VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

martedì 27 settembre 2011

HELON HABILA - ANGELI DANNATI


Tra le diverse dittature militari che si sono succedute in Nigeria, quella del generale Sani Abachi, restato al potere dal 1993 al 1998, è stata una delle più terribili. Helon Habila, con questo romanzo d'esordio stampato a sue spese in poche centinaia di copie, vincitore del Caine Prize for African Writing e diventato un caso internazionale, ritorna a quegli anni per raccontarci una storia di forza e maturità straordinarie. La duttilità con cui riesce a plasmare un drammatico quadro sociale incastonandovi personaggi complessi per sentimenti e aspirazioni, la crudezza realistica con cui descrive rivolte e repressioni sanguinarie unita alla finezza psicologica che illumina il cuore e i dilemmi delle relazioni umane attestano lo scrittore nigeriano come una delle voci più interessanti del panorama letterario africano. La narrazione prende le mosse dall'incarcerazione di Lomba, giornalista e poeta accusato di avere organizzato una manifestazione contro il governo cui ha in realtà soltanto assistito in qualità di reporter. Torturato e rinchiuso in cella d'isolamento, giunge infine a un compromesso con il sovrintendente Muftau, che gli commissiona componimenti poetici per la fidanzata trasformandolo in un redivivo Cyrano di cui perderemo le tracce quando verrà trasferito nel carcere di una lontana cittadina nel nord del paese. E' a questo punto che torniamo a Lagos, l'immensa e devastata capitale nigeriana, per avvicinarci alla vita di uno dei suoi sobborghi, ribattezzato Poverty Street, uno dei tanti che gravitano attorno alla città come un'orrenda corona stillante degrado e miseria. In questo ambiente si apre un florilegio di esistenze che Habila trasforma da occasionali comparse in campioni di un'umanità che sopravvive alla violenza quotidiana dei militari e a condizioni di vita impietose. Lo scrittore assume i panni del quindicenne Kela, inviato a Lagos dal padre sotto la protezione della zia Rachael, che gestisce un ristorantino incuneato tra infinite teorie di baracche malmesse. Attorno al giovane Kela si muove Brother, focoso proprietario di una botteguccia che trascinando la sua protesi sotto il ginocchio millanta un passato di eroici scontri con la polizia e sogna tra i fumi dell'erba una milionaria festa d'addio all'intero quartiere. C'è il professor Joshua, dignitosa figura di intellettuale da cui tutti si aspettano illuminanti parole di rivoluzione e che coltiva un amore segreto per la prostituta Hagar, dalle fattezze incantevoli ma ormai invecchiata cent'anni nell'animo, cui continua a regalare come un eterno principe illuso libri di Shakespeare e Dickens. Ci sono ladruncoli, sbandati, bambini infossati in trincee di rifiuti, ragazze che scappano sognando spasimanti che non esistono più, altre che vagolano per i cortili in minigonne e t-shirt trasparenti, e c'è la zia di Kela, Rachael Godwill, i cui anni migliori sfumano tra bottiglie di whisky, una donna che tuttavia non si scoraggia e ridipinge le pareti del suo prezioso rifugio dove a pranzo si raccolgono gli angeli e i dannati di Poverty Steet. Ma il romanzo non si ferma al racconto di questa corte di ingiurie e miracoli. Corre verso gli infervorati discorsi di Thomas Sankara agli studenti universitari, le parole issate come stendardi di Martin Luther King, Amilcar Cabral e Wole Soyinka. Mentre code interminabili di macchine attendono gocce di carburante ai distributori di un paese che è uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio la BBC annuncia la morte per impiccagione dello scrittore e poeta Ken Saro-Wiwa. Anche l'infimo ghetto di Poverty Street prova a ribellarsi marciando in pacifica manifestazione. Chiudendo il cerchio di una narrazione polifonica e compatta, ritornerà in un serrato flashback la figura di Lomba, il giornalista incarcerato, che dopo avere assistito a un ennesimo bagno di sangue tenterà un'inutile fuga negli infernali meandri cittadini. 

