Analitica e sinuosa, la prosa di Sebald fa di
questi brevi scritti un piccolo tesoro di meditazione letteraria in cui la vita
e le visioni strappate al suo fluire dialogano con l’universo delle cose che
non sono più, in un intreccio di cronaca e testimonianza, memorie storiche e
personali. I quattro racconti editi nella Biblioteca minina adelphiana e tratti
dal libro postumo Campo Santo sono il
resoconto dell’ultimo viaggio dello scrittore in Corsica. Il percorso inizia
con la Breve escursione ad Ajaccio,
nel museo del cardinale Flesh, zio di Napoleone e infaticabile collezionista
d’arte. L’attenzione di Sebald si focalizza su un duplice ritratto dell’artista
lucchese del Seicento Pietro Paolini, un’opera in cui due figure femminili
emergono a stento dallo sfondo giocando con una tenebra che svela il sottilissimo
panneggio delle vesti. I cimeli napoleonici e la minuscola custode di Casa
Bonaparte, straordinariamente somigliante all’imperatore, sono parte di un
ambiente rimasto quasi identico a come lo aveva descritto Flaubert nei suoi
diari. La clamorosa ascesa di un piccolo monello a spasso per i vicoli di Ajacco
fino alla conquista dell’Europa offre lo spunto per una riflessione su quei minimi
dettagli che mutano il corso imponderabile della storia, e quindi, poco oltre,
sull’umana impossibilità di immaginare una verità attendibile. La passeggiata
attorno a Piana, raccontata in Campo
Santo, giù fino alla baia adamantina in fondo a un precipizio e poi a ridosso
del paese, nel cimitero abbandonato, è un’avventura che approda a un luogo di
lapidi divelte, erbe incolte e immagini di estinti incorniciate in ovali
sbiaditi da decenni di intemperie. Un funzionario coloniale, un ussaro biondo
in uniforme, una ragazza morta nel giorno del suo diciannovesimo compleanno
inaugurano una documentata ricognizione attorno ai vari metodi di sepoltura, ai
rituali funebri e alla costante presenza degli “antinati” nella quotidianità
degli antichi isolani. La narrazione scivola verso un lontano mondo di prefiche
o “voceratrici” in bilico tra disperazione passionale e freddezza teatrale,
interminabili banchetti funebri e i cosiddetti culpa morti, acciatori o mazzeri, che uscivano di casa nottetempo
abbandonando il proprio corpo per compiere cruenti sacrifici dagli effetti
mistici. In una terra di faide e banditismo, questo universo di credenze e riti
trasformava l’aldilà in qualcosa di vicino, accessibile per vie misteriche,
sempre più estraneo a quanto accade in un mondo sovrappopolato, dove il culto
dei morti viene progressivamente trascurato e confinato negli effimeri cimiteri
virtuali. Le Alpi nel mare inizia nel
tono pacato di un reportage sulle foreste diradate dagli abusi umani e da
incendi devastanti, un tempo abitate da animali estinti come il mitico cervus elaphus corsicanus, per terminare
nei risvolti demoniaci della passione venatoria degenerata in coazione allo
sterminio. Si riaffaccia a proposito, casualmente recuperata nel cassetto di un
albergo, la Leggenda di San Giuliano dell’amatissimo
Flaubert, dove una crescente fobia omicida si arresta solo per la grazia di una
trasfigurazione. L’ultimo anello, più esile, del volumetto, “La cour de l’ancienne école”, è un
aneddoto di appena tre pagine in cui una fotografia raffigurante il cortile di
una scuola a Porto Vecchio scompare e riappare misteriosamente sulla scrivania
di Sebald insieme a una gentile corrispondenza. Lo scrittore nato a Wertach, in
Baviera, vissuto a lungo in Inghilterra e scomparso prematuramente lasciando
opere tra le più notevoli del secondo Novecento, nutriva grande passione per le
immagini e arricchiva spesso di fotografie le pagine dei suoi libri, in un
esercizio di contrappunto tra il nomadismo digressivo della narrazione e la
fissità delle stampe, il movimento vitalistico dello scopritore e un culto
profondamente elegiaco suscitato dalle icone del passato.
W.G. Sebald
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