VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

lunedì 26 dicembre 2011

THOMAS PYNCHON - L'INCANTO DEL LOTTO 49



Pubblicata quarant'anni fa, questa spericolata avventura linguistica e romanzesca di Thomas Pynchon ha inaugurato la letteratura post-moderna. Attraversato da inventività stilistica e fantasia di intreccio straordinarie, il capolavoro del misterioso e pubblicamente quasi invisibile scrittore americano nato nel 1937 racconta della giovane Oedipa Maas, laureata in letteratura inglese, che viene inaspettatamente nominata esecutrice testamentaria del suo ex amante Pierce Inverarity, magnate immobiliare californiano. Oedipa lascia a casa il marito Mucho Maas, impasticcato deejay radiofonico ex venditore di macchine usate, chiede consiglio al frustrato e marpione avvocato Roseman, abbassa il telefono al dottor Hilarius, psicoanalista smarrito in esperimenti lisergici, e si dirige verso San Narciso, nei pressi di Los Angeles, quartier generale dei molteplici affari del defunto Pierce. In un motel scelto nella cornice di un desolante paesaggio industriale della bassa California incontra il coesecutore testamentario Metzger e qui hanno inizio le rivoluzioni pirotecniche della trama che trasformano la protagonista del romanzo in un'icona del delirio postmoderno, riflesso ironico di un ubiquo caos esistenziale e sociale. Nel bel mezzo di una scappatella amorosa, il rampante Metzger finisce a terra nel bagno accanto a Mrs. Mass, entrambi ubriachi e atterriti da un'impazzita bomboletta di lacca per capelli che vortica nell'aria e sbatte contro le pareti spumeggiando ovunque. I due esecutori del testamento Inverarity, temporaneamente rinsaviti, vanno a teatro e assistono alla rappresentazione di una cruenta tragedia rinascimentale, "La Tragedia del Corriere", di un certo Richard Wharfinger, raccontata in una dovizia di particolari che rivelano oscure relazioni con la miliardaria eredità di Pierce. Ad emergere con forza inquietante è l'ineffabile Tristero, un misterioso sistema secolare nato in contrasto con la prima rete postale cinquecentesca, il Thurn und Taxis. La preziosissima raccolta di francobolli di Pierce Inverarity comprende pezzi che portano proprio l'effige di questo sistema, il cui messaggio è veicolato dall'immagine di un antico corno da postiglione e di un tasso morto. L'apparente casualità degli incontri e delle scoperte di Oedipa la conducono sull'orlo di stralunati dilemmi metafisici che tra mille assurdità diventano il motore della storia. Sulle orme del Tristero, attorno a cui si farà luce solo parzialmente, la giovane laureata in letteratura inglese incapperà in un membro della CIA, non quella che pensiamo, ma la Conjuration de los Insurgentes Anarquistes, che promuove l'avvento del miracolo anarchico. La seducente Oedipa, perenne ricettacolo di avance di uomini mandrilli, valicherà la soglia della pazzia per fermarsi appena in tempo. Una pazzia, sembra suggerirci il romanzo, che è l'epifania della caducità e della frastornante interscambiabilità delle occupazioni umane. E a nulla servirà un ritorno alle cure del dottor Hilarius. Lo psicoanalista, in piena paranoia, è barricato nel suo studio e si protegge armato di fucile dalla possibile incursione di israeliani che vorrebbero processarlo per i suoi trascorsi antisemiti. Ovunque ci si volti è delirio grottesco e disperato. Il regista della tragedia di Wharfinger, Randolph Driblette, si getta nel Pacifico, l'occasionale amante Metzger molla tutto per un'adolescente rocchettara, il marito Mucho Maas rimane bloccato al crocevia dei suoi viaggi acidi. Oedipa, non sappiamo con quale futuro, si presenta alla messa all'incanto, lotto numero 49, dei falsi francobolli di Pierce Inverarity. Tendendo un occhio alla data di pubblicazione di questo classico di Pynchon, facciamo fatica a non considerare tanti recenti epigoni, trash o pulp che siano, come malcerti cloni fuori tempo massimo. 

Thomas Pynchon

martedì 20 dicembre 2011

CHUCK KINDER - L'ULTIMO DANZATORE DI MONTAGNA


Chuck Kinder, sessantaquattrenne, è uno dei più affascinanti narratori americani contemporanei: una leggenda dalla fama discreta, giocoliere della vita in bilico tra un’infinità di mestieri, whisky ed eccessi, dotato di un talento che sprizza a ogni pagina con un senso di vitalità inconfondibile e uno spudorato coraggio nel cogliere vizi e virtù proprie e altrui. Dopo un clamoroso esordio, nel 1973, con il romanzo di formazione Snakerhunter, non ancora tradotto in italiano, dopo Silver Ghost, del 1978, e quel voluminoso libro che si intitola Lune di Miele, pubblicato nel 2001, in cui racconta la sua lunga amicizia con Raymond Carver, Kinder si concede un anno sabbatico e si allontana dall’Università di Pittsburgh, dove è direttore del programma di scrittura creativa, per ritornare alla sua terra d’origine, il West Virginia. Inizia così una corsa a ritroso nel suo lontano passato, un incrocio di luoghi e personaggi mitici e familiari, figli di una terra montagnosa e selvaggia, abitata da folli ed eroi di provincia, contrabbandieri e solitari alcolisti rintanati in bettole sperdute tra vallate brumose incise da fiumi millenari. Lo scrittore in vena di bilanci esistenziali copre la regione in lungo e in largo, scova parenti ignorati da secoli e rievoca le durissime vite dei minatori di un tempo, pressoché schiavizzati dai vecchi baroni del carbone americano. Le storie che racconta sono di una grande varietà e compongono un’anomala autobiografia, insieme racconto della propria terra e di sé stesso. Il ricordo di una domenica trascorsa in piscina riapre le ferite di un bambino stretto tra umiliazioni e rivincite, canzonature subite per il piccolo difetto a un testicolo e pietà verso una bambina dal volto orripilante. L’esplorazione con il telescopio dell’universo in compagnia dell’amico secchione Johnny Menser termina in una fuga a gambe levate davanti a una misteriosa astronave apparsa nella boscaglia. E’ la mitologia della prima gioventù, carica di enfasi, sorprese e scosse che si imprimono nel carattere. Memorabile il ritratto del padre nel giorno in cui mostra all’intera cittadina il suo numero di tuffatore mettendo in ombra le prodezze di Capo Aquila in Volo, millantatore travestito da indiano di origini squisitamente italiane. Ma ancora più intensa è la rievocazione della madre immaginata nel giorno in cui compie cinquant’anni e celebra un personale, straziante funerale delle illusioni perdute. Chukh Kinder guarda sé stesso nelle molteplici versioni che assume lungo il corso della sua vita accidentata. A diciassette viene coinvolto in sette rapine a mano armata dentro e fuori Atlantic City, al seguito dell’avanzo di galera Morris Hackett, che tiranneggia su di lui come un criminale impazzito fino a quando, in una notte spettrale, non riuscirà a liberarsene. L’amore acrobatico con la giovane e piccantissima Holly vissuto dallo scrittore sposato, malandato e cinquantenne, è un’ennesima follia in cui si mescolano speranze insensate, bugie e sognanti derive. Le perlustrazioni dell’inquieto professore di Pittsburgh si spingono fino a covi di gay montanari, sale da biliardo e fast-food che abbondano di stivali a punta, tatuaggi, fucili e pistole. Spinelli e pastiglie allucinogene aiutano a farsi coraggio. La scrittura, ricca e precisa, distante dal minimalismo del vecchio compagno Carver, assume a tratti i toni di una psichedelica scampagnata on the road. Il danzatore di montagna del titolo è Jessico White, l’ultimo ballerino di tiptap degli Appalachi, un “cugino” fuorilegge che assurge alla gloria grazie al documentario Jessico Goes to Hollywood e che sopravvive nel mito di Elvis Presley, di cui si spaccia per il fratello gemello morto e occultato poco dopo la nascita. “Nelle fosse nere e senza fondo di quegli occhi immaginavo di vedere un miscuglio di rabbia, follia, dolore, paura e diffidenza, una capacità infantile di provare tristezza, meraviglia e solitudine, oltre a un guizzo di qualcosa che si avvicina alla tenerezza, e da qualche parte, in un remoto anfratto di quegli occhi indemoniati, splendeva la sua inclinazione alla gioia e alla fama, insieme a un’infantile propensione per la violenza incontrollata, così sconfinata da far paura. Erano occhi in cui fantasticavo di vedere riflessi i miei.”

