VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

mercoledì 12 ottobre 2011

ERALDO AFFINATI - COMPAGNI SEGRETI


La passione di Eraldo Affinati per le grandi ferite storiche del Novecento, e in particolar modo per gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, ha un’origine lontana. Il nonno partigiano di questo scrittore che sta tracciando un percorso significativo nella nostra letteratura contemporanea venne fucilato dai nazisti nei dintorni di Forlì. Era il 1944. Sua figlia venne arrestata e caricata su un treno merci che l’avrebbe portata in Germania. Alla stazione di Udine, chiede al giovane sorvegliante il permesso di scendere e approfittando di un frangente caotico riesce a fuggire e a trovare protezione presso altri partigiani. Eraldo Affinati è figlio di quella donna e di quella fuga, senza la quale non sarebbe mai nato. Una fuga che ha segnato uno strappo nella sua vita, una cicatrice che le sue ricerche e le sue parole tentano di ricucire e meglio comprendere. Perché, come scrive in Compagni segreti, la letteratura non è una medicina, non ha la possibilità di guarire l’uomo dai suoi mali, ma lo aiuta a vedere, è una luce nel buio, specie in periodi storici in cui il buio diventa tenebra sanguinosa. Affinati ha iniziato a scavare in quella ferita studiando la storia. Non da specialista, ma piuttosto da umanista curioso e vorace, dilatando il sipario sulla Seconda Guerra attraverso le pagine che ne rendono testimonianza. Ma qualcosa mancava. Si sentiva insoddisfatto, insufficiente rispetto alle cose che apprendeva. E nel 1995, partendo da Venezia e percorrendo l’Austria e la Slovacchia con mezzi poveri, a piedi, raggiunse Auschwitz. Dall’esperienza di quel viaggio è nato un libro, Campo del sangue, con il quale pensava di chiudere i conti con quella ferita. Invece ne aprì di ulteriori, chiamandolo ad appuntamenti cui non poteva sottrarsi. Continuando a occuparsi dei suoi temi d’elezione, nel 2002 scrive un altro libro, Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer, dedicato al grande teologo protestante fatto impiccare dal Fuhrer nel 1945, e seguendo le tracce di uno dei pochi tedeschi che ebbero il coraggio di resistere al nazismo riscopre le ragioni di una speranza riemersa nonostante tutto il male accaduto. Il libro su Auschwitz e quello su Bonhoeffer costituiscono le premesse a Compagni segretiInsistendo nelle sue investigazioni, Eraldo Affinati ha deciso di recarsi sui più importanti luoghi del conflitto per capire con i propri occhi cosa significa vivere in città di plastica come Hiroshima, Nagasaki o Cassino, città interamente ricostruite dopo i bombardamenti. Cercando di fondare la parola su un’esperienza diretta, si è aggirato come un rabdomante tra le rovine, le terre ancora impastate di sangue e la nuova vita che è rifiorita come un miracolo tra le pietre. Restando in bilico tra passato e presente ha raccolto le testimonianze dei salvati, ha evocato la tragedia dei sommersi e ha guardato con meraviglia ragazzi dall’aria spensierata aggirarsi per Hiroschima o salire i tornanti verso Cassino in sella ai loro motori sportivi. Perché tanto la memoria quanto l’oblio sono essenziali alla vita, ed è proprio grazie al mistero della gaiezza risorta dopo il disastro che sopravvive la nostra specie. “Se arrivassi a comprendere la letizia dei ragazzi di Hiroschima, avrei capito anche il senso della letteratura” confida nel reportage d’apertura di Compagni segretiLa letteratura è innanzitutto responsabilità della parola. Ma non si tratta della responsabilità di fronte alla legge, che non riesce a spiegare ciò che è accaduto nel Novecento. Quando i carnefici, a Norimberga o a Francoforte, furono messi alle sbarre, si giustificavano dicendo che si erano limitati ad eseguire degli ordini. Non è dunque di questa accezione di responsabilità che possiamo fare uso, così come dobbiamo scartare una responsabilità intesa in senso morale o sociale. Per spiegare quale tipo di responsabilità sia necessaria alla parola, Affinati ricorre a una frase di Dostoevskij. “Io mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me.” E’ una responsabilità che viene prima della legge, prima dei nostri sistemi etici, ed è la ragione profonda per cui l’uomo non è un animale. Prendersi in carico lo sguardo altrui: qualcosa di imprescindibile che all’autore di Compagni segreti capita per la prima volta di sentire con forza nel Campo N. 10 di Auschwitz, il campo della morte, dove non venivano uccise le persone tramite i gas, evitando un rapporto diretto con la vittima, ma con tiri diretti alla nuca. E’ in quel momento, nel corso del viaggio del 1995, che furono messe alla prova tutte le sue convinzioni