VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

mercoledì 27 maggio 2020

ALAN SILLITOE - LA SOLITUDINE DEL MARATONETA - MINIMUM FAX 2019


Basterebbe il racconto di apertura che titola la raccolta per dare una misura del narratore e poeta di Nottingham, annoverato nonostante il suo rifiuto di ogni etichetta tra i più significativi esponenti degli Angry Young Men anni Sessanta. Figlio della working class, reduce di guerra, Sillitoe dà vita a personaggi che si stagliano crudi e veri come in un film di Ken Loach. Primo fra tutti il detenuto nel riformatorio dell’Essex, che si allena lungo i sentieri ghiacciati del circondario in vista di una gara di maratona con atleti di altre carceri. Nel suo monologo, un gioiello ormai classico dove le parole assumono il ritmo trascinante della corsa, il giovane Smith medita sulle circostanze che lo hanno condotto a delinquere, scegliendo infine di perdere la competizione, lui che potrebbe primeggiare, pur di vendicare i molti torti subiti. Il riscatto, per le vittime che sfilano in queste pagine, sembra possibile solo attraverso intimi o plateali atti di insubordinazione. Forme di ribellione che traducono il malcontento e il disagio di un’intera classe sociale, destinate a tradursi in sconfitte sopportate con orgoglio e un senso di inesausta resistenza. Così accade, spigolando tra i tanti memorabili esempi, a Zio Ernest, modesto e disilluso tappezziere che ritrova il calore della speranza facendo piccoli regali a due sorelline affamate, finendo poi minacciato dalla polizia alla stregua di un pervertito. O all’operaio Scaferdale, angariato dalla moglie crudele e rimbalzato nelle braccia di una madre anche peggiore, che scioglierà le sue frustrazioni in segrete uscite notturne, molestando giovani passanti.  

Alan Sillitoe

ANGELO FERRACUTI - LA META' DEL CIELO - MONDADORI 2019



Conosco abbastanza Angelo Ferracuti da intuirne il timbro della voce nella qualità della scrittura. Leggerlo è quasi come sentirlo raccontare le sue storie; una cadenza e un timbro che le ancorano alla terra, scansando la fisima stilistica e cercando piuttosto l’onestà nella testimonianza sobria, quanto più possibile trasparente e veridica, di ciò che è accaduto. O meglio di ciò che gli è accaduto e ha potuto toccare con le mani, avvicinare con gli occhi, mettere alla prova dei sensi. Ferracuti è reporter per vocazione  prima che per scelta, e le sue doti narrative guadagnano il passo migliore se poggiano sull’esperienza diretta delle cose, dei paesaggi, degli esseri. In tempi di evasioni virtuali, profili online e astratte elucubrazioni, lo scrittore marchigiano continua a rimanere dalla parte del realismo - l’intramontabile realismo, non un capitolo di letteratura ma la sua necessaria radice umana, la sua sostanza legata stretta all’esperienza percettiva, qualsiasi mondo voglia aprirci. La metà del cielo porta a un limite esemplare questa fedeltà al vissuto, unendo romanzo e reportage, prestando corpo vero alla finzione e ingaggiando una sfida ultimativa tra parole e vita. Angelo perde la prima moglie Patrizia quando ha solo quarantadue anni, colpita da un tumore inarrestabile. E proprio la morte, la più insolubile delle pagine bianche, gli chiede di scrivere un libro “che non avrebbe mai voluto vivere”, cresciuto per frammenti in un percorso annoso e terminato quando anche le lacrime si sono esaurite e il dolore è giunto a una specie di catarsi.

