venatoria degenerata in coazione allo sterminio. Si riaffaccia a proposito, casualmente recuperata nel cassetto di un albergo, la Leggenda di San Giuliano dell’amatissimo Flaubert, dove una crescente fobia omicida si arresta solo per la grazia di una trasfigurazione. L’ultimo anello, più esile, del volumetto, “La cour de l’ancienne école”, è un aneddoto di appena tre pagine in cui una fotografia raffigurante il cortile di una scuola a Porto Vecchio scompare e riappare misteriosamente sulla scrivania di Sebald insieme a una gentile corrispondenza. Lo scrittore nato a Wertach, in Baviera, vissuto a lungo in Inghilterra e scomparso prematuramente lasciando opere tra le più notevoli del secondo Novecento, nutriva grande passione per le immagini e arricchiva spesso di fotografie le pagine dei suoi libri, in un esercizio di contrappunto tra il nomadismo digressivo della narrazione e la fissità delle stampe, il movimento vitalistico dello scopritore e un culto profondamente elegiaco suscitato dalle icone del passato.    
W.G. Sebald

mercoledì 6 giugno 2012

LOUIS MASSIGNON - IL SOFFIO DELL'ISLAM, la mistica araba e la letteratura occidentale



Personalità contraddittoria e discussa, ma indubbiamente centrale per la comprensione dell’Islam da una prospettiva occidentale, Louis Massignon ebbe come maestro Charles de Foucauld e fece parte dell’élite intellettuale francese della prima metà del Novecento. Accademico, mistico, diplomatico attivo nei servizi segreti, grande erudito, prete nonché cripto-missionario in terre musulmane, lo studioso delle culture arabe venne imprigionato nel corso di attività spionistiche in Irak, colpito da fatwa dell’Università del Cairo e indagato dal Sant’Uffizio. Fu il protagonista di un’esperienza umanamente ambigua che non sfuggiva all’istinto di appropriazione coloniale e nutriva la sua devozione cristiana con gli apporti della mistica islamica. La Badaliya, società di preghiera cattolica fondata da Massignon nel 1934 di cui fece parte Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, ebbe come riferimento il modello delle confraternite sufi. Questa raccolta di saggi dà una misura delle vaste competenze dello studioso delle grandi figure del rinascimento medievale islamico e rivela il talento mistico dell’autore. La tensione stilistica aggiunge agli scritti saggistici aspetti di comunicazione esoterica. Andrea Celli, nell’introduzione al volume che inquadra storicamente Massignon come il promotore di una rivolta spiritualista nel contesto disincantato degli anni Cinquanta, si sofferma proprio su questo gauchissement, sviamento o stravolgimento percettivo che conferisce coerenza interna a una biografia intellettuale dalle molteplici linee di fuga. I tredici saggi editi da Medusa toccano da una parte un’ampia serie di argomenti che riguardano le influenze della cultura e della religione islamiche sul mondo occidentale, dall’altra si soffermano su alcune figure di mistici, poeti e filosofi musulmani senza tralasciare brevi affondi nel sostrato più sottile delle significazioni coraniche e delle meditazioni sufiche. Louis Massignon, in un esercizio di escatologia comparata, affronta gli studi danteschi di Asin Palacios criticando molte delle supposte fonti islamiche della Divina Commedia e riconducendo le parentele musulmano-dantesche a una comune esperienza mistica piuttosto che a concreti prestiti letterari. Confronta la mistica cristiana dell’Incarnazione e quella musulmana della Trascendenza giungendo all’episodio di San Francesco a Damietta, nel 1219, quando il santo si presentò al Sultano e gli propose di ricorrere all’ordalia del Fuoco per scoprire la realtà dell’Incarnazione. Prendendo spunto dalla tela di Poussin che ritrae Erminia, principessa di Antiochia, inclinata sul corpo di Tancredi ferito, disquisisce di crociate e jihad, amori sublimi e conversioni improvvise, con un accenno a quella Nizam bint Rustum al-Isfahaniya, la Beatriche platonica del grande poeta mistico Ibn Arabi, stregato da un solo sguardo. Intrecciando dissertazioni teologiche, ricostruzioni storiche e aneddoti illuminanti, Massignon ricorda la distinzione propria della lingua araba tra ispirazione poetica e rivelazione religiosa e nello stesso saggio racconta di Clemens Brentano “folgorato” al capezzale di Anna Katharina Emmerick, monaca illetterata, emanante divina dolcezza. Lo scritto su Gérard de Nerval indaga le modalità di accesso all’Islam dell’immaginazione del poeta francese “attraverso un percorso di attrazione magnetico più che magico, per un assenso alla forza verbale di certe affermazioni della Fede musulmana.” Il soffio dell’Islam è un approfondimento della nozione di spirito, designata dalla coppia di termini nafs e ruh, che rimandano ciascuno a forme di respirazione diverse. 