Helon Habila

martedì 20 settembre 2011

DON DELILLO - PUNTO OMEGA


Richard Elster, settantatreenne ex-consulente del Pentagono ai tempi della guerra in Iraq, decide di ritirarsi in un casolare sperduto nel deserto della California meridionale. Jim Finley, regista che ha la metà dei suoi anni, lo incontra in un museo dove proiettano 24 Hour Psyco, videoinstallazione in cui il film di Hitchcock è ispezionato, fotogramma dopo fotogramma, per l’intera giornata. Jim chiede a Elster se è disposto a parlare di sé davanti a una videocamera. L’idea è quella di una confessione libera, un documento senza artifici, volto e parole sul semplice sfondo di un muro crepato. All’inizio il vecchio rifiuta, poi i due si trovano a parlane nell’eremo di Anza-Borrego. Don Delillo, in un romanzo che accentua i toni metafisici del suo realismo postmoderno, riduce il contesto a un quadro essenziale. Il paesaggio desertico è in sintonia con dialoghi scarni, che procedono a illuminazioni improvvise, distillati dal lavorio interiore di personaggi che si sono lasciati alle spalle le consolanti abitudini della vita sociale. I loro punti fermi, mogli, figli, lavoro, orologi, abitano l’universo delle città, queste mostruose aggregazioni “costruite per misurare il tempo, per togliere il tempo dalla natura.” Dune, rocce, calanchi, sole rovente, sono gli ingredienti di un’alchimia psicofisica in cui il tempo si espande, perde i connotati comuni e si trasforma in un’entità misteriosa, un soggetto che sovrasta lo spettatore. Il Teorico della Difesa chiamato al Pentagono per arricchire di contenuti visionari le strategie militari statunitensi vorrebbe “una guerra formato haiku”, un’azione essenziale, implacabile, che non significhi nulla più di quello che è. “Uno stagno d’estate, una foglia d’inverno.” Sostiene l’idea di un interventismo bellico intuito come necessità di autoconservazione, al di là del discrimine tra realtà e menzogna, un fatto che riguarda il bisogno di una nazione di non perdere la propria identità, la capacità di costruire un’immagine del proprio futuro. Elster, però, rimane deluso dai convegni segreti del potere, perché in quelle stanze si parla solo di “priorità, statistiche, stime, razionalizzazione.” E le riflessioni, nell’isolamento del ritiro spirituale di Anza-Borrego, si spostano su orizzonti diversi: sul destino dell’essere umano, che attraverso la tecnologia sta tentando di liberarsi della sua stessa sostanza biologica, e su quel fatidico punto omega, la compiuta introversione di una specie che ha azzerato la propria coscienza riavvicinandosi alla materia inorganica. Ma il vecchio mondo si riaffaccia all’improvviso e reclama tragicamente i suoi conti. La figlia del geniale consulente, Jessica, viene a trovarlo per qualche giorno; si insinua come una perturbazione inattesa tra lui e il suo giovane testimone. E’ una ragazza silenziosa, di cui Jim subisce il fascino inquieto fino a immaginare scene di sesso davanti allo specchio del bagno. Un corteggiamento costellato di allusioni e bruscamente interrotto quando Jessica scompare nel nulla. Iniziano le ricerche, i contatti con la polizia, le ricognizioni tra i canyon, il ritrovamento di un allarmante coltello, l’ipotesi di un agguato mortale. Richard Elster deperisce. La mente si svuota e il corpo perde vigore riducendosi alla pietosa icona di un uomo sconfitto. Non si tratta di una disperazione eclatante, piuttosto di un quieto prosciugamento che lo conduce alla soglia di un regno alieno, al di là di ricordi e rimorsi, e lo fa assomigliare “a una radiografia, tutto orbite e denti.” Il progetto del documentario-intervista scivola in secondo piano e Jim Finley affida il cadaverico reduce alla compassione della sua ex-moglie. L’azione si spezza, lasciando la conclusione del breve romanzo sospesa. Ciò che interessa Delillo, in quest’ultima fase creativa della sua piena maturità, è soprattutto il brusio continuo di microeventi perlopiù inconsapevoli, l’ossatura nascosta della vita umana.

Don DeLillo

lunedì 19 settembre 2011

La ribellione touareg contro lo spregiudicato sfruttamento delle miniere d'uranio in Niger - La testimonianza di un guerrigliero.

Ahmed Moussa è un abile artigiano touareg che confeziona gioielli in argento, ebano e pietre dure. Offre il tè nella stanza dove alloggia insieme ai suoi tre fratelli, tutti orafi e mercanti di preziosi originari della regione di Agadez. Parla del suo paese, di vecchi che si tolgono le scarpe prima di entrare in macchina, gente di poche parole, dignitosamente arcaica, che non ama lamentarsi né chiedere aiuto. Racconta di dune desertiche alte quattrocento metri, gli occhi che tracciano il margine delle montagne di sabbia come se le vedessero. E’ questo puro piacere di comunicare emozioni a farmi intuire che Ahmed è un uomo speciale. Siamo in stagione di piogge*, periodo morto, di poco lavoro a Dakar, in cui gli amici touareg rientrano ai loro villaggi natale per una quarantina di giorni. Hada, il colto e devoto fratello maggiore che la sera salmodia versetti coranici, parte domani con gli altri. Solo Ahmed resta di guardia alla base senegalese. Bamako (Mali), Ouagadougou (Burkina Faso), Niamey (Niger), poi altri mille chilometri verso il nord del paese e Agadez. Questo il percorso in pullman che attende i tuareg diretti alla loro terra d’origine, tre giorni di viaggio senza soste e con gli incerti dei posti di blocco dei militari di Niamey. Ma non possiamo fare altro, dobbiamo pure tornare a casa, mormora Hada preparando i bagagli. In Niger è guerra: un conflitto che si è riacceso nel febbraio del 2007, quando il Movimento degli abitanti del Niger per la Giustizia (Mnj) ha imbracciato le armi e ha attaccato la caserma di Iférouane.

