VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

domenica 29 gennaio 2012

POETI ISRAELIANI



Nonostante la paventata scomparsa della poesia in lingua ebraica e la prevista assimilazione dei suoi autori in altre lingue, a cavallo tra Ottocento e Novecento, soprattutto a opera dei due grandi poeti Chaim Nachman Bialik e Shaul Tchernichovsky, si è verificata una rinascita proseguita per tutto il secolo scorso. Sono versi in gran parte connessi a eventi storici e temi civili, anche se nella produzione più recente il patto tra poeta e collettività si è aperto a un’area più soggettiva. Il cosiddetto “realismo sionista” subisce verso la metà degli anni Cinquanta l’influenza del modernismo anglosassone cui si aggiunge una forte spinta antiretorica e un linguaggio incline al tono colloquiale. L’antologia di diciotto poeti israeliani curata da Ariel Rathaus, ex professore di italiano alla Hebrew University di Gerusalemme, presenta i testi in ordine cronologico iniziando dai due classici Yehuda Amichai e Chiam Guri, nati negli anni ’20, che testimoniano il passaggio dalle originarie spinte ideali al disincanto seguito ai conflitti irrisolti e alla guerra d’indipendenza tradottasi in perdita di Dio e degli amici. Nella fucina di una storia sempre più drammatica la dimensione politica e quella privata risultano inevitabilmente avvinte e la memoria rimane in bilico tra idillio e melanconia. Le aspirazioni utopiche dei padri fondatori dello Stato di Israele fanno i conti con una realtà politico-sociale marcata da un nazionalismo oltranzista, dal conflitto arabo-israeliano e dall’alienazione consumistica. 

il grande poeta israeliano Yehuda Amichai (1924-2000)

In un’analoga prospettiva di critica sociale passata al filtro dell’investigazione poetica si inseriscono Maya Bejerano, Meir Wieseltier, Yitzhak Laor, di cui Rathaus scopre i debiti verso Pasolini, o Rami Saàri, la cui tematica discretamente omosessuale caratterizza una poesia solidale con i compagni palestinesi. Un ruolo a parte ma significavo rivestono gli ebrei di origine araba, impegnati in movimenti di protesta come le “Pantere Nere” degli anni ’70, le cui rivendicazioni sono andate stemperandosi grazie all’attuale migliore integrazione delle élite di origine orientale. La composita realtà sociale israeliana in cui ognuno, erede di peculiari radici storiche, ha un altrove da ricordare, è oggetto dei versi di Ronny Someck. Il culmine della vena erotica è raggiunto da Aharon Shabtai, che con una lingua senza pudori trasforma il sesso in occasione di riflessione metafisica. L’amore è il tema di elezione delle poetesse Dalia Rabikovitch, morta forse suicida nel 2005, che dà voce a una fragilità femminile segnata da inquietudini esistenziali, e Aghi Mishòl, in cui la donna si scrolla di dosso la sua posizione gregaria proponendo un’immagine di sé che a tratti irride le pretese di centralità maschili. Una meditazione lirica sull’assenza di Dio e la possibilità di una teologia dopo Auschwitz è quella di Mordechai Geldman, dove il canto del muezzin risuona come “qualcosa d’infinitamente delicato e doloroso / senza requie e senza casa / che Allah non abbraccia”. Accanto a versi di ispirazione biblica e al dialogo della poesia con il mondo della fede religiosa fiorisce l’opera di Natan Zach, da cui derivano le tendenze attualmente dominanti e che è divenuto protagonista di un processo sliricizzante, ricco di ironia e di elementi bassi. Una lingua che rovistando nel quotidiano colleziona folgoranti epifanie con un occhio straniato, incline al disincanto. Il tempo di Zach è un tempo messianico, di sconcerto e di attesa. “Vieni pure dove vuoi, futuro / io l’attendo, mi preparo in suo onore / e che mi trovi di nuovo a rovistare negli oblii / come un gatto in un mucchio di rifiuti.” L’ebraico ha alle spalle 2000 anni di storia letteraria e certa immersione nel parlato è vissuta con energia liberatoria, verso una parola capace di riecheggiare il mondo senza la pretesa di sostituirsi ad esso.