Luois Massignon a 17 anni

giovedì 31 maggio 2012

MURAKAMI HARUKI - 1Q84



Accolto da molti come il capolavoro dello scrittore giapponese, capace di svelare molteplici universi che si aprono all’interno di una solida struttura compositiva, 1Q84 segue in un continuo contrappunto le storie dei due protagonisti Aomame e Tengo. Lei è un insegnante di stretching solitaria e dedita al culto della salute fisica, che su commissione, conficcando un ago sottilissimo in un punto esatto della nuca, elimina illustri personaggi colpevoli di feroci crimini sessuali; lui uno scrittore di talento ancora inedito, cui un editor privo di scrupoli chiede di riscrivere La crisalide d’aria, romanzo fantastico dell’ambigua diciassettenne Fukaeri. Accanto all’anno 1984 in cui si svolge la vicenda inizia a scorrere il tempo parallelo dell’anno 1Q84, una specie di universo dai richiami orwelliani dove il mondo conosciuto sconfina nel fantastico e ai giovani iniziati è concesso di contemplare un cielo con due lune. Una nostalgica avventura di amore impossibile unisce i destini dell’affascinante killer e del giovane scrittore, che si ritrovano coinvolti nell’oscuro disegno di una setta religiosa a capo della quale figura un Leader dalle facoltà medianiche, alimentate dalle offerte di giovinette deflorate prima di avere mestruazioni. Nel libro lanciato sul mercato dallo spregiudicato editor sono contenute scottanti rivelazioni sulla setta e sull’orizzonte magico in cui precipitò la bambina Fukaeri, figlia dell’inquietante Leader e da lui stesso deflagrata. A liberare gli esseri umani dal venerato stupratore, che grazie alle sue vittime esercita la funzione di mediatore tra il mondo materiale e un mondo popolato da spiriti metamorfici chiamati Little People, è incaricata Aomame, tragica eroina di un’ultima missione portata a compimento a prezzo della vita. Nella cospicua opera di Haruki, accanto alle evoluzioni di una scrittura che tiene alta la tensione come in un giallo proteiforme, intrigano ancora di più i sipari aperti sul quotidiano vivere dei personaggi, fissati con grande verità psicologica. E’ il caso dell’anziana signora che dedica la propria vita a proteggere giovani vittime di abusi sessuali, commissionando ad Aomane, adorata come la figlia scomparsa, l’eliminazione degli impuniti responsabili; dell’agente di polizia Ayumi, donna socievole e spigliata che nasconde un’inconsolabile carenza di amore, terrificante vuoto che la spinge a sfrenati incontri erotici, trovata un giorno ammanettata e senza vita in un’anonima stanza d’albergo; o ancora, scegliendo tra i non pochi esempi memorabili, è il caso del vecchio padre di Tengo, ricoverato in una clinica e affetto da Alzheimer, custode di un segreto che ha ossessionato il figlio per decenni. Tutte esistenze, queste ed altre, caparbiamente chiuse su sé stesse o indaffarate ad esorcizzare l’insaziabile malattia della solitudine.