guerriglieri touareg

Provviste di munizioni, quindici morti e ottantasette prigionieri tra i militari dell’esercito regolare: un fragoroso debutto che ha siglato l’avvio dell’ultima ribellione touareg (anche se del Movimento, che combatte per la giustizia di tutti i nigerini, fanno parte anche haoussa e fulani scontenti del Governo dell’ex colonnello e presidente della Repubblica, Mamadou Tandja). La prima ribellione touareg risale ai primissimi anni Novanta. La sigla che allora riuniva i guerriglieri nascosti lungo i pendii del massiccio dell’Air era il Flaa (Fronte di liberazione dell’Air e dell’Azawad), il cui fondatore e leader Rhissa Ag Boula vive oggi tra Parigi e Bruxelles, condannato a morte in contumacia dal regime di Niamey per l’omicidio nel 2004 di Adam Amangué, un militante del partito al potere. Le rivendicazioni all’origine della rivolta erano le stesse di oggi: maggiore equità sociale nei confronti della minoranza touareg concentrata nelle zone desertiche e montuose settentrionali e soprattutto una parziale redistribuzione degli enormi proventi derivanti dall’esportazione dell’uranio a beneficio della popolazione locale. Il Niger, oltre a possedere importanti giacimenti petroliferi e cospicue riserve di carbone, è il quarto produttore mondiale di uranio nonché uno dei paesi più poveri del mondo. Le miniere sono concentrate nella regione di Agadez e dal 1960, anno di proclamazione dell’Indipendenza, fino al principio del 2000 è stata la Francia, vecchio potere coloniale, ad avere l’esclusiva sull’estrazione del prezioso elemento radioattivo. L’ottantacinque per cento dell’energia elettrica francese è prodotto da centrali nucleari, di cui un terzo è alimentato dall’uranio fornito dall’Areva, la società che gestisce le miniere del Niger. L’annuncio dato dall’ex chef dei ribelli Rissa Ag Boula di un imminente attacco del Mnj a queste miniere ha provocato – il 31 dicembre scorso – una drammatico tonfo in borsa delle quotazioni Areva.  Gli scontri dei primi anni Novanta cessarono con la sottoscrizione degli accordi di pace del 1995. Tali accordi prevedevano la reintegrazione dei ribelli nell’esercito regolare e l’impiego prioritario di touareg nelle società minerarie del nord cui è seguita nel 2006 una legge per la quale il 15 percento dei proventi derivanti dallo sfruttamento delle materie prime dovrebbe essere destinato alle collettività locali interessate. Ma nessuno di questi punti è stato rispettato e i villaggi nella regione di Agadez sono ancora oggi privi di scuole, di strutture sanitarie elementari, di dispensari, per non parlare della penuria di pozzi e delle difficoltà di accesso all’acqua potabile. E accanto a questi enormi disagi ci sono le conseguenze dell’esposizione diretta a sostanze radioattive, trattate senza le necessarie norme di sicurezza, con una crescita esponenziale dei casi di tumore tra gli abitanti della zona.