Chuck Kinder

lunedì 12 dicembre 2011

UN INCONTRO CON GIANNI CELATI A DIOL KADD


Durante un incontro nei pressi dell’Università di Dakar, Mandiaye Ndiaye, regista e storico attore senegalese del Teatro delle Albe di Ravenna, inizia a parlarmi di una nuova versione del Pluto di Aristofane che ha intenzione di mettere in scena - o mettere in vita, come ama precisare - con gente di campagna e in piena Africa rurale. E’ così che giungo a Diol Kadd, villaggio natale di Mandiaye, una manciata di capanne sperduta nel sahel dove mi ha preceduto di qualche giorno Gianni Celati con i suoi due operatori Lamberto Borsetti e Paolo Muran. L’idea della piccola troupe è quella di filmare le prove del Pluto, progetto da cui germinerà strada facendo un’opera autonoma pubblicata dopo una lunga gestazione da Feltrinelli. La documentazione del lavoro teatrale scivolerà in secondo piano lasciando spazio a un delicato e vivissimo quadro di vita africana completato dai diari tenuti da Celati nel corso di un work in progress durato quattro anni. Passar la vita a Diol Kadd è una testimonianza scaturita da un modo di registrare gli eventi insieme partecipe e trasecolato, che limita al minimo necessario le intromissioni in un ambiente estraneo, osservando con un filo di rimpianto e un altro di desiderio un mondo lontano dagli attuali canoni occidentali e vicino per certi aspetti a quel che poteva accadere nelle nostre campagne mezzo secolo fa. “E’ un’amica comune, Ermanna Montanari, che ha fatto da tramite” mi racconta Celati quando le chiedo della sua amicizia con Mandiaye e dell’avvio del progetto. “Dopo una lunga serie di contatti ci siamo ritrovati in Senegal con il proposito di girare un documentario a Diol Kadd. Io ho idee continuamente confuse, mentre Mandiaye, la seconda o la terza volta che ci siamo visti, aveva già scelto una commedia di Aristofane, Il Pluto, da trasformare in lingua wolof attingendo alle mitologie dei contadini e delle campagne africane. Quest’avventura è iniziata grazie a lui. Quando sono arrivato qui il lavoro era già avviato e si stavano facendo le prove con lo straordinario Moussa Ka, il servitore della commedia, altro grande amico. 


Gianni Celati e Vincenzo Maria Oreggia a Diol Kadd nel 2006

Era l’estate del 2003 e non capivo ancora nulla di ciò che accadeva, ma a colpirmi subito fu l’eccezionale partecipazione della gente, con un’intensità che faceva risuonare ogni più piccola inflessione della voce. Ricordo quelle sere come l’ideale di tutti i teatri, dove si vede poco e tutto vibra in modo impressionante. La storia era quella di un contadino e del suo servo: il contadino di Aristofane che si stanca di essere povero e si rivolge all’oracolo per sentirsi dire che il primo cieco lungo il suo cammino sarà il dio della ricchezza ed è lui che dovrà curare. Moussa, nella parte di servitore, era un brontolone un po’ retrivo di campagna che stupiva per la gesticolazione da derviscio e per il talento di improvvisatore insofferente a qualsiasi copione. Il teatro, quando è tutto apparecchiato lì per bene e si riduce alla sola rappresentazione, mi dà un’impressione mortifera. Qui a Diol Kadd era invece tutto pieno d’anima, con i due cori maschile e femminile che si scontravano prendendo rispettivamente le parti del padrone e del servitore. Ero confusissimo ma avevo l’impressione di qualcosa che raramente vedi nelle forme teatrali, ed è così che mi è venuta l’idea di provare all’esterno, nelle strade. Rivedendo ciò che abbiamo realizzato il primo anno, la cosa più interessante rimane comunque questa partecipazione del villaggio, che avvertivo pur senza comprendere nulla dei discorsi. L’anno successivo, nel 2004, mi sono poi concentrato sul profilo drammaturgico e ho cominciato a scrivere piccoli testi per sviluppare l’idea della commedia, che si è allontanata dal suo impianto tradizionale. Quando abbiamo fatto parlare ad esempio la moglie del contadino ne è venuto fuori un numerino delizioso di recita paesana. Alcune signore del vicinato si avvicinavano liberamente e imparavano a loro volta una parte. A un certo punto abbiamo trovato un imperdibile dio della ricchezza, l’ex portiere della nazionale di calcio senegalese, che è diventato un buon compagno di lavoro. Aveva una malleabilità particolare e una dedizione assoluta al progetto, ma non voleva memorizzare nulla leggendo, costringendoci a mettergli ogni volta le parole in bocca, con un conseguente personalissimo processo di adattamento. Non so ancora come farò a trasporre questa lingua, il wolof, per me intraducibile, in italiano. Nel film che giriamo l’evento teatrale assumerà necessariamente una nuova dimensione. Ho in mente una specie di diario parallelo alla scena itinerante.” Continuando a parlare del Pluto, commedia in cui le divinità entrano in diretto contatto e condizionano le scelte degli uomini, la conversazione si orienta verso quella porta che in Africa, contrariamente a quanto accade in Occidente, rimane sempre socchiusa tra l’ordinario e il soprannaturale.

Passar la vita a Diol Kadd. Diari 2006-2006. Con DVD
Passar la vita a Diol Kadd, edito da Feltrinelli nel 2011

"Presso gli antichi sacer significava invece allo stesso tempo due cose, manteneva una costante ambivalenza, che in Africa è ancora sentita. Quando, come nelle nostre società, la si abolisce, il sacro è messo a tacere. Superando limiti interdetti e contravvenendo a tabù ancestrali metti in crisi il sacro ma al tempo stesso lo riveli, come accade nelle cose che riguardano il sesso. La pornografia è un caso tipico in cui questo processo non è più possibile perché tutto è senza veli e non c'è più nulla da desacralizzare. L'uomo europeo tende a ignorare questa soglia ambigua, laicizzando tutto.” La distanza tra il modo di percepire l’esistenza in Occidente e in Africa è un argomento caro a Celati. Intercetta una delle principali ragioni per cui si è spinto quaggiù. “La sfera del soprannaturale è una dimensione che gli europei accettano difficilmente. Pur tenendo in debito conto il punto di vista della scienza, non bisogna mai dimenticare che ne esiste un altro. In quanto esseri umani siamo entrambe le cose e dobbiamo accettare di essere proprio così, spaccati in due. Ignorarlo conduce a disastri. Lo puoi constatare negli americani: è come se si fossero tirati via un pezzo di lobo mentale, trasformando tutto in qualcosa di funzionalistico. E' una stupidaggine bloccare cose che ci accompagnano fin da quando siamo bambini, che danno sostanza alla nostra immaginazione e abitano quel che chiamiamo l’inconscio. Che sia difficile tenere i piedi in entrambi gli aspetti è un fatto che non ci consente di obliterarne uno, come fanno i fanatici del dato scientifico. Giudicare una delle due dimensioni inferiore e inconciliabile con l’altra è un forzatura tecnicistica che produce la perdita di quella preziosa zona interstiziale che è il nucleo più fervido e importante della nostra vita.” Ma anche l’atmosfera miracolosamente integra di Diol Kadd, dove uomini dai gesti tranquilli dialogano con il soprannaturale, è attraversata dal pericolo della modernizzante rovina. “Una sera siamo usciti col carretto per fare un giro in un paese qui vicino. Era già buio e siamo sfilati accanto ad abitazioni in cui era già arrivata la luce elettrica. Era strano scorgere i pali della luce e intuire qua e là nel buio la presenza di un frigorifero o di una televisione. Provo a immaginare come sarà qui tra dieci anni e ho l’impressione di vivere in uno stato sospeso. Tutta questa parte d’Africa ha quest’aria di sospensione. Quando sono stato in Mali mi sono innamorato della sua gente pacifica e mi chiedevo da dove venisse quella serenità straordinaria. Muoiono in media a quarantatré anni, vivono con un reddito di pochi dollari, se gli regali un sacco di miglio vanno avanti per sei mesi, eppure continuano a passare le loro giornate in questo stato edenico, sospeso, con qualcosa di sconosciuto che incombe ma non li intacca.”