il curatore della raccolta einaudiana Ariel Rathaus

venerdì 20 gennaio 2012

ERNST JUNGER - GIARDINI E STRADE DIARIO 1939 - 1940. IN MARCIA VERSO PARIGI


Immaginando le facoltà riunite di un lettore onnivoro, di un grande stilista della scrittura, di un meticoloso analista dei fenomeni naturali e di un tenace combattente dalle tensioni mistiche, possiamo avere un’idea di questo genio poliedrico che ha attraversato l’intero corso del Novecento. Alquanto longevo, Ernst Junger nasce ad Heidelber nel 1895 e muore a Riedlingen, nell’Alta Svevia, nel 1998. Simpatizzante del nazismo nella prima parte della sua vita, si allontana progressivamente da posizioni estreme fino a criticare la dittatura e le campagne militari di Hitler, che come racconta in una pagina di diario sogna trasformato nell’omuncolo Kniebolo, un essere “fiacco, melanconico e bisognoso d’affetto”. La dimensione diaristica riesce a dare un’immagine a tutto tondo dello scrittore tedesco e la pubblicazione di Guanda, nell’efficace traduzione di Alessandra Iadicicco, fotografa il biennio 1939-1940, resoconto del periodo immediatamente precedente alla chiamata alle armi e della lunga marcia verso il fronte occidentale. Nell’aprile del ’39 Junger soggiorna nella pacifica residenza di Kirchhorst, dedito ad approfondire la sua vastissima erudizione e assorto nella cura della terra. Semina e raccoglie ortaggi, osserva il crescere dei fiori e delle piante, incrementa la sua collezione di insetti con una passione che innerva l’esistenza come un grande laboratorio alchemico in cui tutto diventa materiale di riflessione. Mentre rifinisce la stesura del romanzo Sulle scogliere di marmo, che vedrà la luce nello stesso anno, trae ispirazione dalle zampette degli anfibi che gli appaiono simili a “un primo affondo della natura verso l’essere umano”. Ricorda la cattura di una ranocchia quando era bambino e associa quel gesto al piacere “antico, preromano, prealessandrino anzi” di possedere uno schiavo. Sono illuminazioni che oscillano tra il fisiologico e il metafisico, svelando il profilo esoterico del pensiero di Junger. L’uomo, nel suo aspetto naturalmente belligerante, gli appare un essere “per il quale le armi altro non sono che membra aggiuntive e pensieri in forma plastica”. Le letture che accompagnano le sue ricerche vanno da Leon Bloy a Poe, da Maupassant a Melville, gli ascolti spaziano da Wagner a Verdi a Bizet, le investigazioni pittoriche si concentrano su artisti come Bosh e Toulouse-Lautrec. Non mancano meditazioni sullo stile, che per Junger è una disciplina di assoluta sobrietà che conferisce alla prosa un nitore cristallino. Si tratta di un genio algido e complesso, la cui inquietante impassibilità non giunge al cinismo e mantiene un radicato senso morale. Lo dimostrano il trattamento generoso che riserverà ai prigionieri di guerra e l’onestà intellettuale che lo conduce a rivedere senza indugi le sue posizioni attorno al Terzo Reich. Sono un insieme di elementi che fanno dello scrittore di Heidelberg un autore discusso ma rispettato, e amato, anche da fronti ideologici distanti. Il 27 agosto 1339 arriva l’ordine di mobilitazione totale che richiama il sottotenente già decorato nella prima Guerra Mondiale a Celle. Subito promosso capitano, inizia il faticoso inanellarsi di tappe che lo avvicineranno al fronte. Paesi semidistrutti, fattorie, acquartieramenti vari e postazioni pericolose che non impediranno a questo esteta in guerra di dedicarsi alle sue raffinate perlustrazioni annotate puntualmente nel diario. Nella capanna dell’Anwald compie 45 anni, legge assiduamente i Salmi e osserva la magnificenza della Foresta Nera. Tra settecento prigionieri francesi chiede se c’è qualcuno in grado di cucinare come si deve una sole à la meunière e scopre il cuoco monsieur Albert che lo accompagnerà fedelmente accanto al braccio destro Spinelli. Pregiati vini del Reno, il castello di La Rochefoucauld a Montmirail, opere di Bernanos, gonfie carogne di cavalli morti studiati come allegorie della decomposizione universale, quadri di Fussli e passi di Erodoto o Esiodo vengono miracolosamente armonizzati da un’arte che li trasforma in un simposio di sorprese terribili e meravigliose.   