la cartina geografica del Niger

“Abbiamo fatto un grave errore a consegnare le armi. Ci siamo indeboliti illudendoci che gli accordi siglati nel 1995, garanti diversi stati confinanti, avessero un valore effettivo. In realtà abbiamo dato l’opportunità al regime di Niamey di continuare a ignorarci”. A parlare è un giovane guerrigliero, Aghali, ex operatore turistico ad Agadez, che dopo due anni di lotta ha lasciato il Niger attraversando il confine desertico con il Mali ed è entrato da una decina di giorni in Senegal. La bionda fidanzata austriaca ha fatto di tutto perché scendesse dalle montagne dell’Air e la seguisse in Europa. Un visto e un permesso di soggiorno emesso direttamente dall’Ambasciata sono quasi pronti, anche se lui non sembra molto convinto. Gli amici di Dakar assicurano che Aghali pensa continuamente di tornare a combattere e non è detto che all’ultimo tuffo si decida per un clamoroso ritorno. “Delle millecinquecento persone che lavorano nella storica miniera di Arlit” continua a raccontare con la strana serenità che accompagna sempre e comunque i tuareg, “soltanto 150 provengono dalla regione di Agadez. Le società minerarie preferiscono impiegare manodopera del sud lasciando la popolazione locale il più possibile estranea ai loro affari”. La nuova ribellione, iniziata nel febbraio 2007 con l’attacco alla caserma di Iférouane e la creazione del Mnj a opera di Amoumoune Kalakoua e Abubacar Alombo, quest’ultimo caduto in combattimento e il cui fratello, Aghaly Alombo, è l’attuale presidente del Movimento, è stata una reazione ad atteggiamenti sempre più intollerabili e autoritari del governo di Niamey. I tre ministri touareg attualmente in carica sono impotenti e impossibilitati a prendere decisioni in favore della loro gente. Il prezzo dell’uranio è intanto passato tra il 2001 e il 2007 da 7 a 45 dollari la libbra. Il Niger, diversificando i suoi partner, ha dato decine di nuove concessioni e permessi di ricerca a un largo ventaglio di paesi tra cui la Cina, il Canada, l’Australia e il Sudafrica. La società francese Areva ha ottenuto all’inizio del 2008 il permesso di sfruttamento del giacimento di Imouraren, seconda riserva mondiale. Il presidente Mamadou Tandja, preoccupato di difendere gli interessi di un’élite affarista ed etnocentrica (l’ex colonnello è per metà haussa e per metà peul), rifiuta sistematicamente ogni dialogo con il Mnj e ha decretato una specie di stato d’urgenza nella regione. I militari di Niamey hanno carta bianca e non si trattengono da pesanti rappresaglie su civili impunemente assassinati. Messi al centro di una tendenziosa campagna di discredito, i guerriglieri touareg sono accusati di essere niente più che trafficanti di droga o perfino terroristi. Accuse che appaiono al momento infondate, vista la povertà dei touareg che gli impedirebbe di comprare e rivendere la cannabis in transito dal Marocco al Mediterraneo e vista la mancanza totale di appoggi esterni del Mnj, le cui munizioni sono per la maggior parte frutto delle imboscate tese alle milizie governative. Si tratta di un movimento che agisce con mezzi limitati e che sfrutta soprattutto l’impareggiabile conoscenza del territorio. Comunicazioni satellitari e Internetrendono più agile ed economica la guerriglia contemporanea e il prezzo di un kalachnikov è sceso dai 500 dollari del 1991 ai 150 odierni. Le popolazioni arabe, inoltre, non sono tradizionalmente in armonia con la storia e la cultura touareg, ciò che rende improbabile uno slancio fraterno verso le posizioni del fondamentalismo islamico. “Tutte le accuse del governo sono false”, conferma Aghali, che porta lo stesso nome del presidente del Mnj ed è nato nello stesso villaggio. “Il nostro vero vantaggio è quello di combattere nella terra dei nostri antenati. Se una pattuglia governativa esce in perlustrazione o in missione offensiva, la avvistiamo a cinquanta chilometri di distanza e abbiamo il tempo di posizionarci”. Parlare con questo ragazzo che racconta alcune prodezze compiute da lui e dai suoi compagni è come avere a che fare con l’esponente di un gruppo di eroi animati da un legittimo anelito alla giustizia ed estranei alle meschine ragioni delle guerre combattute per interesse. File di guerriglieri che contano oggi più di tremila uomini a cui continuano ad aggiungersi nuove reclute. “Nel gennaio del 2008 abbiamo tenuto in scacco per quattro ore il villaggio di Tanout, prelevato il prefetto, il capo della Gendarmeria e quello della Guardia militare oltre a sette prigionieri. Il 27 giugno scorso, un anno esatto dopo l’inizio delle ostilità, ci hanno attaccato con due sofisticati elicotteri presi in affitto da un paese straniero. Abbiamo avuto diciassette morti, tra cui il Vicepresidente del Mnj, ma un elicottero, del valore di circa trenta milioni di euro, è stato abbattuto e l’altro seriamente danneggiato. Le milizie governative sono accampate ad Agadez e Arlit, ma senza copertura aerea non osano avventurarsi tra le montagne dell’Air”. Le Mouvement des Nigériens pour la Justice ha creato un sito web nel quale sono pubblicati aggiornamenti sullo stato della ribellione e le operazioni militari, analisi sulle strategie del governo del Niger per marginalizzare i touareg e sfruttare liberamente le risorse del sottosuolo, pubbliche accuse e dichiarazioni ufficiali. Tra queste ultime ci sono quelle che rimarcano l’impegno dei combattenti touareg a rispettare i valori umani, la dignità dei cittadini del Niger fatti prigionieri e le norme della Convenzione di Ginevra. La trascrizione di un discorso dell’attuale presidente del Mnj, Aghali Alambo, annuncia la presentazione di un dossier d’accusa contro il capo supremo dell’Esercito e i predatori della ricchezza nazionale presso il Tribunale penale internazionale per i crimini contro l’umanità.