Murakami Haruki

lunedì 21 maggio 2012

LE TANTE "AFRICHE" DI VINCENZO OREGGIA - Marco Ostoni, Il Cittadino


C’è l’Africa “profonda”, quella del «sangue povero» di cui «non frega niente a nessuno, fino a quando non diventa un’ecatombe, un cimitero di dolore su cui sbandierare troppo tardi la bandiera bianca dei diritti umani», e c’è l’Italia, quella impersonale e metropolitana di Milano ma anche quella “lenta” e “domestica” delle Marche con gli affetti, i dolori, i ricordi familiari che si porta dietro. Due continenti, due luoghi del mondo e del cuore, nei quali si divide ormai da anni la vita di Vincenzo Maria Oreggia e nei quali l’autore ambienta il suo ultimo libro: un viaggio fra il Senegal e la Guinea cui fa da contraltare il “viaggio” nella vita di tutti i giorni, con l’affettuosa e dolorosa cura di una madre la cui memoria progressivamente si sgretola, cancellando passato e lacerti di presente in un’inarrestabile decadenza. È un libro che non lascia indifferenti, questo Pesce d’aprile a Conakry, e lo è, oltre che per il bell’affresco africano offerto, anche per l’originalità dell’impianto, nel quale i due piani, da una parte il viaggio alla scoperta delle montagne incontaminate del Fouta Djallon in compagnia di solerti amici africani, e dall'altra le cure e le premure rivolte alla mamma malata si guardano, ora vivendo due “vite” parallele, ora incrociandosi e intrecciandosi. Felice anche l’intuizione di mettere una sorta di distanza fra io narrante e protagonista attraverso l’uso alternato della prima e della terza persona, con il Vincenzo che diventa “monsieur Vincent” e la madre chiamata “donna Elena”.
(Marco Ostoni, Il Cittadino)


V.M.Oreggia, Pesce d'aprile a Conakry, Edizioni dell'Arco 2010
disponibile anche all'indirizzo




martedì 15 maggio 2012

ASCANIO CELESTINI - PRO PATRIA - 8 / 27 maggio 2012 Piccolo Teatro di Milano





Da oltre quindici anni Ascanio Celestini racconta con straordinario talento affabulatorio le vite dei miseri, dei negletti, gli oscurati e i fraintesi dal mistificante ciclone della storia. In questa sua ultima opera teatrale, lungamente applaudita nella saletta storica del Piccolo Teatro di Milano, entra in prigione: un’angusta cella stilizzata in mezzo alla scena dove si trasforma in un recluso senza tempo, vittima di un sistema carcerario antichissimo e attuale, che opprime e uniforma gli esseri umani nell’asettico inventario dei loro crimini compiuti o supposti, giudicati e in attesa di giudizio. Il contesto storico da cui la narrazione si allontana e a cui ritorna con fantastica disinvoltura è quello del Risorgimento italiano, intercettato in uno dei suoi anni cruciali, il 1849, quando una vigorosa insurrezione caccia Pio IX dall’Urbe e fonda una Repubblica dalla vita breve, un’avventura promossa da un gruppo di idealisti coraggiosi che abbattono istituzioni secolari quali il Santo Uffizio e adottano innovative misure sociali, prima di essere ricondotti all’ordine dall’intervento delle ipocrite potenze straniere, di apparente vocazione libertaria come la Francia ma pronte a soccorrere il vacillante regno papale. Il carcerato-Celestini indirizza il suo discorso nientemeno che al celeberrimo Mazzini, eroe risorgimentale per eccellenza. Ruotando intorno ai fatti clamorosi di quella breve stagione romana, il monologo racconta l’intrigante spietatezza dei regnanti e la sanguinaria repressione di quei moti anarchici animati in tutta la penisola da giovani eroi trattati alla stregua di terroristi, le scandalose condizioni in cui vengono costretti i detenuti dell’odierna Italia e il desiderio di liberarsi con un irriverente colpo d’ala da tutto il marciume di questo scalcagnato Belpaese. La vena anarchica e l’inclinazione a una libertà senza compromessi rimane al centro dell’ispirazione del trascinante affabulatore. 