religiose e morali. Eraldo Affinati insegna italiano e storia in un istituto professionale di Roma, all’interno della comunità educativa Città dei Ragazzi, creata dopo la Seconda Guerra Mondiale da un sacerdote irlandese per raccogliere gli orfani italiani. Nel tentativo di restituire loro una vita, J. P. Carroll-Abbing pensò di dare corpo a una città fatta dai ragazzi, che potevano eleggere il sindaco, gli assessori e quindi autoresponsabilizzarsi. Oggi, nella comunità, sono presenti ragazzi stranieri che raggiungono l’Italia lasciandosi alle spalle tragedie inenarrabili e che, spesso analfabeti nella loro lingua madre, studiano l’italiano. Nel lavoro di insegnante il concetto di responsabilità della parola è centrale. Parlando, chi insegna incide nella percezione dell’adolescente, non solo per quello che dice, ma soprattutto per come si muove, ed è così che insegnamento e scrittura diventano due attività strettamente legate da un senso della parola che non può essere arbitraria ma deve corrispondere a un’esperienza. I libri di Affinati non nascono da un’invenzione tematica, ma da un’esperienza reale da comunicare agli altri nella trasfigurazione della parola letteraria. Compagni segreti è frutto di un impegno tra viaggi, ricognizioni sul posto, letture e finalmente scrittura. Ma oltre ad essere una raccolta di reportage sui luoghi che sono diventati tappe di un itinerario di maturazione umana e spirituale, è anche un libro di incontri con una vasta schiera di scrittori contemporanei, una settantina, le cui figure e le cui opere fanno da contrappunto alle perlustrazioni fisiche dell’autore. Un’opera in cui sono chiamati all’appello tutti i compagni segreti di un lettore instancabile, coloro che gli hanno dato forza e fiducia nutrendo una visione della letteratura intesa come protesi della vita. Affinati passa da Hiroschima al penitenziario di massima sicurezza sul Lago Bianco, quasi mille chilometri a nord di Mosca, dove sono reclusi 150 ergastolani dopo l’abolizione (non ancora certificata) della pena di morte in Russia, scendendo nei meandri di un carcere infernale e intervistando Ravil Daskin, l’unico condannato che chiede ufficialmente di essere ucciso e che “rinunciando per se stesso a ogni clemenza e misericordia, sembra uscito da una pagina di Fedor Dostoevsij.” Si aggira per Cassino, ricostruendo la storica battaglia. Raggiunge la spiaggia di Omaha Beach per raccontare lo sbarco in Normandia. Si incammina lungo le strade di Mosca e Berlino, rievocando la resistenza forsennata dei russi, l’accerchiamento delle truppe naziste e la loro definitiva disfatta con la conquista della capitale tedesca. Si siede accanto ai suoi ragazzi nell’aula di Bordeaux dove si celebra il processo a Maurice Papon, ottantaseienne ex Ministro di Francia e complice dei nazisti nella deportazione di migliaia di ebrei francesi. Ma accanto a questi reportage vivificati dall’alchimia di una parola “responsabile”, ce ne sono altri che attraversano luoghi più letterari trasformandoli in parallele occasioni di scoperte e illuminazioni. Incontriamo così la casa di Ernest Hemingway, nell’Idaho, con la tomba del maestro americano nel cimitero di Ketchum. Quella di Tolstoj, nel boschetto innevato vicino alla residenza di Jàsnaja Poljana. Il piccolo cimitero in cui è sepolto Boris Pasternak, “sul promontorio dove le luci di Mosca sembrano fuochi fatui all’orizzonte”, per giungere al rifugio di Asiago in cui vive uno dei grandi testimoni della Seconda Guerra, Mario Rigoni Stern, con cui Affinati intrattiene fitte conversazioni e di cui ha curato la pubblicazione delle opere complete nei Meridiani. In un estendersi composito e intimamente coerente delle passioni dello scrittore, il lungo viaggio distillato in Compagni segreti approda alle colossali solitudini del paesaggio meridionale dello Utah dove l’improvvisa epifania naturale del canyon è raccontata con intensa forza visionaria. Un canyon percepito come “una materia opaca che rimanda a se stessa, un muro cieco, invalicabile che vanifica i nostri sforzi interpretativi e riduce l’intelletto a un fuoco artificiale che esaurisce in un breve attimo la sua convulsione luminosa e, immediatamente dopo, mostra il filo bruciato che resta.” Onorando l’ultima stazione del suo privato giro del mondo e dei suoi illustri contemporanei, Affinati torna in Giappone, dove al termine di un cammino nel cuore del secondo immane scempio atomico, si mette in ascolto degli uomini vivi e trapassati nella pace sospesa di una natura che continua a emettere la sua tenera musica vitale. “Gracchiano le gazze, friniscono le cicale, mentre il cuore dei sopravvissuti, che siamo tutti noi, batte forte a Nagasaki.”      