Notizie e testimonianze alla base del reportage risalgono al mese di luglio del 2008.

per ulteriori informazioni e aggiornamenti:

venerdì 16 settembre 2011

YASMINA REZA - IL DIO DEL MASSACRO


Da questa commedia dell’autrice francese è stato tratto Carnage, l’ultimo film di Roman Polanski, regista attento a quelle opere che esasperano la crudeltà dell’essere umano fino all’emergere di coloriture assurde e grottesche. La scrittura di Yasmina Reza è levigata come le sue indicazioni di scena, che bandiscono ogni elemento realistico a favore di una rappresentazione a tinte neutre, tendenzialmente universale. L’intera pièce si svolge nel salotto di una casa borghese, dove due coppie tra i trenta e i quaranta si ritrovano a discutere di un incidente occorso ai loro bambini. Ferdinand Reille, undici anni, ha colpito con un bastone Bruno Houllié, ferendolo al labbro e spaccandogli i due incisivi. In un clima di costernata cordialità, i genitori danno avvio a una danza di convenevoli che svelano sipari scabrosi e inezie domestiche promosse al ruolo di scandali da un moralismo posticcio. Cavillosi commenti sulla ricetta di una torta alla frutta si mescolano alla notizia di un libro sull’eccidio in Darfur. L’esasperante disturbo del cellulare dell’avvocato Alain allude ai maneggi di una multinazionale intenta ad arginare le conseguenze finanziarie di un farmaco dai pericolosi e occultati effetti collaterali, mentre Michel, grossista di casalinghi, si vergogna di avere abbandonato in mezzo alla strada l’insopportabile criceto del figlio. E’ una sequenza di gelide risate sulla spietata sterilità del cicaleccio quotidiano che continuano fino a che qualcosa di più grave inizia a crescere tra le due coppie. Il dio del massacro guadagna sempre più spazio trasformando il salotto intriso di stupidi e imbarazzati convenevoli in un’arena di aperto cinismo. L’incidente dei bambini diventa sulle prime l’occasione di rivendicare l’assoluta innocenza o il sacrosanto diritto di offendere del proprio pupillo, poi anche il pretestuoso movente dell’incontro tra i genitori scivola in secondo piano, sovrastato da uno sfogo che mostra tutto l’osceno campionario di quattro anime grette e incattivite. “Comportarsi in modo civile non serve a niente. La buona creanza è un’idiozia che ci rammollisce e ci rende deboli…” replica Véronique ad Annette. “Gli ho detto, un figlio alla nostra età, che follia! I dieci, quindici anni che ci restano prima del cancro o dell’infarto vuoi romperti le palle con un marmocchio?” conclude Michel in un’altra battuta. Aggressioni fisiche, accuse, vizi privati convertiti in pubbliche armi, insulti pesanti: il dio del massacro ormai spadroneggia in questa stanza occidentale di domestici orrori. Così come è bastato un nonnulla a capovolgere la quiete ingannevole in volgare ferocia, sarà sufficiente un colpo di telefono dell’adorato figliolo a riaffondare la casa in quella spettrale normalità da cui è germogliato il disastro.   