venerdì 2 dicembre 2011

PAUL THEROUX - UN TRENO FANTASMA VERSO LA STELLA DELL'EST


A sessantacinque anni, Paul Theroux, il grande scrittore di viaggi americano, autore tra l’altro insieme a Bruce Chatwin di Ritorno in Patagonia, compie un’impresa coraggiosa e ripercorre un fantastico itinerario della sua gioventù. Parte da Londra e con mezzi quasi esclusivamente di terra attraversa l’Europa orientale, il Medio Oriente, l’Asia centrale, il Sudest asiatico, sale in Giappone e rientra alla base completando la Transiberiana. Trentasei anni prima, il resoconto dell’avventura diede origine a Bazar Express, pubblicato nel 1975 e suo primo successo internazionale, ora offre invece il materiale a questo libro ricchissimo e affascinante, pervaso da grazia stilistica e da un’innumerevole serie di informazioni che ne fanno un vero e proprio affresco del mondo contemporaneo, essenziale per conoscere senza infingimenti mediatici la realtà in cui viviamo “Una delle tante soddisfazioni del diventare vecchi” si legge nelle prime folgoranti pagine del lungo reportage narrativo, “è quella di poter prendere il ruolo di testimoni di un mondo che traballa e osservare trasformazioni irreversibili. Gli svantaggi sono invece il tedio di dover ascoltare le idee illusorie dei giovani e soprattutto le opinioni trite di gente che dovrebbe avere più buon senso ma è ancora più inesperta: tutte le bugie sul progresso, la paura, il nemico, la guerra.” Il bilancio delle appassionate peregrinazioni di Theroux, per cui il lusso è nemico dell’osservazione e l’unico modo per capire è mescolarsi alla polvere delle strade, è decisamente pessimista. Il pianeta sta invecchiando molto male e miliardi di persone sono oppresse da governi ingiusti. Le dittature prosperano, tollerate o sostenute per convenienza dai moderni imperi. Le notizie dal Turkmenistan, dall’Uzbekistan o dalla Birmania sono terrificanti. Tiranni e generali sanguinari imperversano e hanno imperversato senza agitare più di tanto la comunità internazionale. Quanti conoscono la storia del dittatore turkmeno Saparmyrat Niyazov o di Karimov? Il miracolo economico indiano si poggia sulla sfruttamento di un’immensa e diligente manodopera; la sovrappopolazione comprime gli spazi vitali e mezzo miliardi di esseri umani vivono con un dollaro al giorno. Tutte le grandi potenze, a prescindere dal colore politico, scontano il prezzo dell’ingiustizia per nutrire i loro privilegi; l’autoritarismo e l’arbitrio legislativo appaiono elementi necessari di una catena alimentare estesa a livello planetario. Ma anche il sogno realizzato del benessere giapponese è diventato un universo di perversa superficialità e standardizzato appagamento, dove regnano romanzi a fumetti, manga e supermercati di un sesso consumato in tutti modi possibili. A Tokyo, Theroux trascorre una giornata in compagnia del più appartato e famoso scrittore nipponico, Murakami Haruki, che gli fa da anfitrione tra vasti sex shop e ambienti di un’eleganza raggelante. Le visioni di Huxley e Orwell sono realizzate. Ma nonostante le atrocità, il viaggio non si ferma e gode di momenti più sereni in angoli di paradisiaca bellezza naturale o negli incontri casuali con gente comune, memorabile per intensità e generosità umana. Il treno fantasma di Theroux corre soprattutto alla ricerca degli umili, degli sguardi semplici, dei regali spirituali che capitano al viaggiatore come gemme nascoste sotto il fango e resistenti a qualsiasi dolore. Che siano conduttori di risciò, anziani professori squattrinati che sgranano rosari sotto i colpi del regime, coppie di anziani che si ritirano con saggia mestizia da un terra irriconoscibile. Nelle pagine del libro vengono spesso ricordati dal coltissimo scrittore nativo di Medford, nel Massachusett, grandi protagonisti della letteratura di ogni tempo, da Mark Twain a V.S.Naipaul, da Kiplig a Thoreau, da Conrad a Salinger a molti altri, ognuno pescato per qualche suo notevole tratto distintivo. In uno Sri Lanka funestato dalla sanguinaria azione degli indipendentisti tamil e ancora pesantemente segnato dal recente tsunami, Paul Theroux si reca in visita all’ottantanovenne Sir Arthur C. Clarke, l’autore di 2001: Odissea nello spazio, arzillo vecchietto che abita nella capitale Colombo, in bilico tra reviviscenze di tempi lontani e sporadiche accensioni fantascientifiche. Sono così tante le suggestioni sparse in queste cinquecento pagine che è difficile districarsi tra i passi sottolineati. E’ un libro da leggere per gli aggiornamenti politici e sociali, per rettificare le opinioni convenzionali di chi vive protetto dalla scabra verità. Ma è anche il libro di un uomo tenace e complesso nell’alternanza di slanci e riflessioni, memorie personali, storiche e segrete commozioni. Il tutto temperato da una maturità in raggiante forma. “Con l’età si acquista la capacità di apprezzare il decadimento, l’epifania di Wordsworth, la saggezza del wabi-sabi: nulla è perfetto, nulla è completo, nulla è durevole.” 

Paul Theroux
         

domenica 20 novembre 2011

LUKAS BARFUSS - CENTO GIORNI

Dopo alcuni vagabondaggi giovanili David Hohl si ritira in un freddo paesino tra le montagne svizzere del Giura. Animato da un puro anelito di giustizia planetaria medita una partenza per l’Africa al seguito della Direzione della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario. Nel giugno del 1990 è all’aeroporto di Bruxelles in procinto di imbarcarsi per Kigali, quando si imbatte in Agathe, capricciosa e affascinante ruandese che lo mette nei pasticci con la polizia aeroportuale ritardando di alcuni giorni la sua partenza. Attrazione e perplessità, malia e inquietudine, vanesia esteriorità e carnalità profonda sono le contradditorie impressioni suscitate dalla ragazza africana, che offre al giovane europeo un assaggio di ciò che lo attende in Ruanda. Lukas Bärfuss, drammaturgo di lingua tedesca nato a Thun nel 1971, racconta nel suo primo romanzo la complessa realtà di un paese decolonizzato e segnato da ciniche politiche coloniali, abitato da gente in apparenza pacifica e ordinata, contadini operosi e ubbidienti agli ordini del “buon” dittatore Hab. Il Ruanda che accoglie David Hohl è un’isola riparata dalle ferite dell’Africa più cruda, dall’inferno della fame e delle epidemie devastanti; è un luogo in cui i volonterosi occidentali si sentono al sicuro, innanzi tutto con le proprie coscienze, impegnandosi nella nobile opera di sostegno allo sviluppo. Kigali è una capitale sonnolenta, dove gruppetti di bianchi, in maggioranza cooperanti, funzionari e addetti di Ambasciata, si ritrovano nei soliti bar a imbolsire in compagnia di cattivi alcolici e giovani prostitute. Missland, il più spregiudicato e sincero tra loro, introduce David all’aspetto ambiguo e rimosso della gente ruandese, sospettata di una costante doppiezza e incline a una disciplina pronta a degenerare in ferocia classista. L’iniziazione africana del protagonista che si racconta in prima persona passa attraverso la convulsa avventura amorosa con la ritrovata Agathe, con il mistero di una sessualità immune dalla vergogna alternata a improvvisi irrigidimenti in canoni e pregiudizi tradizionali: una ragazza combattuta tra i sogni di Bruxelles e la realtà di un paese che la richiama alle sue logiche razziali. David sperimenta le ipocrisie della cooperazione, ascolta gli sproloqui attorno alla necessità di una democrazia inverosimile, rischia la vita in un bagno di folla addensata in occasione della visita di papa Woityla, osserva gli ultimi gorilla di montagna protetti come rare divinità: grandiosi animali da cui emana uno strano afflato spirituale, capaci di un’immersione così serena nel presente da suscitare la nostalgia di un mondo irrimediabilmente perduto. Conosce la selvatica bellezza africana accompagnata dal suo osceno controcanto, e come atto finale del soggiorno ruandese vive da testimone diretto una della più grandi carneficine della storia. La calma della cosiddetta Svizzera d’Africa riposava su un’inconfessata vergogna: la divisione della popolazione – incoraggiata e ufficializzata sulle carte di identità nazionale dalla vecchia amministrazione belga - in Corti e Lunghi, Tutzi e Hutu. Non si era trattato di una differenziazione etnica, ma di una classificazione per rango sociale irrigiditasi nel tempo in due schiere di individui in competizione per il potere. Nel giugno del 1994, la martellante propaganda governativa, messa a punto con il contributo di consulenti occidentali, raggiunge il suo scopo e squadre di Corti armati di machete e bastoni danno avvio a una scrupolosa mattanza. Ottocentomila esseri umani uccisi in cento giorni sotto gli occhi di una comunità internazionale colpevolmente inattiva. Rimasto a Kigali quando tutti gli europei sono ormai fuggiti, David segue l’orrore fino ai campi profughi ammorbati dal colera lungo il confine del paese, dove anche l’inquietante avvenenza di Agathe è ridotta a un teschio morente.                

