VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

sabato 22 dicembre 2018

DENIS JOHNSON - JESUS' SON - EINAUDI 2018



Cosa dire di Denis Johnson. Soprattutto che ha scritto Cronache anarchiche, pubblicato in Italia dall’ottima ed estinta Alet, nel 2005, collezione di reportage dagli Stati Uniti e dai luoghi più caldi del pianeta, dove il corrispondente per il New Yorker e Rolling Stone, scomparso nel maggio del 2017, si è avventurato con curiosità insaziabile. Che ha prodotto uno dei migliori romanzi sulla guerra in Vietnam, Albero di fumo, premiato con il National Book Award, considerato per intensità e innovazione stilistica un libro prossimo ai capolavori di Philip Roth e Don De Lillo. Che infine - ma arretrando, nella sua produzione, fino al 1992 - ha confezionato i formidabili racconti di Jesus’Son, da cui il film omonimo di Alison Maclean. Una drogata scorribanda nel mondo provinciale americano, questa rosa di narrazioni brevi, le cui trame si intuiscono e scompaiono, come la mente allucinata dei personaggi che le animano, manipolo di disperata umanità, disoccupati, infermieri, carcerati, prostitute, gente comune che scorrazza a caccia di tutto e nulla, invischiata in storie assurde e senza legge. 

Denis Johnson

Un incidente mortale dopo un passaggio in autostop, ad esempio, dove il protagonista di Incidente durante l’autostop, illeso, strafatto, smonta dall’automobile distrutta occhieggiando alla catastrofe da un pianeta sconosciuto. Di fronte a un uomo che penzola morente dalla carrozzeria si meraviglia semplicemente perché “lui non poteva dirmi cosa stava sognando, e io non potevo dirgli cosa era reale”. Un’apocalissi, quella che evoca così crudamente, e beffardamente, Johnson, ricorrendo a una lingua che esplode in visioni acide, capaci di trasfigurare il paesaggio imprimendo tinte espressioniste e interponendosi a dialoghi dove un cinismo asciutto e pervasivo è la regola, e la disperazione nulla più di un sentimento raffreddato dall'abitudine agli eccessi. Una lettura di meraviglie scure, inadatta a palati delicati, nel corso della quale uno dei tanti fantasmi in carne ed ossa, la vittima qualunque di Emergenza, si presenta a piedi, in ospedale, con un coltello infilato dalla moglie nell'angolo dell’occhio sinistro, accudito da infermiere e dottori sballati quanto lui che balbettano il soccorso di un neurochirurgo. Ma ecco l’incipit di Lavoro, dove un'altra delle figure-immagini di un paese perso precipita nel fondo di inquietudini e piaceri oppiacei. “Stavo all’Holiday Inn da tre giorni, sotto falso nome, in compagnia della mia ragazza, sinceramente la donna più bella che avessi mai conosciuto, a farmi di eroina. Facevamo l’amore a letto, mangiavamo bistecche al ristorante, ci bucavamo al cesso, vomitavamo, piangevamo, ci accusavamo, ci imploravamo, perdonavamo, promettevamo e ci portavamo in paradiso a vicenda.” Tra cielo e fango, estasi e disillusione, nel mezzo, ad occhi spalancati, fino in fondo.      

giovedì 13 dicembre 2018

GIORGIO MANGANELLI - VIAGGIO IN AFRICA - ADELPHI 2018


È a Giorgio Manganelli che si indirizza nel 1970 una multinazionale interessata a costruire una linea ferroviaria capace di unire Il Cairo a Dar es Salaam, chiedendogli di prendere parte a una spedizione e stendere una relazione sui luoghi attraversati dalla mai realizzata Transafricana1. Ne nasce un resoconto di viaggio che è l’immersione in un universo altro rispetto ai canoni europei, terra in cui Manganelli si muove con virtù rabdomantica. Un tessuto fitto, la sua prosa, lontana dal limitarsi a una relazione tecnica o un diario narrativo. Lo straordinario reporter specula, spinge all’estremo l’intuizione etnografica e poetica, la prodigiosa congerie di riflessioni sollecitate da luoghi che permangono in una condizione dove la storia, così come intesa in Occidente, è assente.