domenica 11 settembre 2011

V.S. NAIPAUL - LA MASCHERA DELL'AFRICA


Un’Africa terribile, viscerale, irrazionalistica, a tratti irresistibilmente fascinosa ma spesso perduta “nel pozzo senza fondo delle credenze e delle superstizioni tradizionali”, malata di un vitalismo primitivo, che spinge ogni rivoluzione modernista verso una cronica entropia e rende fallimentare il bilancio sociale ed economico di quasi tutti i suoi stati. I sei lunghi reportage narrativi raccolti in questo volume dal Premio Nobel per la Letteratura 2001 si sono attirati non poche critiche per il loro sguardo clinicamente laico e distaccato sul Continente africano, passato al vaglio di un’osservazione che concede il minimo alla fascinazione dell’esotico e non nasconde il disagio intellettuale, il disgusto o la pura e semplice noia di fronte a culti dalle pretese misteriche, inclini a sacrifici cruenti e alquanto poveri di contenuti filosofici. Se a tutto ciò si aggiunge la speciale idiosincrasia per le forme più tradizionaliste di società islamica e la generale diffidenza suscitata dalle grandi religioni monoteiste penetrate in Africa e abbracciate senza rinunciare al secolare orizzonte animistico, potremmo eleggere il libro di V.S Naipaul a esempio di illustre conservatorismo contemporaneo: pagine che versano lacrime sugli eleganti quartieri dei bianchi razzisti di Johannesburg, ormai fatiscenti e deteriorati dall’atavica incuria africana subentrata al vecchio efficientismo coloniale, o che colgono nella sofferenza di vacche e gatti sacrificati con metodi atroci i segnali di una spaventosa forma di inciviltà. Ma lo scrittore di Trinidad ha notevoli riserve stilistiche e ampie capacità analitiche, così che il coraggio di una parzialità per nulla politically correct regala, accanto a eccessi di discutibile ripulsa, tesori di verità che anche l’amante più sognatore dell’Africa deve chinarsi a raccogliere. L’indagine attorno alle religioni tradizionali - questo il dichiarato obiettivo del tortuoso itinerario in sei stati africani - compiuta tra il marzo del 2008 e il settembre del 2009, inizia nell’Uganda reduce dalle spietate dittature di Idi Amin (1971-1979) e di Milton Obote (1981-1985), la cui capitale Kampala non smette di estendersi in un’esplosione dissennata di metastasi cementizie. E’ nelle magnifiche campagne verdeggianti dell’antico regno del Buganda che si respira la tensione di una tregua apparente, la vita che malgrado la ruota scandita dalle occupazioni quotidiane rimane intimamente legata alla stregoneria e alle rivalità sanguinarie di villaggio in villaggio, configurando agli occhi del viaggiatore “un mondo suscettibile da un momento all’altro di dissoluzione razionale.” Un inventario di violentissimi fatti di cronaca emerge da stralci di giornali locali che danno il polso reale di un paese allo sbando dopo quarant’anni di guerra civile. La gita naturalistica sul lago Vittoria verso l’isola delle scimmie è il controcanto spettacolare di un Continente lacerato, l’immagine grandiosa di una natura a tratti incontaminata che scorre indifferente e parallela alle carneficine umane. Il mondo degli spiriti e delle pratiche tradizionali diventa protagonista della narrazione quando Naipaul si occupa della civiltà autoctona ugandese sopravvissuta fino alla metà dell’Ottocento e testimoniata da esploratori occidentali come Stanley, tra i primi ad addentrarsi in regni governati da re onnipotenti, venerati come emanazioni divine: leggendarie terre in cui era d’obbligo versare lo hongo tribale, sorta di tassa pedonale che non garantiva ai viaggiatori l’incolumità assoluta ed era sempre suscettibile di arbitrari aggiustamenti. I nomi dei mitici regnanti sono quelli di Re Mutesa o del Kabaka Sunna, la cui tomba rimane un’attuale meta di pellegrinaggio nonostante le ottocento persone che riuscì a condannare a morte in una sola giornata e le svariate atrocità commesse con la dispotica leggerezza di un capriccio regale. Il soggiorno dello scrittore sessantasettenne in Nigeria è un’immersione nel paganesimo religioso, avvicinato grazie all’incontro con diversi capi tradizionali, dall’oba (re) di Lagos al babalawo, figura ricorrente di mago o stregone, fino all’oni di Ife, lo chef spirituale del popolo yoruba. Il ricevimento presso l’emiro di Kano, antica città del nord musulmano, offre lo spunto a una documentata dissertazione sulle ferree regole di vita dell’harem, in cui alle donne che allattano viene coperto il volto affinché il neonato non memorizzi i lineamenti materni, in modo da prevenire l’insorgere di un nucleo familiare potenzialmente capace di destabilizzare il generale assetto poligamico. Naipaul passa di mentore in mentore, ricevuto e accompagnato sul posto da guide autorevoli e bene introdotte in ambienti politici e religiosi. In Ghana, antica Costa d’oro nonché regno degli ashanti, il cui potere verrà fortemente limitato dalla dittatura del primo presidente Nkrumah, sarà la volta di Pa-Boh, segretario e amministratore di sette capi tradizionali, che introduce il reporter al gran sacerdote dei ga. Queste visite ad autorità religiose e a officianti di culti diffusi sono avventure in locali bui e labirintici, stanze oppressive e affollate, una costellazione di segni e prescrizioni dal sapore esoterico che inquietano l’animo cartesiano di Naipaul, educato al giudizio pacato e a una ragionevolezza che l’Africa non ha mai fatta propria. Quello che ad altri esploratori di ieri e di oggi è sembrata la porta intrigante a saperi misteriosi, a lui pare il solito ritornello della cerimonia pagana che spostandosi di latitudine varia alcuni ingredienti ma non la sostanza della ricetta: un commercio con le ricorrenti e occasionali divinità del pantheon politeista, offerte costose, strambe, spesso cruenti, e un culto degli antenati che si spinge fino a dolorosissimi eccessi sacrificali. Da scrittore umanista, Naipaul non si limita a un freddo sguardo antropologico, ma integra la sua indagine con rilievi che tengono conto degli universali diritti umani, di una Costituzione morale trasversale rispetto a etnie e popoli, una carta invisibile che gli consente di stigmatizzare comportamenti e pratiche inaccettabili anche se provenienti da terre remote e fondate su arcaiche abitudini sociali. L’ultimo appuntamento in Ghana è con l’ex presidente e capitano dell’aeronautica Jerry Rawlings, protagonista di due colpi di stato che restituirono il governo ai civili, rivoluzionario e mito vivente intervistato in un’elegante villa della capitale Accra. La rotta africana del distinto signore di lettere punta quindi su Abidjan e su una Costa d’Avorio che ritrova trasformata rispetto a una visita di qualche decennio prima. Il cielo serale oscurato da sciami di pipistrelli detti volpi volanti e portatori del virus Ebola è il luttuoso sudario che copre una città un tempo ariosa, densa di un fascino coloniale, e ora preda, come l’intero paese, di immobiliaristi e speculatori selvaggi. Il re della foresta si trasforma nel racconto del lunghissimo regno del vecchio presidente Houphouët-Boigny, altro mito nazionale, amato dal popolo e dai francesi, prodigo di opere grandiose quanto deliranti e votate alla fatiscenza, “che permise ai francesi di gestire la nazione, mentre lui si dedicava alla magia a suo uso e consumo, sperperava la ricchezza del suo paese, costruiva monumenti religiosi, come un faraone.” 