Un'immagine giovanile di Ernst Junger

sabato 14 gennaio 2012

JORDI PUNTI' - ANIMALI TRISTI


  
Cinque coppie si muovono nei racconti di Jordi Puntì, nato nei pressi di Barcellona nel 1967 e già distintosi per la sua prima raccolta Pell d'armadillo. Cinque relazioni che lo scrittore catalano trasforma in casi esemplari di vite asfittiche, pungolate da desideri repressi e coltivati nell'ombra di tradimenti continui, una rete di fugaci piaceri carnali che tentano scappatoie di breve durata da un quotidiano opprimente. Puntì scova il titolo del libro nella massima di un medico dell'impero romano. Triste est omne animal post coitum. E una grigia tristezza, riscattata a tratti da un'ironia che rasenta il grottesco, alita su tutte le storie. Nel racconto d'apertura, Bungalow undici, Eric e Mirra, sulla scia di una promessa risalente a dieci anni prima, decidono di trascorrere un weekend nello stesso boungalow affacciato su un laghetto in cui avevano appassionatamente amoreggiato ai tempi dei loro primi incontri. Tra memorie affioranti di incoffessati adulteri, Mirra con un collega di scuola ed Eric con un'amica della moglie, scoprono l'insensatezza di rianimare fuori tempo massimo un'attrazione sepolta, dimenticano in fondo a un'armadio scrostato un completino intimo tanto sfizioso quanto inservibile e nel corso di una serata drammatica si accorgono che il loro bucolico nido d'amore è diventato uno squallido albergo a ore accanto a un centro di svaghi sessuali. In Frazioni di secondo, Leif è fresco reduce dalla separazione dalla moglie Irina e smaltisce la malinconia dell'improvvisa solitudine appoggiandosi a un collega di lavoro tutto compreso nella coatta fregola del single e ad un analista dai pareri scontati che in carenza di appigli gli propone un'innovativa terapia acquatica per rinascere, un bagno curativo che dovrebbe ricondurlo alla felicità della placenta materna. Lo stesso personaggio Leif, in un flashback raccontato in Cane che si lecca le ferite, si ritrova a passare le vacanze in un campeggio dove sarà protagonista di un'umiliante scoperta. Ritornato in anticipo da una sortita di pesca sulla spiaggia, attraverso gli opachi lunotti della roulotte sorprenderà la moglie intenta in acrobatici esercizi sessuali con l'aitante istruttore di acquagym. Più affranto che infuriato lascierà che l'adultera porti a termine indisturbata il suo training per abbandonarla più tardi, e con sorniona vendetta, in un stazione di servizio lungo l'autostrada. In una scena dai risvolti tragicomici, approfittando di un passeggero assopimento della consorte, staccherà il peso superfluo dall'automobile e mollerà Irina inscatolata e chiusa a chiave nell'inerte rimorchio. La vena più ironica e graffiante di Jordi Puntì prende corpo nei due racconti che in una sezione separata chiudono la raccolta. Siamo a Barcellona, in un quartiere molto ricco, in uno squisito ambiente borghese, dove Silvio Lisboa, dietro la copertura di regolari viaggi d'affari incontra l'amante arredatrice e progettista d'interni in una suite del Grand Hotel Princesa Sofìa. Dalla vetrate del 17° piano, mentre trascorre i suoi lascivi fine settimana, può scorgere con perverso compiacimento l'attico di casa e la fuoristrada della moglie Marzia parcheggiata sotto il palazzo. ica e graffiante di Jordi Puntì prende corpo nei due racconti che in una sezione separata chiudono la raccolta. La tresca regge per mesi, fino a quando tocca proprio all'amante di fare un servizio sulla lussuosa casa coniugale. Icone russe termina con l'indispettito rifiuto dell'arredatrice alla moda di proseguire la relazione clandestina, ma soprattutto con il disvelamento dell'ocaggine dell'opulenta casalinga che sviene alla notizia che il reportage sulla dimora dei Lisboa non verrà pubblicato sulle pagine della prestigiosa rivista. A consolarla sarà la mano di un ineffabile chirurgo plastico indù. "Mentre era ancora addormentata sul tavolo operatorio, le sue guance sode brillavano di una luce sfarzosa e regale: sembravano ora di madreperla, ora di cera. Una volta a casa avrebbero fatto perfettamente pendant con il sereno luccichio emanato dalle candele aromatiche."