Giorgio Manganelli

“Se la storia è edificio e scrittura, qui la storia non è mai cominciata.” Sono paesaggi scabri, pietrosi, minimamente verdi lungo il corso del Nilo: un infinito “grande angolare” che rimanda a un’arcaicità in cui l’uomo non conosce l’idea di futuro o progettazione, e l’isolamento e la vita faticosa sono la tragica norma. L’Africa di Manganelli, dominata dall’idea di fondo - eletta in modo talora fin troppo assolutistico ad assioma - di un immobile primitivismo, è luogo primigenio, “ignaro di date”, dove a imperare sono “non colossei, ma leoni, non torri ma svettanti giraffe, non acropoli ma crateri affollati di belve.” Una prospettiva radicale, che comunque consente di attingere a verità restituite con grande intensità espressiva. “La strada è mentale, la pista fisiologica” medita Manganelli sorvolando le maglie dei percorsi transitabili che incidono un “continente di tenebre compatte”. Tre sono gli Stati in cui si snoda la sua perlustrazione: il Kenya liberista, la Tanzania socialista e l’Etiopia, fondata su una arcaica ideologia agraria e imperiale, “singolarmente arretrata al livello del potere e del tutto discontinua a livello popolare”. Nel corso di un “viaggio veloce in mezzo ad oggetti infinitamente lenti”, dove l’europeo diventa una “provocazione motorizzata”, appaiono come mostruose deformità i conglomerati urbani: Nairobi, innanzitutto, “città impetuosamente, anche sinistramente, d’avanguardia”, e Addis Abeba, capitale di un’Etiopia affetta da un isolazionismo drammatico, una zona in cui possono svilupparsi civiltà contigue e lontane, percorsa da “fantasiosi e nevrotici brividi di storia”. Quando l’affaticato scrittore, prima di tornare in Italia, decide di fare una puntata ad Atene, vede nel Partenone “la supponenza geometrica della macchina architettonica”: qualcosa, scriverà più tardi, che gli è improvvisamente chiaro proprio perché è di ritorno “dall’Africa magmatica, informale, deforme, il grande corpo planetario che essuda forme, coaguli di immagini, carmina e amuleti: una terra in cui l’uomo, essere labile e spaventato, ininterrottamente tratta la propria sopravvivenza con l’indifferenza del mondo…”         

domenica 9 dicembre 2018

PATRICK MODIANO - RICORDI DORMIENTI - EINAUDI 2108



Esili tracce di memoria, appunti di taccuino, a volte solo un nome, un indirizzo, una data. E strade: una costellazione di luoghi e percorsi parigini che Modiano, premio Nobel per la letteratura 2014, rivisita a decenni di distanza, reimmagina e ricrea in un’opera senza una precisa trama. Un romanzo breve, Ricordi dormienti, o piuttosto una rapsodia, la rêverie nostalgica di un autore settantenne che ha sempre posto la memoria al centro della sua ricerca letteraria e continua qui a farlo in una sorta di abbandono erratico. Da queste pagine chiare e delicate, di un impressionismo che slitta con grande nonchalance da uno sguardo all’altro, da un volto e un destino all’altro, emergono frammenti di racconti potenziali il cui seguito possiamo fantasticare, istantanee di un’epoca, fantasmi, “numerosi quanto le stazioni del metro”, ondeggianti sullo sfondo di una Parigi perduta. Il giovane Modiano si ritrova nella Ville Lumiere per un breve congedo dal collegio dove studia, in Alta Savoia, e incontra Mireille Uruzov, di cui rammenta pochi tratti e lunghe camminate nei quartieri a ovest, e sulla scia di questa giunge fino alla sua vecchia camera dove sono conservati i libri del tempo, volumi della collana per ragazzi la Bibliothèque Verte: Il cargo del mistero, Il visconte di Bragelonne… E nel flusso dei ricordi appare anche l’evanescente figlia di Stioppa, un amico del padre associato a una lista di nomi russi, “grossi trafficanti del mercato nero all’epoca dell’occupazione tedesca”; quindi Geneviève Dalame, incontrata in uno di quei caffè che ha l’abitudine di frequentare molto presto, all’apertura: una donna che abitava in camera d’albergo, come si usava fino agli anni Sessanta. 