il premio Nobel caraibico V.S. Naipaul


Se la trattazione di aspetti politici e sociali - malgrado gli intenti dichiarati dell’autore di una ricerca in ambito prevalentemente religioso - si fa più serrata nello scritto conclusivo dedicato al Sudafrica, la dimensione animistica e spirituale caratterizza l’intero reportage dal Gabon, in cui la religione della foresta e il suo fitto sistema di credenze diventano i protagonisti assoluti della narrazione. Risalendo il fiume Ogooué e addentrandosi nella riserva nazionale della Lopé tra distese di foresta vergine e acque popolate da geni e temibili fantasmi, Naipaul assiste a cerimonie danzanti con maschere e tamburi dall’ossessività magnetica, viene informato di segrete iniziazioni, del culto dell’iboga, pianta sacra dalle componenti fortemente psicoattive, e si documenta sulla vita dell’etnia fang e su quella degli ultimi pigmei, straordinari conoscitori della farmacopea tradizionale e di ciò che occorre per sopravvivere in un ambiente estremo popolato da creature animali e vegetali di ogni genere. Si tratta di luoghi dove tutto ha un’anima e si puo’ uccidere per impossessarsi dell’energia di un rivale, dove gli antenati sono i soli intercessori presso il dio unico, venerati in reliquiari nascosti in villaggi seppelliti tra fusti secolari. Compagno di viaggio è il trentasettenne Mobiet, americano bianco da anni insediato in una zona interna del Gabon, integrato tra i nativi, iniziato ai culti tradizionali e animato da un’autentica tensione mistica. L’ultima stazione gabonese è quella sull’isola di Labaréné, stretta lingua di terra lunga 25 chilometri in mezzo alle acque dell’Ogooué, antica e cadente residenza del dottor Schweitzer, tratteggiato con poca simpatia per il suo algido distacco dagli indigeni, ai netti antipodi del meno celebre ma eroico reverendo Nassau, insediato con la sua missione nella stessa zona. La Maschera dell’Africa, titolo che allude a un costante e metamorfico travestimento di un Continente che oscilla tra svariate identità, minaccioso e attraente come una natura madre restia al controllo, onnivoro per uno spasmodico amore del presente, dell’attimo da deglutire come un dono passeggero, questo viaggio nel magma primordiale di credenze e riti, follie e scorci meravigliosi che anestetizzano e sospendono il disgusto, si conclude con un’ampia ricognizione attorno all’unico paese africano dall’economia efficiente, il più prossimo, in apparenza, al modello occidentale, e in cui si annidano brucianti contraddizioni. V. S. Naipaul scrive di un Sudafrica in cui i vecchi coloni bianchi sono spariti dalle prime linee ma hanno trovato alleati in un gruppo ristretto di africani compiacenti, spartendosi con essi l’azionariato delle società che contano. Nonostante la Commissione per la verità e la riconciliazione, le ferite sono rimaste aperte e la questione razziale è tuttora la più grave emergenza del paese. Dalla voce di Winnie Mandela sprizzano scintille velenose, accuse al leader Nelson che ha tradito scendendo a un compromesso ingiusto, che ha accettato la consegna del Nobel a braccetto del suo carceriere. Winnie non ha mezze misure: “Siamo stati truffati. Una libertà basata su compromessi e concessioni, è questo che Mandela ha accettato. Il potere economico ai neri: figurarsi! E’ stato un trucco dei bianchi in combutta con i capitalisti bianchi sudafricani. Hanno scelto dei neri malleabili e li hanno fatti diventare soci delle loro aziende. Ma quelli che avevano lottato, che avevano dato il sangue sono rimasti con niente. Vivono ancora in baracche: senza elettricità, senza fognature, senza possibilità di istruirsi.” L’ostacolo più grosso a uno sviluppo reale, capace di mutare le coscienze, è l’arretratezza del sistema scolastico, volutamente limitato o reso inaccessibile alla larga maggioranza degli oppressi o dei poveri, circostanza che costituisce il male maggiore, accanto alle privazioni alimentari, di quasi tutti gli stati africani. La condizione del Sudafrica attuale è magistralmente compendiata nelle storie di un narratore, Rian Malan, e del suo My Traitor’s Heart, di cui Naipaul offre una notevole recensione incastonata nel corso del suo scritto. Orrendo e intollerabile è, in piena Johannesburg, il mercato dei muti, gli oggetti richiesti ai clienti dagli stregoni, tra cui spiccano costose teste di cavallo e pezzi di animali vari. Orrende e intollerabili sono le pratiche sacrificali usate per le mucche, che devono muggire forte mentre le scuoiano affinché le sentano gli antenati. Non manca, nella caleidoscopica officina dello scrittore di lingua inglese, la rievocazione storica dell’esodo dei boeri da Città del Capo nella prima metà dell’Ottocento. Un po’ più tardi, negli anni Novanta dello stesso secolo, un ospite illustre viaggiò in condizioni disastrose da Durban a Johannesburg e quindi a Pretoria: si chiamava Mohandas Gandhi, un timido avvocato giunto in Sudafrica per assistere un ricco mercante indiano di religione musulmana. Giovane e inesperto, subì angherie e umiliazioni, resistendo anni e anni in questa terra, fino a trasformarsi in un uomo di mezza età - l’avvocato finalmente dissolto nel mahatma - pronto a dare fondo ai suoi prediletti strumenti politici: “la disobbedienza civile, il digiuno, la spiritualità universale.”                         