Ascanio Celestini, rielaborazione grafica di V.M.Oreggia

Derive immaginarie infrangono le leggi del tempo e dello spazio colorando di toni surreali le sue parole dal carcere, come nel caso della fuga oltre le sbarre del negro-matto vicino di cella che attraversa in corsa uno stadio gremito e partecipa a una surreale partita di pallone. Le molte dissertazioni si calano pure nella storia personale del narratore rievocando la figura delicata del padre falegname che porta a spasso tra altezzosi e nobili clienti il piccolo Ascanio riapparendo poi, in una memoria commovente, disteso sul letto di morte, le mani rimpicciolite e bianche scoperte per la prima volta senza quella patina di cera impiegata nel lucidare i mobili. Pro Patria, come diversi lavori precedenti, riassume materie e spunti disparati in un coerente slancio creativo: un’opera infiammata dalla vigile coscienza civile di Ascanio Celestini, instancabile fustigatore di troppe italiche storture, e addolcita da una sua voce intima, segnata dalla nostalgia per un privato mondo perduto.     


sette minuti di Pro Patria su youtube 
http://www.youtube.com/watch?v=WFM9O_n0scs       

domenica 8 aprile 2012

CARLO EMILIO GADDA - ACCOPPIAMENTI GIUDIZIOSI



Scritti tra il 1924 e il 1958, questi racconti del gran signore delle lettere lombardo sono in parte frammenti dei romanzi La meccanica e La cognizione del dolore. Sofisticati e gustosissimi capolavori della letteratura novecentesca, danno avvio a una nuova riedizione adelphiana di tutte le opere dello scrittore. La ricchezza della prosa gaddiana è un magnifico strumento di precisione con cui viene passata in rassegna una vasta antologia di risibili e superbi campioni umani. Uomini e donne che caratterizzano i tempi attorno alla prima guerra mondiale: lombardi borghesi o popolani, provinciali o esponenti del bel mondo milanese. La scienza letteraria di un maestro che nel suo secolo accettava di essere accostato soltanto a Céline, dispone sul tavolo anatomico le sue adorabili vittime e smonta con implacabile riguardo i mistificanti orpelli del genere umano. Le donne, ad esempio, nell’inchiostro dell’ingegnere, rilucono di magnifica bellezza e cattiveria, trasformandosi in creature di infinita ambivalenza, scoperte con finissima intuizione in gusti, idiosincrasie, e in quel loro sfarfallante bovarismo. Ecco, un lunedì 5 ottobre del 1015, affacciarsi al balcone la svenevole Zoraide, importunata da un guittesco cugino di passaggio, civettuola e indisponente fino alla scoperta di certi peccatucci che l’obbligano a smontare da uno scivoloso palcoscenico; ecco la Jole, domestica dei conti Brocchi, il cui petto, dove stringe l’adorato cagnolino dei padroni, fa girar la testa ai rampolli delle squisite famiglie meneghine; ecco ancora la contessa Brocchi, pellegrina all’altare di San Giorgio affinché protegga da tentazioni impronunciabili il contino Gigi, sbalestrato dalla provocante cameriera, che lo indurrà, in un finale tutto amore, al catartico peccato. 

