VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

venerdì 27 febbraio 2015

TAYE SELASI - LA BELLEZZA DELLE COSE FRAGILI - Einaudi 2015




Madre nigeriana e padre ghanese, nata a Londra e cresciuta negli Stati Uniti, attualmente residente a Roma, Taye Selasi, fotografa oltre che notevole scrittrice, traccia in questo suo romanzo il quadro di una famiglia - in modo parzialmente autobiografico la propria - di origini africane e nazionalità americana: madre e padre immigrati e quattro figli nati in Occidente. La partenza è un lutto, la morte per arresto cardiaco di Kweku Sai, abile chirurgo che molti anni prima abbandona improvvisamente la famiglia e gli Stati Uniti per tornare al Paese natale, nella capitale Accra, sistemandosi poi in una solitaria abitazione progettata e costruita insieme all’ascetico falegname Lamptey sulla riva dell’Atlantico. A motivare il gesto un licenziamento ingiusto, a sfondo razzista, dall’ospedale in cui lavora, e la conseguente consapevolezza di ritrovarsi fallito, incapace di soddisfare le attese e le ambizioni dei suoi cari. Ma l’inquieto animo di Kweku risponde a ragioni più profonde, a un’instabilità che ha a che fare soprattutto con le sue radici, con un labirinto di complessi e discriminazioni, con quel continuo stare in bilico tra universi culturali e modalità affettive differenti, capaci di trasformare esseri umani che tentano di radicarsi lontano dalla propria terra in ansiosi nomadi con patrie fittizie e incolmabili vuoti interiori. Ognuno reagisce allo shock in modo diverso, secondo il carattere e le esperienze individuali, che pure all’interno di uno stesso nucleo familiare si rivelano distanti. Folásadé Savage, ovvero Fola, la bellissima moglie amata e abbandonata, deve incarnare la difficile parte della madre sola, per cui si sente impreparata, che la spinge verso pericolose scelte di abbandono. E come un ventaglio di casi umani illuminati dalla precoce sofferenza del distacco si delineano, grazie all’implacabile scavo psicologico della Selasi - stile nervoso, senza ridondanze, capace di registrare i minimi sommovimenti interiori, secondo una tradizione letteraria che annovera tra i suoi maestri Toni Morrison e Salman Rushdie -, le personalità dei quattro prodigiosi frutti dell’interrotto amore coniugale. Olu ha seguito fedelmente le orme professionali del padre assente: dotato medico anche lui che però nasconde nella sua rigidità scientifica una fragilità sulle difensive, permeabile a insospettati cedimenti. Sadie, l’ultima arrivata, non ha mai sconfitto il complesso dell’esclusa, della più brutta e priva di spiccate qualità di fronte alla brillantezza dei fratelli, e soltanto al termine di un lungo processo di espiazione, culminante in una danza iniziatica e rivelatrice intercettata in un villaggio ghanese, ritrova il cuore generoso della propria identità. In mezzo ci sono i due gemelli: Taiwo, seducente e talentuosa, amante clandestina del preside della facoltà di Legge della Columbia, e il grande artista Kehinde, rinato e perso nel mondo delle sue visioni, delicatissimo e sapiente, in fuga da una fama ormai internazionale: entrambi, Taiwo e Kehinde, vittime, nella prima adolescenza, di abusi sessuali perpetrati dallo zio Femi, drogato criminale cui Fola, per una breve stagione maledetta, li aveva incautamente affidati. E attorno al vortice di queste trepide esistenze, che si chiariscono sempre meglio nella progressione del romanzo attraverso una serie di intense epifanie, continua a ruotare il lutto del padre, fino alla conclusiva cerimonia funebre, in cui il luogo delle origini, quel Continente africano osservato dalla posizione dolente e privilegiata della diaspora, diventa centro e punto di partenza verso nuovi, forse più clementi, capitoli di vita.  

Taye Selasi

venerdì 6 febbraio 2015

PAUL AUSTER - DIARIO D'INVERNO - EINAUDI 2015



Giunto alla soglia della vecchiaia, Paul Auster decide di compiere un viaggio attraverso il proprio corpo, un’ampia e rabdomantica ricognizione attorno alla sua vita di sessantaquattrenne che prende le mosse dai segni depositati nella carne, da quel vestibolo terrestre che con il tempo può trasformarsi in una cartina tornasole dei patimenti e delle gioie dell’anima di un uomo. Questa la chiave di un diario che ha spesso il sapore di una spregiudicata confessione, uno dei libri più belli e anomali dello scrittore americano, che si muove avanti e indietro nel territorio virtualmente sconfinato delle memorie personali tracciando un quadro autobiografico che è anche il racconto di una formazione artistica e di una progressiva iniziazione ai misteri della morte e del destino. Ci sono esperienze che Auster ritrova nel passato più lontano, come quelle del giovanile soggiorno parigino, del rapporto sfibrato e ricucito a più riprese con la prima moglie o degli alti e bassi di una bohème costellata di speranze e di amarezze: peregrinazioni tra povere soffitte, lunghi periodi di solitudine e incontri sorprendenti, tra i quali, memorabile, quello con la spassionata prostituta Sandra, che recita versi di Baudelaire e illustra con incantevole pazienza al giovane scrittore l’intero Kamasutra di rue Saint-Denis. Se la scrittura del Diario, in questi casi, è stimolata dalla rievocazione di attimi salienti del passato, senza un nesso così forte con le tracce depositate nella carne, altrove è direttamente il corpo a trasformarsi in una vera e propria mappa capace di guidare a luoghi e fatti anche rimossi. “Ogni volta che arrivi a un bivio il tuo corpo cede, perché il tuo corpo ha sempre saputo quello che la tua mente non sa”. Una cicatrice sul volto riconduce all’infanzia, ai giochi e alle competizioni sportive dell’adolescenza, all’universo misterioso e trepidante delle prime avventure allo scoperto, dei soccorsi e delle premure materne; le gravi crisi di panico di cui ha sofferto lo scrittore in età adulta sono state risposte a traumi e lutti di fronte a cui le lacrime restavano bloccate alimentando crescenti tensioni interiori destinate a esplodere. Il ventaglio aperto delle radici familiari conduce Auster a un’indagine che si arresta ai quattro nonni ebrei dell’Europa orientale; oltre è l’insondabile “melting pot di tante civiltà in conflitto in un unico corpo”. Si tratta di un complesso quadro originario che diventa “una posizione morale, un modo per eliminare la questione della razza, che secondo te è una domanda fasulla, una domanda che può solo disonorare chi la pone, e perciò hai deciso di essere tutti e ognuno, di abbracciare tutti dentro di te per essere te stesso in un modo più pieno e libero, in quanto chi tu sia è un mistero e non speri che sarà mai risolto.” I dolori e l’intensità del libro crescono fino a toccare il vertice quando il racconto si concentra sulla figura della madre: sul suo primo, infelice matrimonio, sulla scomparsa tragica e improvvisa del secondo marito e sulle continue oscillazioni tra inquietudine, vanità e generosa brillantezza, fino alla morte, anch’essa inattesa e repentina. La malattia e la morte. Il deperimento e la scomparsa al termine di lancinanti sofferenze. Quest’opera di Auster, pur non mancando di ironia e momenti di trasparente levità, si rivela implacabile nel registrare i segni dell’estenuante marcia verso l’estinzione, come nel caso della terribile fine pel SLA della nonna materna. Un’opera che ubbidendo alla sua vena rabdomantica abbraccia un panorama di temi assai diversi e diviene infine  meditazione sulla natura stessa dello scrivere: nient’altro, nel profondo, che un’espressione della musica del corpo.


Paul Auster