Angelo Ferracuti

Tra queste lontane sponde di un personalissimo calvario - la lancinante perdita e il sollievo di una pace giunta al culmine della rammemorazione - si snodano pagine che lambiscono le fasi salienti di una storia d’amore e intercettano eventi di portata storica. Il libro diventa così mémoir interiore e romanzo di formazione, cronaca di un ferita intima e di uno snodo generazionale. Il corteggiamento, il primo bacio, la caduta del muro di Berlino e delle Torri, la claustrofobia di una provincia tanto vicina al cuore quanto insopportabile, l’impegno politico, la deriva di compagni slittati nella disperazione e nella violenza, l’adoperarsi per una svolta che fermasse l’annichilente voracità del capitale e la delusione di fronte a una lotta di classe ridotta a pura invidia sociale. In mezzo a tutto ciò corsie d’ospedale, estenuanti attese, visite oncologiche, una sofferenza che rode il corpo e l’anima fino al respiro che si arresta e a un amore che continua il suo viaggio nel ricordo, e forse oltre. “Sento che nei momenti importanti mia madre mi protegge” confida una delle due figlie al padre, “come se una forza mi sostenesse.” L’imbarazzato assenso sembra trasformarsi all’improvviso in una condivisione misteriosa.

sabato 18 aprile 2020

RAYMOND CHANDLER - IL GRANDE SONNO - ADELPHI 2020



Presto ci si affeziona alle battute sapide e taglienti, ai modi da stagionato solitario, alla perspicacia aguzzata da puntuali whisky and soda e a tutto l’universo che colora a tinte forti le avventure del detective Philip Marlowe. Ed è un’ottima notizia che Adelphi abbia deciso di riproporre l’intera produzione del maestro inauguratore del noir, iniziando da questo grande classico fine anni Trenta. Una Los Angeles spesso notturna e piovosa, il generale ottuagenario Sternwood rintanato nella sua dorata a ammuffita dimora accanto a due figlie, Vivian e Carmen, viziose, isteriche e prolifiche d’intrighi; un ricatto che piomba sulla famiglia e la misteriosa scomparsa del genero Sean Regan. È quel che basta perché bussi alla porta l’impassibile Marlowe, quel tipo che si dichiara “così avido che per venticinque dollari al giorno più le spese, perlopiù benzina e whisky” insiste a perseverare con il suo cervello “o con quel poco che ne resta.” Inizia così l’indagine, a ritmo sempre più incalzante, descrizioni di luoghi e azioni fulminee, spostamenti inattesi e descrizioni ben cesellate ma senza ombra di prolisse sbavature. Il libraio Arthur Geiger, che smercia sottobanco libri pornografici, viene trovato morto nella sua abitazione, di proprietà del gangster Eddie Mars, accanto a Carmen, nuda, confusa e drogata a più non posso. 

Raymond Chandler

Il tempo di riaccompagnare la figlia del generale a casa e tornare sul luogo del delitto e il cadavere è scomparso. Marlowe s’ingegna, segue esili tracce disponibili e la vicenda si trasforma in un complesso intrigo che lo trascina tra sale da gioco clandestine, killer prezzolati e false piste che non riescono a distoglierlo dalla corsa verso la soluzione. Viene picchiato, da uomini di Mars, nel tentativo di dissuaderlo dall’approfondire ulteriormente il caso, ma la tenacia della celebre creatura di Raymond Chandler affronta la paura con l’ironia sprezzante di un sopravvissuto a molte guerre. Pesto, minacciato e incatenato a un palo riesce a sciorinare battute al vetriolo, correndo come un funambolo in bilico tra la vita e il precipizio imminente della morte. Philip Marlowe è un duro ma a suo modo un buono, o meglio un giusto, che a un certo punto sembra adoperarsi più per rasserenare il vecchio cuore del generale che per riportare all’ordine un mondo che comunque rimarrà bieco e corrotto. Preparandosi all’ultima, risolutiva spedizione con cui metterà in croce il colpevole, ci regala una manciata di parole che restano impresse a tinte forti nella memoria e non a caso ispirano il titolo di quest’opera capitale del genere. “Che importanza ha dove si giace, quando si è morti? In un lurido pozzo nero o in una torre di marmo in cima alla collina, fa lo stesso. Quando si è morti si dorme il grande sonno, e a cose del genere non si bada.”