un ritratto di Carlo Emilio Gadda

Ma l’inventario umano che passa alla lente dello straordinario Gadda si estende con pari risultati a vecchi nobili gottosi paladini di un polveroso buon costume, commendatori elefantiaci che zavorrano i salotti di un’eterna commedia, e alle tante vite, circoscritte e universali, congelate in fissazioni quotidiane. E’ un grande affresco di caratteri svelati in tutta la crudezza dei loro impacci fisici e interiori, grazie a una spregiudicata intelligenza accompagnata da un gusto divorante dell’ironia. L’esposizione della Triennale Milanese - nella bellissima novella San Giorgio in casa Brocchi - è l’occasione ideale per raccontare in una cronaca esilarante tutta la prosopopea novecentista condita e rivenduta ad arte, con il melenso assedio degli ammiratori a spasso per le sale espositive che infilano lodi sperticate almeno quanto le nefandezze delle pitture. Ovunque magistrale, il nostro Gadda, come ne L’incendio di via Keplero, dove l’improvvisa combustione di un grande stabile popolare fa da sfondo a un nutrito elenco di scampati per miracolo alla disgrazia. Pedroni Gaetano, facchino alla Centrale; Arpàlice Maldifassi, vanagloriosa e risibile cugina del baritono Maldifassi, che si sloga una caviglia franando sulle scale; Ermenegildo Bolossi Di Gesualdo, “el magütt de Cinisèll” rimasto fino all’ultimo sul tetto del caseggiato in fiamme; il vecchio Zavattari, avvinazzato imbolsito e catarroso; il cavalier Carlo Garbagnati, ex-garibaldino e triste eccezione agli scampati, cui sarà fatale il tentativo di salvare il medagliere: bastano i nomi e i primi indizi per dare un’idea della fantasiosissima acribia con cui vengono dipinti questi eroi qualunque. Attraverso un semplice fatto di cronaca si svela un intero mondo, universo ramificato nelle mille vene del capoluogo lombardo raccontato come forse nessuno ha saputo fare, calandosi nei variegati modi e sogni della gente e facendo appena sentire dietro l’occhio impietoso la vena compassionevole dell’illuminato a cui ogni cosa appare gioco, tragedia e commedia fuse insieme. Il magistero stilistico, che annette gergo e intonazioni dialettali, non indulge mai alla compiacenza e all’esibizione, benché raffinatissima, di bravura. E’ funzionale a un’indagine scrupolosa, trasformando un frammento di vestito, un atteggiamento trascurabile o un tic linguistico in un segno tipico della personalità e della sua collocazione in un preciso ambito sociale. Officina immane, quella dello scrittore, che si fa specchio della vita, centellinando e inanellando infinite epifanie. 


Pietro Germi e Carlo Emilio Gadda sul set di "Un maledetto imbroglio" (1959)


Naviglio milanese, ponte in pietra, foto di Vincenzo Maria Oreggia

sabato 24 marzo 2012

FRANCO LOLLI - LA DEPRESSIONE



Psicoanalista, docente presso l’Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata e autore di rilevanti saggi sul fenomeno depressivo, Franco Lolli pubblica un libro agile, contraddistinto dal rigore dello studio ma aperto, anche per la scelta di un linguaggio fluido, letterariamente accattivante, a un pubblico di non solo specialisti. La depressione, male fosco che origina in ferite profonde e si nutre di sé stesso come un virus latente nella psiche umana, è osservata da diverse prospettive. E’ una malattia eterna e precipuamente contemporanea, un dolore nato con l’uomo che nelle nostre società non trova più quegli antidoti che in passato erano stati capaci di arginarlo trasformandolo in un passaggio canonico dell’esistenza. Il crollo dei sistemi simbolici, e quindi delle fondamenta più sottili dei consorzi umani devastati dall’esclusivismo del consumo e della tecnica, ha privato l’evento della perdita, dalla morte alla rottura sentimentale con il partner, di un modello per il suo superamento. Il soggetto indebolito da traumi precedenti acquattati nella rimozione inconscia viene sollecitato dai duri colpi che la vita non risparmia e precipita in una crisi catastrofica, dove indugia, peggiora e si crogiola ubbidendo a quel piacere attinto al dispiacere che è un esclusivo mistero della nostra specie. La clandestinità del trattamento delle esequie, confinato a quelle agenzie dai vetri scuri e dal sentore desolante che superiamo accelerando il passo, è un esempio tipico di impreparazione alla morte, evento che nelle civiltà passate e nei sistemi religiosi ha prodotto un corredo di cerimonie, opere e attenzioni imprescindibili. Quel che resta, nelle società progressivamente regredite, è la parola, risorsa di cura in competizione con l’abuso dello psicofarmaco. Al termine di una disamina succinta ed efficace del contesto depressivo, dalle tragedie dell’amore al rischio suicidario, Franco Lolli scrive proprio di questo magnifico strumento, il linguaggio umano, che nella vitalità emotiva della relazione tra paziente e analista può risvegliare l’intelligenza del rimosso e restituire al male dimensioni sopportabili.      

Franco Lolli, psicoanalista e docente presso l'IRPA di Milano