VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

martedì 11 marzo 2014

IL'INTERVISTA DI SIMONE GAMBACORTA SUL QUOTIDIANO LA CITTA' DI TERAMO - 29 GENNAIO 2014

SG Il primo aspetto che mi colpisce, del suo romanzo, "Questa non è la mia patria", di recente pubblicato da Galaad, è il protagonista, il giovane immigrato ecuadoriano Juan José, alias Nevio. L'ipotesi di un anagramma suggerisce una domanda: le sue sono le confessioni di un italiano 3.0?
VMO La creazione di un personaggio di finzione come il mio attinge a un tessuto complesso di storia personale e cronaca indagata di vite altrui. I segni del disagio di Nevio sono spie di un disagio che lo accomuna a molti di noi, e anche a me naturalmente. Raccontando il modo in cui il nostro paese non riesce ad accogliere come dovrebbe lo straniero, racconto indirettamente le mie difficoltà a riconoscermi in una buona parte dell’Italia attuale.     

SG Fatto è che l'occhio esterno, ma anche "estero" di Nevio è il vettore che gli consente di rappresentare narrativamente il dissesto collettivo dell'Italia di questi nostri anni.
VMO L’incontro con l’altro, a livello pubblico e privato, nel comportamento sociale e individuale, nel carattere che assumono a riguardo le leggi e i comportamenti, è un momento rivelatore, una cartina tornasole dello stato di salute di un paese e dei suoi abitanti. Negli occhi del mio immigrato si specchia l’Italia di oggi, con le sue iporisie e le incapacità gestionali, l’egocentrismo e la finta generosità dei proclami che trovano nei fatti puntuali smentite. Questo romanzo restituisce una visione amara dei nostri tempi, e credo che la premessa indispensabile a qualsiasi rimedio sia una conoscenza ravvicinata, profonda di chi sta vivendo una delicatissima avventura esistenziale, tra sradicamento dalla terra d’origine e problemi concreti di accoglienza nel nuovo contesto.     

SG Flaiano diceva che in Italia il modo più gettonato per congiungere due punti non è tracciare una retta, ma un arabesco. Un'osservazione che torna alla mente riflettendo sul non marginale peso che la "burocrazia" gioca nel romanzo.
VMO Senza volere enfatizzare i meriti di altre culture, possiamo certamente dire di essere molto lontani dal pragmatismo anglosassone, che nella giusta dose ci farebbe davvero bene. L’Italia è, storicamente e immoralmente, il paese delle corti e delle consorterie. La burocrazia fa il gioco del potere, che gongola come un ippopotamo nel fango dell’immobilismo, lascia annaspare milioni di pesci piccoli e legifera inefficacemente. Viviamo in un finimondo di chiacchiere, carte bollate e codicilli che giocano al massacro di vite umane. I regimi adorano le carte e diffidano dei libri, e le democrazioe estremamente burocratizzare somigliano sotto certi aspetti a forme di labirintiche dittature, dove non si impone direttamente ma si induce la gente ad imboccare vicoli ciechi, a non risolvere nulla in modo chiaro e definitivo restando succubi del vischio burocratico e dell’arbitrio dei funzionari. Una condizione, tra l’altro, in cui la corruzione ha libero gioco.

SG "Questa non è la mia patria" è comunque, e soprattutto, un romanzo sulla disuguaglianza.
VMO Oggi chi ha il coraggio di argomentare e sostenere fino in fondo l’uguaglianza, viene liquidato come eretico, rivoluzionario o utopista. La semplice constatazione che un essere umano non può essere considerato illegale per la sua posizione geografica in questo mondo potrebbe bastare a suscitare scandalo presso i cosiddetti realisti della politica e della vita, che, più semplicemente, sono i cinici di sempre e gli impauriti dalla perdita di personali tornaconti e privilegi.   

SG C'è anche molto dolore, molta solitudine, molta indifferenza…
VMO Certo, sono fenomeni conseguenti alla disattenzione verso il prossimo, dissimulata sotto false preoccupazioni mediatiche che compendiano tutto in statistiche, immagini-cartolina che allarmano e scompaiono come se non fossero mai apparse nel buio catodico. Dobbiamo riavvicinarci alle persone in carne e ossa, ai loro cuori, alle loro storie: parlare, scambiarci racconti, esperienze, emozioni, toccare, condividere, scoprirci sul serio. E’ l’unica via possibile per evitare o limitare solitudine, dolore e indifferenza.