Lukas Barfuss
            

mercoledì 16 novembre 2011

PIERO CALAMANDREI - PER LA SCUOLA


Il diffuso degrado della società civile intesa come rete di valori vissuti che rendono felice la convivenza tra persone, la perdita di rispetto per la cultura umanistica e per i reali livelli di maturazione individuale, lo smarrimento di riferimenti alti nel ciarpame e nell’ubriacatura di insensata esteriorità contemporanee, rendono particolarmente urgente questa riproposta di scritti di Piero Calamandrei introdotti da Tullio De Mauro. Il nostro grande costituzionalista, figura che per levatura morale ci fa rendere conto dell’enorme distanza dall’odierna classe politica, si impegnò a lungo sul fronte della scuola, ritenendo che una democrazia senza un adeguato sistema scolastico rimane priva di fondamenta o peggio costituisce una vera contraffazione. Se chi vota non ha strumenti critici per essere consapevole delle proprie scelte, crolla il presupposto della libera volontà dell’elettore, sostituito dalla pratica di una volontà manipolata, ieri dai megafoni dei tour elettorali nelle piazze piccole e grandi d’Italia, oggi dal rullo compressore della televisione propagandistica. La massiccia immigrazione, che pone nuove vaste comunità nella necessità di formarsi e aggiornarsi all’interno della temperie culturale del nostro paese, è un motivo in più per interrogarsi sull’efficienza della scuola. Essenzialmente sono tre gli orizzonti di valore cui può fare riferimento un uomo: quello religioso, tra i giovani in gran parte assente, percepito dalla maggioranza della popolazione in modo formalistico e ormai lontano dal tradursi in personale avventura spirituale; quello tradizionale, veicolato dalla cultura e dalle tradizioni popolari in via di estinzione; infine l’orizzonte di valori umanistici, sedimento della secolare cultura occidentale andato a nutrire il laicismo illuminato di tanti padri della nostra Repubblica come appunto Piero Calamandrei. Fine giurista e uomo politico fondatore del Partito d’Azione, Calamandrei fu una tre le figure più insigni nel dibattito attorno alla stesura della Costituzione. La tensione morale e l’eleganza dello stile di un uomo che svolse peraltro attività di poeta, scrittore e pittore, si riflettono bene in questi tre scritti sulla scuola. Si tratta della trascrizione di un’interpellanza parlamentare del 1948 alla Camera dei Deputati (In difesa dell’onestà e della libertà della scuola), di un discorso pronunciato al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale risalente al 1950 (Difendiamo la scuola democratica), e di un testo apparso sulla rivista Il Ponte nel 1946 (Contro il privilegio dell’istruzione). Le statistiche relative all’Italia di oggi forniscono dati allarmanti circa il livello di istruzione generale. Il 5% della popolazione adulta è analfabeta, il 33% semianalfabeta, un altro 33% rischia di cadere in questa condizione e solo il 20% possiede “gli strumenti minimi indispensabili per orientarsi in una società contemporanea”. Ma ciò che appare più grave sono la faziosità e le logiche di parte che emergono nel proporre modifiche a un sistema scolastico che è patrimonio collettivo. Calamandrei, prendendo spunto da occasioni del tempo, sembra parlare ai nostri giorni. La sua ironia, controllata e pronta a rientrare nella solita compostezza argomentativa, non si accanisce pregiudizialmente contro particolari schieramenti e da ex militante antifascista non ha problemi nell’indicare le qualità positive del modello statunitense. Nonostante il sistema capitalistico, gli Stati Uniti mantengono una “classe dirigente in continuo ricambio, aperta all’ininterrotto emergere dei migliori.” Il giovane collaboratore del “Giornalino della Domenica” di Vamba, che si proponeva di formare i ragazzi agli ideali del Risorgimento e dell’irredentismo, aveva osservato e tratto ispirazione dalle masse degli umili e dei contadini analfabeti impegnati a difendere al fronte un’idea di Patria che nessuno aveva loro insegnato. Esistono, per uno dei padri più nobili della Costituzione italiana, due forme gemelle di totalitarismo: il totalitarismo aperto dei regimi a partito unico e quello subdolo, indiretto, che sotto vesti democratiche mira a trasformare la scuola di stato in scuola di partito o di setta. Un’attività che dimentica il principio di pari opportunità per tutti i ceti e le classi sociali, elargisce privilegi speciali a scuole private o confessionali trascurando la struttura portante del servizio pubblico.

Piero Calamandrei

martedì 1 novembre 2011

MAURO COVACICH - A NOME TUO



Nell'immediato appaiono come due parti di romanzo indipendenti, entrambe raccontate in prima persona dai rispettivi protagonisti. L'umiliazione delle stelle narra l'avventura dell'autore su una nave scuola della Guardia di Finanza che partendo da Bari risale l'Adriatico segnando le diverse tappe previste dall'iniziativa pedagogico-istituzionale Libridamare. Una crociera che diventa l'occasione per tornare alle radici slave dello scrittore triestino e tenere un diario parallelo di ciò che accade a bordo, tra personaggi che nascondono un profilo ambiguo e l'incontro sconvolgente con la misteriosa Angela, ragazza nera che si infila clandestinamente nella sua cabina. Musica per aeroporti è invece uno spaccato di vita della giovane italiana di origini africane, la stessa Angela apparsa nel corso della crociera adriatica, la cui vera identità è quella di Fiona, figura cardine già in precedenti opere di un autore tra i migliori della letteratura italiana contemporanea. L'architettura narrativa di Covacich non ubbidisce a disegni preparati e la scrittura cresce attorno a nuclei che proliferano e si intersecano fino a comporre un quadro denso che avvince per la tenuta stilistica e l'urgenza dei contenuti. E' l'idea di un romanzo che interseca e corteggia molteplici tracce autobiografiche creando una famiglia di alter ego, anime diverse di un autore che testimonia la dura resistenza a un presente, storico e privato, tutt'altro che ospitale. Le tracce sotterranee e i motivi ispiratori che legano le prime due lunghe parti di A nome tuo sono il dramma della sofferenza umana, l'insensatezza di una vita risucchiata come nulla fosse stato nel totale buio della morte e la libertà di scegliere il momento della propria fine come antidoto all'insostenibilità del male fisico. A sollevare parzialmente dalla caduta irreversibile rimane la memoria, riscoperta di radici sentimentali e storiche vissuta come escursione pacificante verso oasi sperdute di passato che sospendono la morsa rabbrividente dell'attualità. Lo scrittore in visita a Durazzo, Cattaro, Dubrovnik, tra le isole di Hvar e Brač o a Capodistria, è un uomo che avverte la minaccia di un piano occulto tramato alle sue spalle dai responsabili della navigazione, un viaggiatore stretto tra l'ufficialità del ruolo di intellettuale e un'intima macerazione, incline a meditazioni sulla deperibilità universale, sulla progressiva, invalidante senescenza propria del destino umano. Annovera noiosi acciacchi fisici, la sconnessione dei dischi vertebrali o crisi emorroidali risolte in cruente automedicazioni, danni che non sarebbero così opprimenti se non fossero spiragli attraverso cui scorgere orizzonti catastrofici. Il racconto della nonna mummificata in vita e imboccata dalla badante prelude a un peggio che sarà presto raccontato, mentre la clandestina Angela lo irretisce in una scherma di provocazioni erotiche. E a un tratto, come aprendo un nuovo libro, inizia la vita in presa diretta di questa Angela-Fiona che per mestiere aiuta a morire malati terminali. L'infaticabile nuotatrice residente a Maccarese, sul litorale laziale, in una zona di spoglia e selvatica suggestione nei paraggi di Fiumicino, trova nelle eccessive prove di resistenza fisica un sollievo temporaneo all'assedio dei pensieri che ritornano come una marea incessante dal suo inconfessabile lavoro. Le descrizioni delle visite a vecchi e giovani sfiniti che optano per un'eutanasia guidata sono marcate da relazioni minuziose in cui appaiono esseri umani torturati da sclerosi galoppanti e tumori irreversibili. Attorno mulina la vana giostra di un società chiassosa, ambienti creativamente chic di una Roma pesante e fatua, relazioni marcate da rapinosi appagamenti e saltuari ritorni a quel che resta della famiglia, un padre vecchio e dolce e un nonno semisordo accudito dalla solita badante. Più indietro ancora, sulla scia di un accorato flusso memoriale, un'adorata madre scomparsa ad appena quarant'anni, fantasma che riemerge dal fondo scuro delle acque quando Fiona spinge pericolosamente le sue bracciate troppo lontano dalla costa. Un'inquietudine costante, quella della giovane fondista impegnata a zittire la coscienza, che si scontra con una materia ancora più ostica quando incappa nell'ingegnere Grimaldi, coltissimo amante di Virgilio deciso a farla finita ancorché in buona salute. Non è tra i compiti di Fiona assistere il trapasso di un caso simile, dovrebbe andarsene, invece rimane visceralmente presa dal vecchio stanco di una vita che ritiene già compiuta e rivendica il diritto alla sua decisione con logica implacabile. I dialoghi tra i due e la complicità che si crea nel vuoto dei silenzi  fanno della morte un tema di riflessione sempre più esplicito, innestando questioni metafisiche nella carne viva dei personaggi, temi capitali che diventano letteratura senza abusare di astrazioni. Un rovello ficcato nel cuore del romanzo fino all'epilogo, in cui si perdono le tracce dell'aspirante suicida e Fiona invia una lettera a Mauro Covacich accusandolo di essere ricorso a un plagio per mettere a punto la videoinstallazione realmente presentata dall'autore nel 2009 a Venezia. Ultime pagine spiazzanti, che rimandano a un labirintico gioco di identità tra l'artista e le sue controfigure immaginate.  

