VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

domenica 2 settembre 2012

La trappola amorosa delle perle


E’ iniziata aggirandomi nel frastornante labirinto dei mercati africani. Attratto dalle voci, dagli sguardi, dai richiami delle mani, dalle insistenze trascurate e dagli inviti irrinunciabili. E’ iniziata sedendomi a osservare, accanto a un tè e assi di legno che si riempivano di mercanzie. Collane di ogni sorta proposte come antiche e moderne, infilate di perle in vetro, pietre dure, fusioni in bronzo, ciondoli prodotti da svariate etnie, depositi europei giunti in Africa il giorno prima, anni, decenni o secoli prima. Un labirinto dentro un labirinto. Orientarsi era un miracolo. Ascoltavo la parola del mercante con prudenza, bilanciandomi tra stupore e diffidenza, confrontando le opinioni e cercando di capire senza assecondare subito il desiderio di portare a casa frammenti di un mondo sconosciuto. Occorreva pazienza, virtù che accomuna l’amante di perle al collezionista, al viaggiatore curioso, al cultore di oggetti che diventano scrigni di passato, sedimenti che riflettono un prisma infinito di storie, superfici, infine, riflettenti la pura bellezza delle loro profondità. Le perle sono questo: mirabili colpi di bellezza preparati da antiche sapienze artigianali, da equilibri di tinte, sfumature, inventiva di forme, preziosi pigmenti e il valore aggiunto del tempo, il lavorio degli anni e del caso che creano quella famosa patina antiquaria e in un processo di lunga selezione naturale rendono sempre più raro quell’unico pezzo superstite segnato in quel solo unico modo da secoli di invecchiamento. Ma allora, agli albori della passione tra i mercati di Dakar e Bamako o di qualche sperduto villaggio africano, non ero ancora affetto dalla tenera ossessione delle perle. Ero come un bimbo affascinato da un giocattolo, un innamorato ignaro di trovarsi a un passo dalla splendida trappola amorosa. Spigolavo nell’immenso serbatoio di vita dei mercati, raccoglievo i primi campioni e chiedevo a conoscenti, di ritorno dai miei viaggi consultavo libri, navigavo tra pagine cartacee e pagine di siti dedicati all’universo delle perle. Quelle di vetro catturarono gran parte della mia attenzione. Come me erano state segnate dal destino del viaggio. Nel caso delle più antiche, si erano mosse per secoli da una mano all’altra, da un Continente all’altro, assaggiando le sabbie del deserto, le tende dei nomadi, il petto di regine e popolane, assurte al rango di regalo principesco o trasformate in sostituti del denaro, alternativa alla moneta corrente o merce di scambio per comunità tribali ai cui occhi diventavano oggetti magici con valenze apotropaiche. La principale produttrice del secondo millennio fu Venezia. Le prime tracce in laguna risalgono al 1292, quando un decreto del Maggior Consiglio stabiliva che per ragioni di sicurezza le vetrerie non potevano più essere costruite a Venezia ma solo a Murano. I procedimenti di fabbricazione di vetri e quindi delle perle dovevano rimanere segreti e ne era vietata, sotto pena di morte, la divulgazione fuori dal territorio veneziano. Si trattava in principio di perle destinate a formare prevalentemente rosari e chiamate “paternostri”. Il metodo usato dai perlai “paternostreri” consisteva nell’accumulare attorno a un ferro coperto da un impasto terroso il vetro in barre scaldato a un’intensa fonte di calore. Era una tecnica già utilizzata nella più remota antichità alla quale seguì, verso la fine del Quattrocento, un nuovo modo di fare perle partendo da una canna forata che tagliata in pezzettini forniva altrettante perle dette paternostri “colorati”, “a rosette” e “oldani”. L’invenzione della canna forata consentì di produrre perle in grande quantità. Ai “paternostreri” di Murano si affiancarono i “margariteri”, dal nome di Maria Barovier cui viene attribuita la novità delle canne di vetro con sezioni colorate concentriche, mentre si andava sviluppando un’altra produzione, quella delle perle “a lume”, realizzate con tecniche di avvolgimento sulla fiammella di una lampada a olio. La richiesta internazionale si fece sempre più forte e al moltiplicarsi in varietà e numero delle perle veneziane, tra cui le celebri perle a “rosetta” o “chevron”, corrispose l’espatrio illegale di non pochi vetrai. Nel corso dei Seicento nuovi centri di fabbricazione si svilupparono nelle regioni baltiche, in Belgio, Francia, Svizzera, Inghilterra, Olanda, Russia, Boemia e Moravia, dove accanto a perle autoctone si producevano grandi quantità di perle “alla maniera di Venezia”. Ma nonostante la concorrenza i perlai della Serenissima riuscirono sempre a dominare il mercato e nel 1606 si contavano a Venezia ben 251 fabbricanti di perle di vetro. Dopo la crisi seguita alla caduta della Repubblica per mano di Napoleone, nel 1797, l’industria perliera veneziana riprese vigore nella seconda metà dell’Ottocento sulla scia dell’apertura dei commerci verso terre lontane. Esploratori, missionari e mercanti portavano con sé perle offerte in dono o utilizzate come merce di scambio con un gran numero di popoli e gruppi etnici, dagli indiani del Nord America agli abitanti dell’Africa. Nel quadro di attività commerciali lecite o vergognose come la tratta di schiavi (acquistati anche a suon di murrine!), conobbe così un enorme successo la grande e variegatissima famiglia delle cosiddette perle di baratto, le “trade beads” dei mercati anglofoni, che seguirono itinerari spesso tortuosi e vennero esportate verso colonie e terre di conquista fino alla prima Guerra Mondiale. Le perle veneziane di forma cilindrica con disegno a mosaico, particolarmente apprezzate e diffuse in Africa occidentale, si meritarono così l’appellativo di “africane”.