lunedì 10 ottobre 2011

ABD AL-QADIR AL-JILANI - IL SEGRETO DEI SEGRETI



Se pensiamo a Bagdad, sono immagini di guerra e massacri quelle che tornano alla mente e non purtroppo l’immagine dell’antica culla della civiltà islamica nonché la patria elettiva dell’immenso Shaykh ’Abd al-Qàdir al-Jilani (1077-1166), conosciuto anche come “il santo di Bagdad”, città in cui il suo mausoleo è tutt’oggi meta incessante di devoti pellegrinaggi. Già la sua infanzia fu costellata di miracoli, come racconta Tosun Bayrac nell’esauriente prefazione. Nato nel mese sacro di Ramadan, il piccolo al-Jilani rifiutava durante il giorno il seno materno e si nutriva solo di notte. La madre, discendente del Profeta Muhammad, lo congedò con sofferenza e santa rassegnazione quando, adolescente, volle allontanarsi per iniziare il suo luminoso percorso mistico e intellettuale. Una sola cosa volle in cambio come promessa: quella di dire sempre e in qualsiasi circostanza la verità, precetto a cui il futuro santo si attenne per tutta la vita. Lunghi romitaggi, astinenze e digiuni nel deserto, cui seguirono anni di studi a Bagdad, prepararono lo spirito di al-Qàdir al-Gilani a divenire modello e maestro incontrastato del suo tempo. Fondatore della più antica confraternita islamica portatrice di insegnamenti esoterici, la Qadiriyya, oggi diffusa in tutto il mondo musulmano, è una figura centrale per conoscere il misticismo islamico e quindi il sufismo. Quest’uomo, che raggiunse in vita la vetta dei più perfetti, illustra così la via del cercatore: “Il percorso che dovrai compiere nella tua ascesa per raggiungere questi gradi dipende dalla distanza che sei riuscito a porre tra te e i bassi desideri della tua anima inferiore. Riuscire ad ottenere lo scopo della tua aspirazione non è come riuscire ad ottenere una cosa materiale o raggiungere un luogo, né come la scienza che porta a conoscere una cosa nota, né come la ragione che può cogliere le cose razionali, né come l’immaginazione che si unisce alle cose che immagina. Il fine che tu desideri raggiungere non è altro che la realizzazione della tua vacuità rispetto ad ogni cosa che non sia l’Essenza di Dio senza che vi sia alcuna vicinanza, né lontananza, né riunione, né incontro, né unione, né separazione.” Il Segreto dei Segreti è uno dei suoi testi chiave, diviso in ventiquattro capitoli che trattano i diversi temi dell’avventura mistica. Ventiquattro capitoli come ventiquattro sono le lettere della professione di fede islamica e ventiquattro sono le ore del giorno. 