Jordi Puntì

domenica 8 gennaio 2012

KARI HOTAKAINEN - COLPI AL CUORE


E' un talento d'eccezione quello che lo scrittore finlandese rivela in questo romanzo approdato alla fama internazionale. Ironico, fiabesco e drammatico, Kari Hotakainen riesce a intrecciare differenti piani di lettura e a tessere trame parallele con una verve narrativa ricca di battute e dialoghi affilati, capace di restituire la schietta quotidianità della gente comune e di inoltrarsi senza pedanterie in speculazioni sulla vita. La storia è quella di Raimo, operaio disoccupato addetto alle riparazioni nelle case, che trascorre le sue giornate affondato in un divano davanti a film d'azione analizzati con l'entusiasmo di un cinefilo sognante e velleitario. La moglie Ilona, stressata dal lavoro e dalla crescita dei due scalmanati figli piccoli Annukka e Petteri, cerca inutilmente di svegliarlo dalle sue estasi catodiche. Ma l'invasato perdigiorno, a metà strada tra un folle e un picaresco eroe dell'impossibile, non demorde neppure di fronte a valanghe di pannolini sporchi e spacciandosi per il Presidente dell'Associazione Cinefili Finlandese tempesta di telefonate i centralini delle televisioni di Stato per sollecitare repliche improbabili dei suoi film preferiti. La grande occasione di Raimo balugina all'orizzonte quando il produttore Al Ruddy, della Paramount Pictures, per evitare le ritorsioni della mafia italo-americana, decide di spostare proprio in Finlandia, data l'evidente parentela con il paesaggio siciliano, l'intero set de Il Padrino. Hotakainen, saltando con scioltezza da uno scenario all'altro e facendo costantemente crescere la tensione della trama, trasforma i mitici Marlon Brando, Al Pacino, Robert Duvall e il regista Francis Ford Coppola in personaggi romanzeschi a tutto tondo, con le loro abbuffate di sigari e spaghetti, le spacconate hollywoodiane e le torve paturnie esistenziali soprattutto di Brando, la cui rievocazione emerge come il ritratto felicissimo di un uomo in bilico tra genio professionale e cinica disperazione. Una disparità di materiali, quelli di Colpi al cuore, che se non fossero assorbiti con fluidità naturalistica nella narrazione, rischierebbero di trasformare il tutto in un grossolano patchwork. Invece il piccolo universo del quartiere di Maunula, alla periferia di Helsinki, le favole del topolino girovago nel bosco Hipsuvarvas raccontate a Petteri e Annukka, i voli sciamanici sopra la città che liberano nel sogno la faticosa noia dei suoi abitanti, gli amplessi di Raimo e Ilona che diventa una tigresca e coraggiosa protettrice del pericolante focolare, l'intero immaginario quotidiano e fiabesco del romanzo insomma, si sposa benissimo con il volto disincantato e rude di Coppola e compagni. Un matrimonio destinato a far scintille quando Raimo cerca di intrufolarsi nel set americano come assistente per le scene finlandesi. Si appropria della sceneggiatura, si introduce con la complicità di un amico poliziotto nell'albergo delle star e diventa una vera spina nel fianco della produzione. Ilona, attratta suo malgrado nel vortice della delirante passione del marito, cercherà di sostenerlo nell'impresa. Riscriverà lei stessa una versione del copione tentando di correggere il machismo sanguinario della famiglia corleonese con una maggiore attenzione al ruolo della donna. Gli eventi precipitano in una rete di colpi di scena che metteranno lo sventurato disoccupato fuori gioco. L'ossessione del cinefilo trasecolato mostra nel finale il suo aspetto più patetico e votato al fallimento. Niente happy end in questo romanzo per molti versi esilarante. La famigliola di Maunula, come se il vento di un destino troppo grande avesse cercato di spazzarla via in un brutto sogno, si ritrova a medicare ferite dolorose. Il Padrino di Hotakainen chiude il sipario su una padellata di Ilona in faccia a Raimo, che soltanto per miracolo riuscirà a godersi almeno al cinema quel film grandioso e maledetto.  