Mauro Covacich

mercoledì 12 ottobre 2011

ERALDO AFFINATI - COMPAGNI SEGRETI


La passione di Eraldo Affinati per le grandi ferite storiche del Novecento, e in particolar modo per gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, ha un’origine lontana. Il nonno partigiano di questo scrittore che sta tracciando un percorso significativo nella nostra letteratura contemporanea venne fucilato dai nazisti nei dintorni di Forlì. Era il 1944. Sua figlia venne arrestata e caricata su un treno merci che l’avrebbe portata in Germania. Alla stazione di Udine, chiede al giovane sorvegliante il permesso di scendere e approfittando di un frangente caotico riesce a fuggire e a trovare protezione presso altri partigiani. Eraldo Affinati è figlio di quella donna e di quella fuga, senza la quale non sarebbe mai nato. Una fuga che ha segnato uno strappo nella sua vita, una cicatrice che le sue ricerche e le sue parole tentano di ricucire e meglio comprendere. Perché, come scrive in Compagni segreti, la letteratura non è una medicina, non ha la possibilità di guarire l’uomo dai suoi mali, ma lo aiuta a vedere, è una luce nel buio, specie in periodi storici in cui il buio diventa tenebra sanguinosa. Affinati ha iniziato a scavare in quella ferita studiando la storia. Non da specialista, ma piuttosto da umanista curioso e vorace, dilatando il sipario sulla Seconda Guerra attraverso le pagine che ne rendono testimonianza. Ma qualcosa mancava. Si sentiva insoddisfatto, insufficiente rispetto alle cose che apprendeva. E nel 1995, partendo da Venezia e percorrendo l’Austria e la Slovacchia con mezzi poveri, a piedi, raggiunse Auschwitz. Dall’esperienza di quel viaggio è nato un libro, Campo del sangue, con il quale pensava di chiudere i conti con quella ferita. Invece ne aprì di ulteriori, chiamandolo ad appuntamenti cui non poteva sottrarsi. Continuando a occuparsi dei suoi temi d’elezione, nel 2002 scrive un altro libro, Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer, dedicato al grande teologo protestante fatto impiccare dal Fuhrer nel 1945, e seguendo le tracce di uno dei pochi tedeschi che ebbero il coraggio di resistere al nazismo riscopre le ragioni di una speranza riemersa nonostante tutto il male accaduto. Il libro su Auschwitz e quello su Bonhoeffer costituiscono le premesse a Compagni segretiInsistendo nelle sue investigazioni, Eraldo Affinati ha deciso di recarsi sui più importanti luoghi del conflitto per capire con i propri occhi cosa significa vivere in città di plastica come Hiroshima, Nagasaki o Cassino, città interamente ricostruite dopo i bombardamenti. Cercando di fondare la parola su un’esperienza diretta, si è aggirato come un rabdomante tra le rovine, le terre ancora impastate di sangue e la nuova vita che è rifiorita come un miracolo tra le pietre. Restando in bilico tra passato e presente ha raccolto le testimonianze dei salvati, ha evocato la tragedia dei sommersi e ha guardato con meraviglia ragazzi dall’aria spensierata aggirarsi per Hiroschima o salire i tornanti verso Cassino in sella ai loro motori sportivi. Perché tanto la memoria quanto l’oblio sono essenziali alla vita, ed è proprio grazie al mistero della gaiezza risorta dopo il disastro che sopravvive la nostra specie. “Se arrivassi a comprendere la letizia dei ragazzi di Hiroschima, avrei capito anche il senso della letteratura” confida nel reportage d’apertura di Compagni segretiLa letteratura è innanzitutto responsabilità della parola. Ma non si tratta della responsabilità di fronte alla legge, che non riesce a spiegare ciò che è accaduto nel Novecento. Quando i carnefici, a Norimberga o a Francoforte, furono messi alle sbarre, si giustificavano dicendo che si erano limitati ad eseguire degli ordini. Non è dunque di questa accezione di responsabilità che possiamo fare uso, così come dobbiamo scartare una responsabilità intesa in senso morale o sociale. Per spiegare quale tipo di responsabilità sia necessaria alla parola, Affinati ricorre a una frase di Dostoevskij. “Io mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me.” E’ una responsabilità che viene prima della legge, prima dei nostri sistemi etici, ed è la ragione profonda per cui l’uomo non è un animale. Prendersi in carico lo sguardo altrui: qualcosa di imprescindibile che all’autore di Compagni segreti capita per la prima volta di sentire con forza nel Campo N. 10 di Auschwitz, il campo della morte, dove non venivano uccise le persone tramite i gas, evitando un rapporto diretto con la vittima, ma con tiri diretti alla nuca. E’ in quel momento, nel corso del viaggio del 1995, che furono messe alla prova tutte le sue convinzioni religiose e morali. Eraldo Affinati insegna italiano e storia in un istituto professionale di Roma, all’interno della comunità educativa Città dei Ragazzi, creata dopo la Seconda Guerra Mondiale da un sacerdote irlandese per raccogliere gli orfani italiani. Nel tentativo di restituire loro una vita, J. P. Carroll-Abbing pensò di dare corpo a una città fatta dai ragazzi, che potevano eleggere il sindaco, gli assessori e quindi autoresponsabilizzarsi. Oggi, nella comunità, sono presenti ragazzi stranieri che raggiungono l’Italia lasciandosi alle spalle tragedie inenarrabili e che, spesso analfabeti nella loro lingua madre, studiano l’italiano. Nel lavoro di insegnante il concetto di responsabilità della parola è centrale. Parlando, chi insegna incide nella percezione dell’adolescente, non solo per quello che dice, ma soprattutto per come si muove, ed è così che insegnamento e scrittura diventano due attività strettamente legate da un senso della parola che non può essere arbitraria ma deve corrispondere a un’esperienza. I libri di Affinati non nascono da un’invenzione tematica, ma da un’esperienza reale da comunicare agli altri nella trasfigurazione della parola letteraria. Compagni segreti è frutto di un impegno tra viaggi, ricognizioni sul posto, letture e finalmente scrittura. Ma oltre ad essere una raccolta di reportage sui luoghi che sono diventati tappe di un itinerario di maturazione umana e spirituale, è anche un libro di incontri con una vasta schiera di scrittori contemporanei, una settantina, le cui figure e le cui opere fanno da contrappunto alle perlustrazioni fisiche dell’autore. Un’opera in cui sono chiamati all’appello tutti i compagni segreti di un lettore instancabile, coloro che gli hanno dato forza e fiducia nutrendo una visione della letteratura intesa come protesi della vita. Affinati passa da Hiroschima al penitenziario di massima sicurezza sul Lago Bianco, quasi mille chilometri a nord di Mosca, dove sono reclusi 150 ergastolani dopo l’abolizione (non ancora certificata) della pena di morte in Russia, scendendo nei meandri di un carcere infernale e intervistando Ravil Daskin, l’unico condannato che chiede ufficialmente di essere ucciso e che “rinunciando per se stesso a ogni clemenza e misericordia, sembra uscito da una pagina di Fedor Dostoevsij.” Si aggira per Cassino, ricostruendo la storica battaglia. Raggiunge la spiaggia di Omaha Beach per raccontare lo sbarco in Normandia. Si incammina lungo le strade di Mosca e Berlino, rievocando la resistenza forsennata dei russi, l’accerchiamento delle truppe naziste e la loro definitiva disfatta con la conquista della capitale tedesca. Si siede accanto ai suoi ragazzi nell’aula di Bordeaux dove si celebra il processo a Maurice Papon, ottantaseienne ex Ministro di Francia e complice dei nazisti nella deportazione di migliaia di ebrei francesi. Ma accanto a questi reportage vivificati dall’alchimia di una parola “responsabile”, ce ne sono altri che attraversano luoghi più letterari trasformandoli in parallele occasioni di scoperte e illuminazioni. Incontriamo così la casa di Ernest Hemingway, nell’Idaho, con la tomba del maestro americano nel cimitero di Ketchum. Quella di Tolstoj, nel boschetto innevato vicino alla residenza di Jàsnaja Poljana. Il piccolo cimitero in cui è sepolto Boris Pasternak, “sul promontorio dove le luci di Mosca sembrano fuochi fatui all’orizzonte”, per giungere al rifugio di Asiago in cui vive uno dei grandi testimoni della Seconda Guerra, Mario Rigoni Stern, con cui Affinati intrattiene fitte conversazioni e di cui ha curato la pubblicazione delle opere complete nei Meridiani. In un estendersi composito e intimamente coerente delle passioni dello scrittore, il lungo viaggio distillato in Compagni segreti approda alle colossali solitudini del paesaggio meridionale dello Utah dove l’improvvisa epifania naturale del canyon è raccontata con intensa forza visionaria. Un canyon percepito come “una materia opaca che rimanda a se stessa, un muro cieco, invalicabile che vanifica i nostri sforzi interpretativi e riduce l’intelletto a un fuoco artificiale che esaurisce in un breve attimo la sua convulsione luminosa e, immediatamente dopo, mostra il filo bruciato che resta.” Onorando l’ultima stazione del suo privato giro del mondo e dei suoi illustri contemporanei, Affinati torna in Giappone, dove al termine di un cammino nel cuore del secondo immane scempio atomico, si mette in ascolto degli uomini vivi e trapassati nella pace sospesa di una natura che continua a emettere la sua tenera musica vitale. “Gracchiano le gazze, friniscono le cicale, mentre il cuore dei sopravvissuti, che siamo tutti noi, batte forte a Nagasaki.”      



lunedì 10 ottobre 2011

ABD AL-QADIR AL-JILANI - IL SEGRETO DEI SEGRETI



Se pensiamo a Bagdad, sono immagini di guerra e massacri quelle che tornano alla mente e non purtroppo l’immagine dell’antica culla della civiltà islamica nonché la patria elettiva dell’immenso Shaykh ’Abd al-Qàdir al-Jilani (1077-1166), conosciuto anche come “il santo di Bagdad”, città in cui il suo mausoleo è tutt’oggi meta incessante di devoti pellegrinaggi. Già la sua infanzia fu costellata di miracoli, come racconta Tosun Bayrac nell’esauriente prefazione. Nato nel mese sacro di Ramadan, il piccolo al-Jilani rifiutava durante il giorno il seno materno e si nutriva solo di notte. La madre, discendente del Profeta Muhammad, lo congedò con sofferenza e santa rassegnazione quando, adolescente, volle allontanarsi per iniziare il suo luminoso percorso mistico e intellettuale. Una sola cosa volle in cambio come promessa: quella di dire sempre e in qualsiasi circostanza la verità, precetto a cui il futuro santo si attenne per tutta la vita. Lunghi romitaggi, astinenze e digiuni nel deserto, cui seguirono anni di studi a Bagdad, prepararono lo spirito di al-Qàdir al-Gilani a divenire modello e maestro incontrastato del suo tempo. Fondatore della più antica confraternita islamica portatrice di insegnamenti esoterici, la Qadiriyya, oggi diffusa in tutto il mondo musulmano, è una figura centrale per conoscere il misticismo islamico e quindi il sufismo. Quest’uomo, che raggiunse in vita la vetta dei più perfetti, illustra così la via del cercatore: “Il percorso che dovrai compiere nella tua ascesa per raggiungere questi gradi dipende dalla distanza che sei riuscito a porre tra te e i bassi desideri della tua anima inferiore. Riuscire ad ottenere lo scopo della tua aspirazione non è come riuscire ad ottenere una cosa materiale o raggiungere un luogo, né come la scienza che porta a conoscere una cosa nota, né come la ragione che può cogliere le cose razionali, né come l’immaginazione che si unisce alle cose che immagina. Il fine che tu desideri raggiungere non è altro che la realizzazione della tua vacuità rispetto ad ogni cosa che non sia l’Essenza di Dio senza che vi sia alcuna vicinanza, né lontananza, né riunione, né incontro, né unione, né separazione.” Il Segreto dei Segreti è uno dei suoi testi chiave, diviso in ventiquattro capitoli che trattano i diversi temi dell’avventura mistica. Ventiquattro capitoli come ventiquattro sono le lettere della professione di fede islamica e ventiquattro sono le ore del giorno. 