miniatura indiana del tardo Ottocento raffigurante 
il santo di Bagdad Abd al-Qàdir al-Jilani

giovedì 6 ottobre 2011

PHILIP ROTH - LA CONTROVITA


I temi maggiori della narrativa di Philip Roth sono già presenti in questo romanzo risalente al 1986 e pubblicato solo ora in Italia. Il genio del prolifico scrittore statunitense, autore di capolavori quali Pastorale americana, Il teatro di Sabbath o La macchia umana, sembra trarre la propria forza da una costante interrogazione sull’evanescenza dell’identità individuale e sulla necessità di un’eroica quanto fallimentare ribellione all’ipocrisia collettiva. I protagonisti dei suoi romanzi sono uomini assediati da mortifere convenzioni e avidi di una linfa vitale che cercano nella parte più eversiva di se stessi, ovvero nell’eros e in uno spasmodico  attaccamento al piacere fisico, a congiungimenti e passioni carnali dal disperato sapore mistico, labili avamposti nel dominio assoluto delle tenebre. Roth è il grande interprete di un laicismo ostinato, irridente, che vede nel religioso piegarsi a un’artefatta entità superiore l’espressione più vergognosa dell’intelligenza umana, la resa a un conforto meschino cui le sue creature oppongono forme di resistenza drammatiche quanto affascinanti. E se a tutto ciò si aggiunge il sentimento di una sradicata, eclettica identità ebraica, il quadro umano in cui si muove lo scrittore appare quello di una prometeica sfida all’impossibile, un ribollente contesto esistenziale in cui la legge della precarietà demolisce colpo su colpo ogni tentativo di coraggiosa ribellione. Superstite consolazione è la memoria, l’incanto oscillante del passato, rifugio di immagini delicate, nostalgiche, un’infanzia e una giovinezza ebraico-americane rivissute alla stregua di un tempo mitico, un anti-tempo innalzato come un magnifico e struggente altare degli afflitti. Sono questi i momenti in cui l’alter ego dello scrittore, Nathan Zuckerman, rievoca il nido familiare da cui il fratello Henry si allontanava in stato di sonnambulismo: una rete di affetti e sapori d’epoca ai quali gli capita di tornare quasi involontariamente, per accensioni magiche che sollevano dal doloroso bailamme del presente. La Controvita è la storia di una morte e di una fuga raccontate da una doppia prospettiva, secondo una costruzione letteraria complessa, a tratti faticosa ma ricca di passaggi magistrali, all’altezza del Roth migliore, crudo e rivelatore, fustigatore e commovente, visceralmente erotico e scherzosamente pornografico, moralista scettico, irriducibile antagonista delle boriose doppiezze umane e cantore di quel consapevole gioco delle maschere che è la vita agli occhi disillusi dell’artista o dei suoi delegati immaginari.  I cinque capitoli del libro sono altrettanti scenari in cui si sposta la vicenda di Henry, il fratello di Zuckerman, un uomo che potrebbe dirsi soddisfatto della propria famiglia e della professione di dentista, costretto all’impotenza da una cura prescritta dal cardiologo e che per non rinunciare ai quindici minuti di sesso con la sua assistente Wendy tenta una difficile operazione al cuore che risulterà fatale. Henry è l’eroe di uno scacco suicida a una precoce andropausa, osservato da Zuckerman come la cavia di un esperimento che esalta l’avventurosa clandestinità come alternativa al grigiore di un’esistenza depotenziata, comoda, protetta. Nel capitolo Giudea l’affermato scrittore vola in Israele sulle tracce del dentista fuggitivo che abbandona la famiglia e abbraccia anima e corpo la più fanatica causa sionista, rifugiandosi tra le colline desertiche di Agor al seguito del bellicoso nazionalista Mordecai Lippman.  La questione ebraica diventa oggetto di una rappresentazione in cui agli eccessi ultranazionalistici di Lippman e compagni si oppone la figura di un ebreo che rinuncia a settarismi mondani e predilezioni geografiche, elegge per patria il semplice luogo delle proprie memorie e adotta una specie di quintessenziale coscienza ebraica molto vicina alla coscienza artistica di Nathan. In un brusco capovolgimento di prospettive, dopo avere seguito il celebre e discusso romanziere tra le tormentose delizie del suo matrimonio con una shiksa, affabile ariana anglosassone di nome Maria, la morte dello stesso Zuckerman inaugura un gioco di specchi dove il fratello-antagonista Henry è alle prese con l’imbarazzante eredità di uno scrittore che usa la sua anarchica immaginazione come “spia perspicace dei tormenti altrui”. Il romanzo di Roth, metamorfico e cerebrale come le vaniloquenti ambizioni dei suoi personaggi, finisce per narrare di se stesso e dell’esercizio a una perenne finzione come via all’unica forma di autenticità possibile. Al termine di un’accesa discussione con la nuova moglie, i toni di uno Zuckerman redivivo sembrano farsi più miti e inclini a una complice tregua. “Può darsi, come dici, che questa non sia vita, ma usa il tuo incantevole, bellissimo cervello: questa vita è la cosa più vicina alla vita che tu, e io, e nostro figlio, possiamo mai sperare di ottenere”.        