Kari Hotakainen

martedì 3 gennaio 2012

FRANCESCA CAMINOLI - LA GUERRA DI BOUBACAR


17 giugno 1944, spiaggia di Marina di Campo. Le truppe alleate, alle quattro e mezza del mattino, sbarcano sull’Isola d’Elba controllata dai nazisti. Tra di loro c’è il tredicesimo contingente di tirailleurs senegalesi, uomini di varia nazionalità africana, maliani, ivoriani, guineani e ovviamente giovani senegalesi arruolati nell’esercito coloniale francese. Hanno la sventura di sbarcare in una parte dell’arenile infestato di mine. Ne cadono parecchi, straziati e maciullati dalle bombe, altri valorosamente riescono ad avanzare, conquistano la postazione avversaria e si uniscono al resto del contingente che giungerà vittorioso a Portoferraio. A commemorare l’accaduto rimane una lapide, alla gloria delle truppe coloniali del 13° reggimento senegalese, che sono qui cadute per la liberazione della Patria. Una lastra scolpita non molto distante da dove oggi prendono il sole i vacanzieri, raggiungi dagli ambulanti senegalesi che battono in cerca di fortuna quella spiaggia macchiata dal sangue dei loro nonni. E’ una vicenda che pochi conoscono, a cui difficilmente si pensa quando incontriamo un immigrato africano, eppure anche lui, la sua gente, il suo popolo, il sangue della sua terra, ha contribuito a liberare la nostra terra dalla tirannia nazista. A Francesca Caminoli, già autrice del fortunato La neve di Ahmed, edito sempre da Jaca Book nel 2003, capita di bagnarsi nelle acque di Marina di Campo. Sensibile ai temi delle migrazioni e dell’intercultura, questa scrittrice piuttosto defilata, nata a Lecco e vissuta per anni a Milano prima di abbandonare il giornalismo nel 1982 e di spostarsi a vivere nella campagna toscana, è stata profondamente toccata dalla storia dei soldati coloniali, tanto da avviare una cospicua ricerca documentaria che costituirà la base del suo ultimo romanzo. Libri, siti web ma anche interviste con i vecchi tirailleurs sopravvissuti, ultraottantenni incontrati tra le città senegalesi di Dakar e Thies. La narrazione è composta da un intreccio di tre voci che si alternano per confluire nelle pagine conclusive sulla fatidica spiaggia. C’è Boubacar, nipote del vecchio e omonimo combattente, diciassettenne deciso a emigrare in Italia imbarcandosi nel nord del Senegal su una piroga diretta come prima tappa alle Canarie. La sua è la vicenda esemplare di quel fiume di migranti che affrontano viaggi pericolosissimi inseguendo sogni di una vita migliore. Nonostante il dolore e la morte di altri compagni, il giovane Boubacar supererà la frontiera italiana e sulle tracce dei racconti del nonno inizierà la sua avventura di lavoratore clandestino proprio sulla spiaggia dell’Elba. C’è Gustavine Flaubert, francese giramondo maestra di snowboard e nipote del sergente Flaubert, bonario addestratore di quel lontano gruppo di soldati africani, distaccato prima della Seconda Guerra al comando francese di Bazzaville, che impressiona la piccola Gustavine con le sue memorie, tanto da convincerla a visitare quella spiaggia dell’Elba. E al cuore di questo romanzo scritto nello stile sobrio e paratattico prediletto dalla Caminoli, c’è il combattente, il tirailleur Boubacar Diop, morto a ottantasei anni, che una mattina del ’43 viene strappato al suo villaggio nella brousse insieme ad altri coetanei e arruolato forzatamente nelle truppe coloniali. Furono pochi gli arruolamenti volontari e i coloni, anche in questa occasione, non mancarono di distinguersi per la loro spregiudicatezza. Tra le eccezioni, appunto, il sergente Roland Flaubert, che per un certo tempo terrà un amichevole epistolario con il soldato Diop. La guerra di Boubacar, attraverso la voce del vecchio combattente, ritorna all’epoca coloniale e racconta la formazione, l’addestramento a Dakar, le marce terribili sotto la calura africana, le credenze animiste e la fede islamica che distinguono il gruppo di giovani prossimi al sacrificio, la loro africanità ingenua e scontrosa, ospitale e guardinga, il trasferimento ad Algeri, l’allenamento specifico in vista di uno sbarco di cui si saprà solo all’ultimo momento. Infine quel glorioso e tremendo crepuscolo, lo sbarco più sanguinoso della Seconda Guerra Mondiale nel Mediterraneo.