miniatura indiana del tardo Ottocento raffigurante 
il santo di Bagdad Abd al-Qàdir al-Jilani

giovedì 6 ottobre 2011

PHILIP ROTH - LA CONTROVITA


I temi maggiori della narrativa di Philip Roth sono già presenti in questo romanzo risalente al 1986 e pubblicato solo ora in Italia. Il genio del prolifico scrittore statunitense, autore di capolavori quali Pastorale americana, Il teatro di Sabbath o La macchia umana, sembra trarre la propria forza da una costante interrogazione sull’evanescenza dell’identità individuale e sulla necessità di un’eroica quanto fallimentare ribellione all’ipocrisia collettiva. I protagonisti dei suoi romanzi sono uomini assediati da mortifere convenzioni e avidi di una linfa vitale che cercano nella parte più eversiva di se stessi, ovvero nell’eros e in uno spasmodico  attaccamento al piacere fisico, a congiungimenti e passioni carnali dal disperato sapore mistico, labili avamposti nel dominio assoluto delle tenebre. Roth è il grande interprete di un laicismo ostinato, irridente, che vede nel religioso piegarsi a un’artefatta entità superiore l’espressione più vergognosa dell’intelligenza umana, la resa a un conforto meschino cui le sue creature oppongono forme di resistenza drammatiche quanto affascinanti. E se a tutto ciò si aggiunge il sentimento di una sradicata, eclettica identità ebraica, il quadro umano in cui si muove lo scrittore appare quello di una prometeica sfida all’impossibile, un ribollente contesto esistenziale in cui la legge della precarietà demolisce colpo su colpo ogni tentativo di coraggiosa ribellione. Superstite consolazione è la memoria, l’incanto oscillante del passato, rifugio di immagini delicate, nostalgiche, un’infanzia e una giovinezza ebraico-americane rivissute alla stregua di un tempo mitico, un anti-tempo innalzato come un magnifico e struggente altare degli afflitti. Sono questi i momenti in cui l’alter ego dello scrittore, Nathan Zuckerman, rievoca il nido familiare da cui il fratello Henry si allontanava in stato di sonnambulismo: una rete di affetti e sapori d’epoca ai quali gli capita di tornare quasi involontariamente, per accensioni magiche che sollevano dal doloroso bailamme del presente. La Controvita è la storia di una morte e di una fuga raccontate da una doppia prospettiva, secondo una costruzione letteraria complessa, a tratti faticosa ma ricca di passaggi magistrali, all’altezza del Roth migliore, crudo e rivelatore, fustigatore e commovente, visceralmente erotico e scherzosamente pornografico, moralista scettico, irriducibile antagonista delle boriose doppiezze umane e cantore di quel consapevole gioco delle maschere che è la vita agli occhi disillusi dell’artista o dei suoi delegati immaginari.  I cinque capitoli del libro sono altrettanti scenari in cui si sposta la vicenda di Henry, il fratello di Zuckerman, un uomo che potrebbe dirsi soddisfatto della propria famiglia e della professione di dentista, costretto all’impotenza da una cura prescritta dal cardiologo e che per non rinunciare ai quindici minuti di sesso con la sua assistente Wendy tenta una difficile operazione al cuore che risulterà fatale. Henry è l’eroe di uno scacco suicida a una precoce andropausa, osservato da Zuckerman come la cavia di un esperimento che esalta l’avventurosa clandestinità come alternativa al grigiore di un’esistenza depotenziata, comoda, protetta. Nel capitolo Giudea l’affermato scrittore vola in Israele sulle tracce del dentista fuggitivo che abbandona la famiglia e abbraccia anima e corpo la più fanatica causa sionista, rifugiandosi tra le colline desertiche di Agor al seguito del bellicoso nazionalista Mordecai Lippman.  La questione ebraica diventa oggetto di una rappresentazione in cui agli eccessi ultranazionalistici di Lippman e compagni si oppone la figura di un ebreo che rinuncia a settarismi mondani e predilezioni geografiche, elegge per patria il semplice luogo delle proprie memorie e adotta una specie di quintessenziale coscienza ebraica molto vicina alla coscienza artistica di Nathan. In un brusco capovolgimento di prospettive, dopo avere seguito il celebre e discusso romanziere tra le tormentose delizie del suo matrimonio con una shiksa, affabile ariana anglosassone di nome Maria, la morte dello stesso Zuckerman inaugura un gioco di specchi dove il fratello-antagonista Henry è alle prese con l’imbarazzante eredità di uno scrittore che usa la sua anarchica immaginazione come “spia perspicace dei tormenti altrui”. Il romanzo di Roth, metamorfico e cerebrale come le vaniloquenti ambizioni dei suoi personaggi, finisce per narrare di se stesso e dell’esercizio a una perenne finzione come via all’unica forma di autenticità possibile. Al termine di un’accesa discussione con la nuova moglie, i toni di uno Zuckerman redivivo sembrano farsi più miti e inclini a una complice tregua. “Può darsi, come dici, che questa non sia vita, ma usa il tuo incantevole, bellissimo cervello: questa vita è la cosa più vicina alla vita che tu, e io, e nostro figlio, possiamo mai sperare di ottenere”.        

 Philip Roth


Segnalo l'intervista a Philip Roth disponibile sul sito Einaidi. Ecco il link:
http://www.einaudi.it/multimedia/Videointervista-a-Philip-Roth-parte-prima

lunedì 3 ottobre 2011

PETE DEXTER - AMORE FRATERNO


Il piccolo Peter è solo ad assistere alla scena, quando un vicino, il poliziotto corrotto Victor Kopec, investe la sorellina Angela. Il gracile corpo atterra inanime sul prato di fronte alla porta di casa e il cane di Kopec, prima di essere abbattuto, ne strazia i poveri resti. La tragedia è uno spartiacque che distrugge la famiglia Flood segnando il destino del giovanissimo protagonista. Il padre Charles, contravvenendo all'ordine del boss Costantine, sgozza il vicino e per punizione viene fatto sparire, mentre la madre, dopo mesi di delirante dolore, sale su un'ambulanza che la trascinerà per sempre lontano. E' il 1961. Affidato allo zio Phillip, Peter cresce  accanto al cugino Michael, coetaneo squilibrato e balordo che qualche anno più tardi assumerà il ruolo di boss della cricca irlandese che rivaleggia con gli italiani per il controllo dei fondi pensionistici di Filadenfia. Pete Dexter, narratore premiato con il National Book Award nel 1988, conosce la violenza per averla subita agli inizi degli anni '80, quando per un articolo non gradito  viene linciato e picchiato così duramente da portarsi dietro le stimmate di una parziale invalidità fisica: un evento che lo trasforma in uno scrittore appartato, crudo, testimone sapiente di vite deviate. Il mondo di Amore fraterno è diviso tra vittime ed eroi condannati a una medesima sorte, carnefici come il sadico Michael e anime buone come quella di Peter, che osserva con distacco la vita da gangster in cui è coivolto e dalla quale si libererà  grazie a un atto di generosità fuori programma che si tradurrà in una vera apoteosi sacrificale magistralmente descritta nelle ultime battute del libro. Ma sono notevoli anche i rapporti analitici delle carneficine, le esecuzioni a colpi di manganello che infieriscono sui corpi denudati di vecchi mafiosi, i gorilla energumeni e cocainomani che esibiscono fili metallici sopra mascelle spaccate, i purosangue giustiziati con idiota rancore da veterinari costretti a baciarne il cadavere: un quadro di ferocia a tinte fortissime che non indulge a caricature o calchi di genere, tenendosi sempre al livello di un sostanzioso e affilato realismo. E' quanto accade nella rievocazione della palestra di Nick DiMaggio, meccanico ed ex pugile, uomo probo e schivo che cerca di rimanere lontano dal giro nonostante i ripetuti inviti di Michael e compagni. L'ambiente del ring e gli incontri serali tra il figlio talentuoso e i pugili assoldati dalla malavita, le provocazioni e lo sgarbo pubblico al boss che disinnesca la sequenza finale con il sacrificio di Peter restituiscono il sapore di atmosfere e tipi umani avvicinati con accento pietoso e implacabile, dove l'anelito a una vita tranquilla è assediato dalla violenza, un incubo vissuto fino in fondo dall'autore prima che dalle sue esemplari controfigure.    