SG Quali sono state le spinte e le istanze che hanno dato origine a "Questa non è la mia patria"?
VMO Il contatto con un immigrato ecuadoriano che mi ha raccontato la sua storia e un particolare momento della mia vita in cui gravava il peso di una strana solitudine, con una tempesta di notizie allarmanti che giungevano dal contesto ambientale e politico italiano e internazionale. Le tre istanze, quella privata, quella del mio “modello” reale, e quella del mondo in cui entrambi vivevamo, hanno dato il via prima al processo di raccolta e messa a fuoco dei materiali, quindi all’avventura vera e propria di composizione del romanzo.

SG E perché la scelta della forma romanzo per affrontare queste tematiche?
VMO Credo sia la forma migliore per non perdere il contatto con la vita che nasconde ogni cronaca. Narrare in forma romanzesca non significa, come nella cattiva letteratura d’evasione, allontanarsi dalla realtà, ma avvicinarla e intercettarla. Significa reperire, azzerare i fatti e farli rinascere, in un processo continuo di distruzione e rigenerazione: un processo che obbliga il lettore e prima ancora lo scrittore a confrontarsi con esseri umani non stardardizzati o astratti. Il romanzo, e più generalmente la buona letteratura, lavora attraverso le parole sui sensi, sulla sollecitazione della sensibilità. E’ un operare concreto, con una forte connotazione artigianale, dove il talento deve necessariamente tradursi in un’attenzione costante alla grammatica minuta, al senso delle virgole, al respiro delle pause, alla coloritura degli aggettivi e a tante altre cose, in accordo con le sfumature e le corrispondenze dei sentimenti umani. Il vecchio e perennemente attuale adagio di Flaubert per cui “lo stile è il mio modo di sentire” ci dice come e quanto la letteratura sia in grado di promuovere un’educazione sensibile, facendoci cambiare, nel modo di vedere e di comportarci. Poesia e letteratura, come suggerisce un bravissimo scrittore e poeta italiano contemporaneo, Franco Arminio, dovrebbero irrompere in Parlamento perché qualcosa davvero muti in questo paese svilito da ignoranza, cattiva retorica e affarismo.

SG Da un punto di vista narrativo, quali aspetti del romanzo le hanno richiesto più attenzione, più lavoro?
VMO Non saprei stabilire un’esatta gerarchia a proposito. Tutte le sue fasi, dal recupero d’informaizoni a proposito delle leggi vigenti sull’immigrazione, fino alla stesura di pagire dal contenuto psicologico, che rendono conto delle trasformazioni interiori di Nevio, hanno richiesto la giusta dose di cura e lavoro. Posso comunque dire che le ore passate a scrivere, quando si è davvero dentro la narrazione e la storia che si racconta, quando la si immagna nel dormiveglia e si prendono appunti al buio, sul comondino: ecco, quei momenti, nonostante la fatica, sono quelli che trascorrono con più felicità e lasciano una certa soddisfazione: qualcosa di simile al sentimento che il poeta inglese Philip Larkin confessava dopo aver scritto una poesia. “E’ come se avessi fatto l’uovo”. Curiosa, ironica ma indovinata immagine.

SG "Questa non è la mia patria", se affiancato ai precedenti, e certo differenti, "Bach tra gli elefanti" e "Pesce d’aprile a Conakry", forma una sorta di trittico dell'alterità…
VMO Sono di fatto lavori molto diversi, considerati anche i tempi di elaborazione dei miei libri, decisamente poco commerciali, che hanno riflesso momenti di vita e fasi creative distinte. Questo romanzo, poi, benché pubblicato di recente, da ultimo, è nato prima degli altri, addirittura nel 2004. “Bach tra gli elefanti”, raccolta di reportage narrativi dal Senegal, paese dove trascorro lunghi periodI dell’anno, e “Pesce d’aprile a Conakry”, romanzo che va avanti e indietro, geograficamente e interiormente, tra Africa e Italia, hanno connotazioni autobiografiche più marcate, pur trattandosi, in realtà, di “finzioni autobiografiche”, dove le versioni di me stesso si moltiplicano diventando personaggi a tutto tondo, autonomi e connessi. Si tratta di una ricerca sull’identità individuale e sul suo disperdersi, sulla sorpresa di scoprirsi continuamente altri nel flusso di una stessa storia; nel medesimo, grande spettacolo dell’esistenza. Incontrare il lontano, attraversarlo e farlo diventare parte della propria esperienza vitale può in effetti considerarsi una tensione costante di questo irregolare trittico: un serie di viaggi dentro l’altro, che sono i migranti, certo, ma che siamo anche noi stessi.  