murrine "africane" antiche

La prima volta che le incontrai ero a spasso in un mercato di Dakar. Oggi non sono più facili a trovarsi e hanno diversi soprannomi a seconda dei paesi. Il mio amico Babacar, appartenente a una famiglia di mercanti senegalesi da generazioni, me le indicò con lo stravagante nome di “ciaciaciò”. Una sua vecchia conoscenza ne aveva riportata un’interessante partita da Accra, in Ghana: alcune decine di pesanti collier di millefiori a mosaico e altre perle di baratto risalenti perlopiù alla seconda metà dell’Ottocento e di una varietà impressionante. Perle schiette, monocolore, perle a oliva con disegni floreali, perle con tracce consumate di avventurina, perle cilindriche, azzurre, trasparenti, a melone, decorate di piume, di palme dorate, chevron verdi e blu e molte altre, oltre ovviamente ai tronchetti millefiori di diversa specie. Non tutte provenivano da Venezia. Ce n’erano di olandesi, iugoslave, e una certa quantità di origine mediorientale accanto a esemplari di cui era difficile accertare la provenienza. Babacar raccontava dando fondo alle sue conoscenze mentre il mercante giunto da Accra attendeva una proposta di acquisto. Lo facemmo trepidare un intero weekend. Abusando della sua pazienza riportai dalla mia camera in affitto un libro dedicato alle perle africane ricco di disegni e fotografie. Babacar è un uomo che ama ciò che tratta e vuole conoscerlo sempre più a fondo, così che ci trovammo a trascorrere giornate sotto la tettoia della minuscola boutique mentre nel mercato si spargeva la voce che era giunto uno strano toubab (uomo bianco presso i wolof del Senegal) particolarmente esperto, forse un ricchissimo mercante europeo pronto a grandi acquisti. Alla partita di collier ghanesi ne seguirono altre di perle fabbricate in Africa, paste di vetro realizzate da svariate etnie tra cui gli Astanti e i Krobo, popoli che una volta appresa la tecnica dagli occidentali hanno iniziato a produrre perle con risultati sorprendenti. Spuntavano tè e mercanti ovunque. Il gusto della chiacchiera e della contrattazione trasformò la boutique di Babacar nel crocevia più vitale del mercato, mentre il mio imbarazzo cresceva insieme alla preoccupazione per il magro portafoglio che tenevo in tasca. “Babacar” mi confidai, “ora cosa faccio? Che dico a questa gente? Io posso spendere soltanto un centinaio di euro, non sono un mercante come credono…” Dalla bonaria autorità dei suoi cento chili Babacar tentò di rassicurarmi. “Non preoccuparti, fai quello che puoi, nessuno ti chiederà di più… C’est l’Afrique mon vieux, il faut faire l’habitude!” E l’abitudine la feci, chiedendo un prestito dall’Italia e precipitando all’improvviso, sotto il sole cocente del sahel, nella trappola amorosa delle perle. Da amante a sposo quasi senza accorgermene.   

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