martedì 27 settembre 2011

HELON HABILA - ANGELI DANNATI


Tra le diverse dittature militari che si sono succedute in Nigeria, quella del generale Sani Abachi, restato al potere dal 1993 al 1998, è stata una delle più terribili. Helon Habila, con questo romanzo d'esordio stampato a sue spese in poche centinaia di copie, vincitore del Caine Prize for African Writing e diventato un caso internazionale, ritorna a quegli anni per raccontarci una storia di forza e maturità straordinarie. La duttilità con cui riesce a plasmare un drammatico quadro sociale incastonandovi personaggi complessi per sentimenti e aspirazioni, la crudezza realistica con cui descrive rivolte e repressioni sanguinarie unita alla finezza psicologica che illumina il cuore e i dilemmi delle relazioni umane attestano lo scrittore nigeriano come una delle voci più interessanti del panorama letterario africano. La narrazione prende le mosse dall'incarcerazione di Lomba, giornalista e poeta accusato di avere organizzato una manifestazione contro il governo cui ha in realtà soltanto assistito in qualità di reporter. Torturato e rinchiuso in cella d'isolamento, giunge infine a un compromesso con il sovrintendente Muftau, che gli commissiona componimenti poetici per la fidanzata trasformandolo in un redivivo Cyrano di cui perderemo le tracce quando verrà trasferito nel carcere di una lontana cittadina nel nord del paese. E' a questo punto che torniamo a Lagos, l'immensa e devastata capitale nigeriana, per avvicinarci alla vita di uno dei suoi sobborghi, ribattezzato Poverty Street, uno dei tanti che gravitano attorno alla città come un'orrenda corona stillante degrado e miseria. In questo ambiente si apre un florilegio di esistenze che Habila trasforma da occasionali comparse in campioni di un'umanità che sopravvive alla violenza quotidiana dei militari e a condizioni di vita impietose. Lo scrittore assume i panni del quindicenne Kela, inviato a Lagos dal padre sotto la protezione della zia Rachael, che gestisce un ristorantino incuneato tra infinite teorie di baracche malmesse. Attorno al giovane Kela si muove Brother, focoso proprietario di una botteguccia che trascinando la sua protesi sotto il ginocchio millanta un passato di eroici scontri con la polizia e sogna tra i fumi dell'erba una milionaria festa d'addio all'intero quartiere. C'è il professor Joshua, dignitosa figura di intellettuale da cui tutti si aspettano illuminanti parole di rivoluzione e che coltiva un amore segreto per la prostituta Hagar, dalle fattezze incantevoli ma ormai invecchiata cent'anni nell'animo, cui continua a regalare come un eterno principe illuso libri di Shakespeare e Dickens. Ci sono ladruncoli, sbandati, bambini infossati in trincee di rifiuti, ragazze che scappano sognando spasimanti che non esistono più, altre che vagolano per i cortili in minigonne e t-shirt trasparenti, e c'è la zia di Kela, Rachael Godwill, i cui anni migliori sfumano tra bottiglie di whisky, una donna che tuttavia non si scoraggia e ridipinge le pareti del suo prezioso rifugio dove a pranzo si raccolgono gli angeli e i dannati di Poverty Steet. Ma il romanzo non si ferma al racconto di questa corte di ingiurie e miracoli. Corre verso gli infervorati discorsi di Thomas Sankara agli studenti universitari, le parole issate come stendardi di Martin Luther King, Amilcar Cabral e Wole Soyinka. Mentre code interminabili di macchine attendono gocce di carburante ai distributori di un paese che è uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio la BBC annuncia la morte per impiccagione dello scrittore e poeta Ken Saro-Wiwa. Anche l'infimo ghetto di Poverty Street prova a ribellarsi marciando in pacifica manifestazione. Chiudendo il cerchio di una narrazione polifonica e compatta, ritornerà in un serrato flashback la figura di Lomba, il giornalista incarcerato, che dopo avere assistito a un ennesimo bagno di sangue tenterà un'inutile fuga negli infernali meandri cittadini. 

Helon Habila

martedì 20 settembre 2011

DON DELILLO - PUNTO OMEGA


Richard Elster, settantatreenne ex-consulente del Pentagono ai tempi della guerra in Iraq, decide di ritirarsi in un casolare sperduto nel deserto della California meridionale. Jim Finley, regista che ha la metà dei suoi anni, lo incontra in un museo dove proiettano 24 Hour Psyco, videoinstallazione in cui il film di Hitchcock è ispezionato, fotogramma dopo fotogramma, per l’intera giornata. Jim chiede a Elster se è disposto a parlare di sé davanti a una videocamera. L’idea è quella di una confessione libera, un documento senza artifici, volto e parole sul semplice sfondo di un muro crepato. All’inizio il vecchio rifiuta, poi i due si trovano a parlane nell’eremo di Anza-Borrego. Don Delillo, in un romanzo che accentua i toni metafisici del suo realismo postmoderno, riduce il contesto a un quadro essenziale. Il paesaggio desertico è in sintonia con dialoghi scarni, che procedono a illuminazioni improvvise, distillati dal lavorio interiore di personaggi che si sono lasciati alle spalle le consolanti abitudini della vita sociale. I loro punti fermi, mogli, figli, lavoro, orologi, abitano l’universo delle città, queste mostruose aggregazioni “costruite per misurare il tempo, per togliere il tempo dalla natura.” Dune, rocce, calanchi, sole rovente, sono gli ingredienti di un’alchimia psicofisica in cui il tempo si espande, perde i connotati comuni e si trasforma in un’entità misteriosa, un soggetto che sovrasta lo spettatore. Il Teorico della Difesa chiamato al Pentagono per arricchire di contenuti visionari le strategie militari statunitensi vorrebbe “una guerra formato haiku”, un’azione essenziale, implacabile, che non significhi nulla più di quello che è. “Uno stagno d’estate, una foglia d’inverno.” Sostiene l’idea di un interventismo bellico intuito come necessità di autoconservazione, al di là del discrimine tra realtà e menzogna, un fatto che riguarda il bisogno di una nazione di non perdere la propria identità, la capacità di costruire un’immagine del proprio futuro. Elster, però, rimane deluso dai convegni segreti del potere, perché in quelle stanze si parla solo di “priorità, statistiche, stime, razionalizzazione.” E le riflessioni, nell’isolamento del ritiro spirituale di Anza-Borrego, si spostano su orizzonti diversi: sul destino dell’essere umano, che attraverso la tecnologia sta tentando di liberarsi della sua stessa sostanza biologica, e su quel fatidico punto omega, la compiuta introversione di una specie che ha azzerato la propria coscienza riavvicinandosi alla materia inorganica. Ma il vecchio mondo si riaffaccia all’improvviso e reclama tragicamente i suoi conti. La figlia del geniale consulente, Jessica, viene a trovarlo per qualche giorno; si insinua come una perturbazione inattesa tra lui e il suo giovane testimone. E’ una ragazza silenziosa, di cui Jim subisce il fascino inquieto fino a immaginare scene di sesso davanti allo specchio del bagno. Un corteggiamento costellato di allusioni e bruscamente interrotto quando Jessica scompare nel nulla. Iniziano le ricerche, i contatti con la polizia, le ricognizioni tra i canyon, il ritrovamento di un allarmante coltello, l’ipotesi di un agguato mortale. Richard Elster deperisce. La mente si svuota e il corpo perde vigore riducendosi alla pietosa icona di un uomo sconfitto. Non si tratta di una disperazione eclatante, piuttosto di un quieto prosciugamento che lo conduce alla soglia di un regno alieno, al di là di ricordi e rimorsi, e lo fa assomigliare “a una radiografia, tutto orbite e denti.” Il progetto del documentario-intervista scivola in secondo piano e Jim Finley affida il cadaverico reduce alla compassione della sua ex-moglie. L’azione si spezza, lasciando la conclusione del breve romanzo sospesa. Ciò che interessa Delillo, in quest’ultima fase creativa della sua piena maturità, è soprattutto il brusio continuo di microeventi perlopiù inconsapevoli, l’ossatura nascosta della vita umana.

Don DeLillo

lunedì 19 settembre 2011

La ribellione touareg contro lo spregiudicato sfruttamento delle miniere d'uranio in Niger - La testimonianza di un guerrigliero.