SG Nella sua scrittura è determinate il rapporto con l'Africa…
VMO Lo è diventato nel corso dell’ultimo decennio, da quando cioè ho iniziato a frequentare in primo luogo il Senegal, ma anche la Mauritania, il Mali, la Guinea Bissau, la Guinea Conakry: terre, popoli e universi umani che hanno esteso lo scenario in cui si muove la scrittura, esercizio che porto a spasso per diversi Continenti, in costante movimento tra presente e passato, cruda, fantastica attualità e memoria. Un’Africa che finisce per bagnarsi nei Navigli milanesi o un nitido ricordo di decenni addietro che deborda nella fantasmagorica contemporaneità di un mercato di Dakar.



domenica 2 marzo 2014

MORDECAI RICHTER - JOSHUA ALLORA E OGGI - ADELPHI EDIZIONI 2013


Un affermato giornalista di mezza età, minacciato dal coinvolgimento in uno scandalo di natura sessuale, è ricoverato in clinica dopo un grave incidente e nei va e vieni tra stati di ottundimento e lucidità ricorda la sua vita. Joshua Shapiro, al pari dell’indimenticabile Barney Panofsky della Versione di Barney, romanzo che assicurò a Mordecai Richter larga fama internazionale, incarna il suo spirito ebraico in un uomo ribelle, reticente alle convenzioni sociali e perennemente incalzato da giudici che di volta in volta indossano le maschere di risentiti colleghi, donne complicatissime, diffamanti perbenisti o frustrati e violenti poliziotti. Lo scrittore canadese, talento narrativo tra i migliori della seconda metà del Novecento, dà voce a personaggi anomali, incontenibilmente bramosi di vita, incostanti, sensibili e micidiali, soggetti alla persecuzione di un mondo che nutre verso di loro un’inconfessabile invidia. Un nuovo capitolo, insomma, della poliedrica e sofferta identità ebraica interpretata da Richter, architetto di trame romanzesche che giocano su più piani temporali, ricostruendo a tasselli distanti e connessi le vicende dei suoi eroi inquieti e dell’universo che ruota attorno ad essi. Ma torniamo a Shapiro, seriamente malconcio in ospedale e ossessionato dalla scomparsa della moglie Pauline, fuggita da un altro ospedale, questa volta psichiatrico, dov’era ricoverata in preda a gravissime crisi. Alla ricerca di lumi che lo aiutino a sbrogliare la matassa di un’intricata esistenza, Joshua rievoca gli anni di un giovanile viaggio in Europa: periodo di vita bohemien, peregrinazioni e ricerche che da Londra lo conducono in Spagna, deciso a ultimare un saggio sulla Guerra Civile, e dalle città spagnole fino all’isola d’Ibiza, quando, nei primi anni Cinquanta, era ancora un luogo incantevole abitato da pescatori e pochi viaggiatori di passaggio. Sono pagine tra le più belle di Joshua allora e oggi, che restituiscono l’irrequieta meraviglia di una gioventù intenta a misurarsi con fumosi postriboli, deliranti e imboscati nazisti, sinceri e coriacei uomini di mare, amori rapidi e intensi, amicizie terrigne e intellettuali, mentre da una radio mai spenta si ascoltano gli echi allarmanti del regime franchista. Ma l’orologio controllato da Richter non smette mai di spostare le sue lancette, e tra una quadro e l’altro di questo scenario europeo emerge la figura del padre Reuben, ex pugile di una certa fama nonché esattore poco raccomandabile per conto di un trafficante italiano: uomo ruvido e dolce, che con un’arma a portata di mano raccomanda al figlio la lettura dei testi sacri e il rispetto delle pratiche religiose, quasi fosse questione di rispetto, di dignità più che di fede; quindi la madre, Esther, nota nella mitica zona di St. Urbain Street per i suoi spogliarelli, che in un momento di esilarante felicità, di fronte a un gruppo di compagni di scuola del piccolo Joshua si produce in uno dei suoi numeri piccanti, generosamente impegnata a fortificare la platea ammutolita dei teneri impuberi. Una famiglia di equivoche, umili origini, quella degli Shapiro, che impatta contro una classe sociale diversa quando Joshua si innamora di Pauline, figlia del senatore Hornby. Come spesso accade alle figure femminili di Richter, anche l’avvenente Pauline è donna minata da una radicata fragilità nervosa e una dissimulata insoddisfazione che deborderà in una crisi psichiatrica alla morte dell’adorato fratello Kevin, viziato speculatore di borsa approdato al successo economico e bersagliato da accuse di fraudolente manovre finanziarie. Un altro dei tanti personaggi di questo caleidoscopio di campioni umani mulinanti attorno a un’esistenza che, come al termine di un lungo, rabdomantico film, più che a spiegarsi, giungerà a illustrare tutto il sorprendente spettacolo del proprio destino. Quel che si chiede, in fondo, alla letteratura.     


Mordecai Richter