 Philip Roth


Segnalo l'intervista a Philip Roth disponibile sul sito Einaidi. Ecco il link:
http://www.einaudi.it/multimedia/Videointervista-a-Philip-Roth-parte-prima

lunedì 3 ottobre 2011

PETE DEXTER - AMORE FRATERNO


Il piccolo Peter è solo ad assistere alla scena, quando un vicino, il poliziotto corrotto Victor Kopec, investe la sorellina Angela. Il gracile corpo atterra inanime sul prato di fronte alla porta di casa e il cane di Kopec, prima di essere abbattuto, ne strazia i poveri resti. La tragedia è uno spartiacque che distrugge la famiglia Flood segnando il destino del giovanissimo protagonista. Il padre Charles, contravvenendo all'ordine del boss Costantine, sgozza il vicino e per punizione viene fatto sparire, mentre la madre, dopo mesi di delirante dolore, sale su un'ambulanza che la trascinerà per sempre lontano. E' il 1961. Affidato allo zio Phillip, Peter cresce  accanto al cugino Michael, coetaneo squilibrato e balordo che qualche anno più tardi assumerà il ruolo di boss della cricca irlandese che rivaleggia con gli italiani per il controllo dei fondi pensionistici di Filadenfia. Pete Dexter, narratore premiato con il National Book Award nel 1988, conosce la violenza per averla subita agli inizi degli anni '80, quando per un articolo non gradito  viene linciato e picchiato così duramente da portarsi dietro le stimmate di una parziale invalidità fisica: un evento che lo trasforma in uno scrittore appartato, crudo, testimone sapiente di vite deviate. Il mondo di Amore fraterno è diviso tra vittime ed eroi condannati a una medesima sorte, carnefici come il sadico Michael e anime buone come quella di Peter, che osserva con distacco la vita da gangster in cui è coivolto e dalla quale si libererà  grazie a un atto di generosità fuori programma che si tradurrà in una vera apoteosi sacrificale magistralmente descritta nelle ultime battute del libro. Ma sono notevoli anche i rapporti analitici delle carneficine, le esecuzioni a colpi di manganello che infieriscono sui corpi denudati di vecchi mafiosi, i gorilla energumeni e cocainomani che esibiscono fili metallici sopra mascelle spaccate, i purosangue giustiziati con idiota rancore da veterinari costretti a baciarne il cadavere: un quadro di ferocia a tinte fortissime che non indulge a caricature o calchi di genere, tenendosi sempre al livello di un sostanzioso e affilato realismo. E' quanto accade nella rievocazione della palestra di Nick DiMaggio, meccanico ed ex pugile, uomo probo e schivo che cerca di rimanere lontano dal giro nonostante i ripetuti inviti di Michael e compagni. L'ambiente del ring e gli incontri serali tra il figlio talentuoso e i pugili assoldati dalla malavita, le provocazioni e lo sgarbo pubblico al boss che disinnesca la sequenza finale con il sacrificio di Peter restituiscono il sapore di atmosfere e tipi umani avvicinati con accento pietoso e implacabile, dove l'anelito a una vita tranquilla è assediato dalla violenza, un incubo vissuto fino in fondo dall'autore prima che dalle sue esemplari controfigure.