Ahmed Moussa è un abile artigiano touareg che confeziona gioielli in argento, ebano e pietre dure. Offre il tè nella stanza dove alloggia insieme ai suoi tre fratelli, tutti orafi e mercanti di preziosi originari della regione di Agadez. Parla del suo paese, di vecchi che si tolgono le scarpe prima di entrare in macchina, gente di poche parole, dignitosamente arcaica, che non ama lamentarsi né chiedere aiuto. Racconta di dune desertiche alte quattrocento metri, gli occhi che tracciano il margine delle montagne di sabbia come se le vedessero. E’ questo puro piacere di comunicare emozioni a farmi intuire che Ahmed è un uomo speciale. Siamo in stagione di piogge*, periodo morto, di poco lavoro a Dakar, in cui gli amici touareg rientrano ai loro villaggi natale per una quarantina di giorni. Hada, il colto e devoto fratello maggiore che la sera salmodia versetti coranici, parte domani con gli altri. Solo Ahmed resta di guardia alla base senegalese. Bamako (Mali), Ouagadougou (Burkina Faso), Niamey (Niger), poi altri mille chilometri verso il nord del paese e Agadez. Questo il percorso in pullman che attende i tuareg diretti alla loro terra d’origine, tre giorni di viaggio senza soste e con gli incerti dei posti di blocco dei militari di Niamey. Ma non possiamo fare altro, dobbiamo pure tornare a casa, mormora Hada preparando i bagagli. In Niger è guerra: un conflitto che si è riacceso nel febbraio del 2007, quando il Movimento degli abitanti del Niger per la Giustizia (Mnj) ha imbracciato le armi e ha attaccato la caserma di Iférouane.

guerriglieri touareg

Provviste di munizioni, quindici morti e ottantasette prigionieri tra i militari dell’esercito regolare: un fragoroso debutto che ha siglato l’avvio dell’ultima ribellione touareg (anche se del Movimento, che combatte per la giustizia di tutti i nigerini, fanno parte anche haoussa e fulani scontenti del Governo dell’ex colonnello e presidente della Repubblica, Mamadou Tandja). La prima ribellione touareg risale ai primissimi anni Novanta. La sigla che allora riuniva i guerriglieri nascosti lungo i pendii del massiccio dell’Air era il Flaa (Fronte di liberazione dell’Air e dell’Azawad), il cui fondatore e leader Rhissa Ag Boula vive oggi tra Parigi e Bruxelles, condannato a morte in contumacia dal regime di Niamey per l’omicidio nel 2004 di Adam Amangué, un militante del partito al potere. Le rivendicazioni all’origine della rivolta erano le stesse di oggi: maggiore equità sociale nei confronti della minoranza touareg concentrata nelle zone desertiche e montuose settentrionali e soprattutto una parziale redistribuzione degli enormi proventi derivanti dall’esportazione dell’uranio a beneficio della popolazione locale. Il Niger, oltre a possedere importanti giacimenti petroliferi e cospicue riserve di carbone, è il quarto produttore mondiale di uranio nonché uno dei paesi più poveri del mondo. Le miniere sono concentrate nella regione di Agadez e dal 1960, anno di proclamazione dell’Indipendenza, fino al principio del 2000 è stata la Francia, vecchio potere coloniale, ad avere l’esclusiva sull’estrazione del prezioso elemento radioattivo. L’ottantacinque per cento dell’energia elettrica francese è prodotto da centrali nucleari, di cui un terzo è alimentato dall’uranio fornito dall’Areva, la società che gestisce le miniere del Niger. L’annuncio dato dall’ex chef dei ribelli Rissa Ag Boula di un imminente attacco del Mnj a queste miniere ha provocato – il 31 dicembre scorso – una drammatico tonfo in borsa delle quotazioni Areva.  Gli scontri dei primi anni Novanta cessarono con la sottoscrizione degli accordi di pace del 1995. Tali accordi prevedevano la reintegrazione dei ribelli nell’esercito regolare e l’impiego prioritario di touareg nelle società minerarie del nord cui è seguita nel 2006 una legge per la quale il 15 percento dei proventi derivanti dallo sfruttamento delle materie prime dovrebbe essere destinato alle collettività locali interessate. Ma nessuno di questi punti è stato rispettato e i villaggi nella regione di Agadez sono ancora oggi privi di scuole, di strutture sanitarie elementari, di dispensari, per non parlare della penuria di pozzi e delle difficoltà di accesso all’acqua potabile. E accanto a questi enormi disagi ci sono le conseguenze dell’esposizione diretta a sostanze radioattive, trattate senza le necessarie norme di sicurezza, con una crescita esponenziale dei casi di tumore tra gli abitanti della zona.

la cartina geografica del Niger

“Abbiamo fatto un grave errore a consegnare le armi. Ci siamo indeboliti illudendoci che gli accordi siglati nel 1995, garanti diversi stati confinanti, avessero un valore effettivo. In realtà abbiamo dato l’opportunità al regime di Niamey di continuare a ignorarci”. A parlare è un giovane guerrigliero, Aghali, ex operatore turistico ad Agadez, che dopo due anni di lotta ha lasciato il Niger attraversando il confine desertico con il Mali ed è entrato da una decina di giorni in Senegal. La bionda fidanzata austriaca ha fatto di tutto perché scendesse dalle montagne dell’Air e la seguisse in Europa. Un visto e un permesso di soggiorno emesso direttamente dall’Ambasciata sono quasi pronti, anche se lui non sembra molto convinto. Gli amici di Dakar assicurano che Aghali pensa continuamente di tornare a combattere e non è detto che all’ultimo tuffo si decida per un clamoroso ritorno. “Delle millecinquecento persone che lavorano nella storica miniera di Arlit” continua a raccontare con la strana serenità che accompagna sempre e comunque i tuareg, “soltanto 150 provengono dalla regione di Agadez. Le società minerarie preferiscono impiegare manodopera del sud lasciando la popolazione locale il più possibile estranea ai loro affari”. La nuova ribellione, iniziata nel febbraio 2007 con l’attacco alla caserma di Iférouane e la creazione del Mnj a opera di Amoumoune Kalakoua e Abubacar Alombo, quest’ultimo caduto in combattimento e il cui fratello, Aghaly Alombo, è l’attuale presidente del Movimento, è stata una reazione ad atteggiamenti sempre più intollerabili e autoritari del governo di Niamey. I tre ministri touareg attualmente in carica sono impotenti e impossibilitati a prendere decisioni in favore della loro gente. Il prezzo dell’uranio è intanto passato tra il 2001 e il 2007 da 7 a 45 dollari la libbra. Il Niger, diversificando i suoi partner, ha dato decine di nuove concessioni e permessi di ricerca a un largo ventaglio di paesi tra cui la Cina, il Canada, l’Australia e il Sudafrica. La società francese Areva ha ottenuto all’inizio del 2008 il permesso di sfruttamento del giacimento di Imouraren, seconda riserva mondiale. Il presidente Mamadou Tandja, preoccupato di difendere gli interessi di un’élite affarista ed etnocentrica (l’ex colonnello è per metà haussa e per metà peul), rifiuta sistematicamente ogni dialogo con il Mnj e ha decretato una specie di stato d’urgenza nella regione. I militari di Niamey hanno carta bianca e non si trattengono da pesanti rappresaglie su civili impunemente assassinati. Messi al centro di una tendenziosa campagna di discredito, i guerriglieri touareg sono accusati di essere niente più che trafficanti di droga o perfino terroristi. Accuse che appaiono al momento infondate, vista la povertà dei touareg che gli impedirebbe di comprare e rivendere la cannabis in transito dal Marocco al Mediterraneo e vista la mancanza totale di appoggi esterni del Mnj, le cui munizioni sono per la maggior parte frutto delle imboscate tese alle milizie governative. Si tratta di un movimento che agisce con mezzi limitati e che sfrutta soprattutto l’impareggiabile conoscenza del territorio. Comunicazioni satellitari e Internetrendono più agile ed economica la guerriglia contemporanea e il prezzo di un kalachnikov è sceso dai 500 dollari del 1991 ai 150 odierni. Le popolazioni arabe, inoltre, non sono tradizionalmente in armonia con la storia e la cultura touareg, ciò che rende improbabile uno slancio fraterno verso le posizioni del fondamentalismo islamico. “Tutte le accuse del governo sono false”, conferma Aghali, che porta lo stesso nome del presidente del Mnj ed è nato nello stesso villaggio. “Il nostro vero vantaggio è quello di combattere nella terra dei nostri antenati. Se una pattuglia governativa esce in perlustrazione o in missione offensiva, la avvistiamo a cinquanta chilometri di distanza e abbiamo il tempo di posizionarci”. Parlare con questo ragazzo che racconta alcune prodezze compiute da lui e dai suoi compagni è come avere a che fare con l’esponente di un gruppo di eroi animati da un legittimo anelito alla giustizia ed estranei alle meschine ragioni delle guerre combattute per interesse. File di guerriglieri che contano oggi più di tremila uomini a cui continuano ad aggiungersi nuove reclute. “Nel gennaio del 2008 abbiamo tenuto in scacco per quattro ore il villaggio di Tanout, prelevato il prefetto, il capo della Gendarmeria e quello della Guardia militare oltre a sette prigionieri. Il 27 giugno scorso, un anno esatto dopo l’inizio delle ostilità, ci hanno attaccato con due sofisticati elicotteri presi in affitto da un paese straniero. Abbiamo avuto diciassette morti, tra cui il Vicepresidente del Mnj, ma un elicottero, del valore di circa trenta milioni di euro, è stato abbattuto e l’altro seriamente danneggiato. Le milizie governative sono accampate ad Agadez e Arlit, ma senza copertura aerea non osano avventurarsi tra le montagne dell’Air”. Le Mouvement des Nigériens pour la Justice ha creato un sito web nel quale sono pubblicati aggiornamenti sullo stato della ribellione e le operazioni militari, analisi sulle strategie del governo del Niger per marginalizzare i touareg e sfruttare liberamente le risorse del sottosuolo, pubbliche accuse e dichiarazioni ufficiali. Tra queste ultime ci sono quelle che rimarcano l’impegno dei combattenti touareg a rispettare i valori umani, la dignità dei cittadini del Niger fatti prigionieri e le norme della Convenzione di Ginevra. La trascrizione di un discorso dell’attuale presidente del Mnj, Aghali Alambo, annuncia la presentazione di un dossier d’accusa contro il capo supremo dell’Esercito e i predatori della ricchezza nazionale presso il Tribunale penale internazionale per i crimini contro l’umanità.

Notizie e testimonianze alla base del reportage risalgono al mese di luglio del 2008.

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