Patrick Modiano

Poco oltre è il turno di un’amica di Geneviève, Madeleine Péraud, ulteriore perla in un florilegio di molte figure femminili, esperta di scienze occulte, grazie alla quale viene a conoscenza un libro singolare, Incontri con uomini straordinari, di Georges Ivanovic Gurdjieff, nome che risuona sorprendente e misterioso alle sue orecchie di studente “immerso in una certa solitudine e un certo sgomento”, che non aveva mai cercato di incontrare i quattro o cinque maitre a penser che dominavano le cattedre universitarie. Verso la fine di questo rabdomantico viaggio nel passato giungiamo alla fatidica notte del 28 giugno 1965, quando l’intrepido flaneur si trova di fronte al cadavere di un uomo ucciso per errore da un’amica mentre maneggia una pistola. Circostanza ambigua che dà il via a un profilo di trama poliziesco, una fuga ansiosa per le strade accanto all’omicida, il riparo in un albergo e il lento oblio di tutta la vicenda che riaffiorerà solo a cinquant’anni di distanza. Scarse ombre, come al solito, una filigrana pressoché impalpabile di fatti davanti ai quali Patrick Modiano si arresta, lasciando lavorare, prima di tutto nel lettore, un libro bianco di infinite congetture.  

COLSON WHITEHEAD - LA FERROVIA SOTTERRANEA - SUR 2018


Prima metà dell’Ottocento. Cora, quindicenne, figlia e nipote di schiavi, decide di fuggire dalla piantagione di cotone dei Randall, in Georgia, dove ha subito una serie di innumerevoli soprusi, come tutti i suoi fratelli e sorelle strappati alla loro terra d’origine e trasportati in catene al di là dell’Atlantico verso un’America in cui vige il più feroce schiavismo. La prosa essenziale del newyorkese afroamericano Colson Whitehead, vero maestro di sobrietà ed efficacia, che a quarantotto anni vince con questo libro sia il National Book Award che il Premio Pulitzer, dà corpo a una storia memorabile e sconvolgente, che a tratti, come accade nelle grandi testimonianze dell’orrore concentrazionario, obbliga a sospendere la lettura per smaltire l’eccesso di commozione di fronte a un simile carico di sofferenza inflitta per puro opportunismo, crudeltà disumana e pregiudizio razziale. La ferrovia sotterranea è, nel romanzo, il percorso segreto che gli schiavi in fuga dagli stati del Sud intraprendono cercando la libertà in un Nord meno oppressivo e animato da correnti abolizioniste. 


Colson Whitehead

Una speranza che con semplice e geniale immaginazione Whitehead incarna in una rete clandestina di stazioni sotterranee e cunicoli scavati nella roccia lungo i quali corre il treno della salvezza. La scrupolosa documentazione storica si unisce in questo modo a una sorprendente soluzione fantastica avvicinando l’opera ad altri capolavori del realismo magico - Marquez su tutti -, che non tradiscono ma accentuano il senso della realtà innestando e dosando sapientemente elementi fantastici. Incalzata da feroci cacciatori di schiavi fuggiaschi e assediata da ricordi indelebili di torture viste e subite, Cora, in una serie di peripezie raccontate con suspense e ritmo perfetti, attraversa la Carolina del Sud, la Carolina del Nord, le terre bruciate del Tennessee, soggiorna in città dove a una parvenza di liberazione si unisce un razzismo più subdolo e ipocrita; recita nei musei della tratta negriera la parte della povera schiava osservata e additata dietro i vetri da bambini sorridenti, assiste a linciaggi e impiccagioni di massa, rifiuta di sottomettersi alla pratica della sterilizzazione preventiva, invalsa anche in stati più ‘liberi’, è di nuovo catturata e riesce per miracolo a doppiare la fuga approdando infine a una fattoria dell’Indiana gestita da neri in gran parte reduci come lei. Ma l’odissea non è giunta all’epilogo. Una banda di bianchi assassini attacca la fattoria, la incendia e massacra buona parte dei residenti. Per l’ennesima volta ridotta in catene, sarà in fondo alla ferrovia sotterranea che Cora capovolgerà il suo destino lanciandosi verso un’ultima promessa di libertà.