venerdì 9 settembre 2011

WILLIAM DALRYMPLE, NOVE VITE


Nato nel 1965 in Scozia e residente da molti anni in una fattoria nei pressi di Nuova Delhi, William Dalrymple è uno storico formatosi a Cambridge e uno scrittore capace di trasformare le sue esperienze di viaggio in seducenti narrazioni. In questo ultimo libro offre un largo panorama delle differenti forme di spiritualità e misticismo dell’India contemporanea raccontate attraverso le testimonianze di nove personaggi. Sono uomini e donne comuni e straordinari, le cui voci vivacizzano un racconto ricco di informazioni su costumi e tradizioni millenarie. La ricerca storica si scioglie in reportage di spiccata qualità narrativa, attenti tanto ai casi umani quanto al loro contesto storico e sociale. Le scelte che hanno portato questi cercatori di assoluto a intraprendere un cammino di rinuncia agli allettamenti mondani sono state spesso dolorose, comportando traumatiche fratture con i nuclei familiari di origine. E’ il caso della monaca Prasannamati Mataji, che a tredici anni, dopo l’incontro con il guru Dayasagar Maharaj, si consacra a una vita ascetica ubbidiente ai principi del jainismo, una delle religioni più antiche ed esigenti del pianeta. La cerimonia di iniziazione prevede l’eradicazione manuale dei capelli e l’intera esistenza monacale è segnata dal meticoloso impegno a non ledere neppure la più piccola manifestazione di vita. La sallekhana, progressiva rinuncia all’alimentazione fino alla cancellazione di tutto il karma negativo, è l’atto finale di un percorso che vede la morte come un motivo di entusiasmo, l’abbandono di ogni desiderio per accedere a un nuovo universo di pura realizzazione. Dalrymple leva la crosta sensazionale di un’esperienza così estrema, avvicinandola con le semplici parole di Mataji, che pur nell’anelito alla trascendenza rimane piena di umana compassione e partecipazione alle sofferenze proprie e altrui. Gli scenari del tantrismo, pratica esoterica dell’induismo e del buddhismo che travalicando i divieti dell’ortodossia mira a un contatto diretto con il divino, si aprono nel crematorio di Taraphit, dove alloggia la dea Tara affamata di sangue e ossa. Tra pire funerarie e resti di cadaveri carbonizzati i sadhu tantrici del Bengala costruiscono capanne circondate da file di teschi ad uso rituale: una sacralità trasgressiva, ai limiti della ragione, incarnata da Manisha Ma e dal suo compagno Tapan Sadhu. A dispetto delle lugubri apparenze, il luogo riserva al viaggiatore una piacevole accoglienza e gli incontri con i folli mistici osteggiati dal partito comunista locale e dai più bigotti custodi del formalismo devozionale introducono a una religiosità fervente, ispirata all’amore universale. Tra i più eretici rappresentanti della mistica indiana si annoverano anche gli itineranti menestrelli Baul, intercettati al grande raduno annuale di Kenduli, nel Bengala occidentale, dove il cantore cieco Kanai racconta la sua vita punteggiata di sventure e di coraggio ascetico fino al totale abbandono a una spiritualità che schernisce l’ipocrisia dei brahmani e dei potenti, rifiuta l’ingiustizia delle caste e professa un nomadismo ebbro della suprema beatitudine del vuoto. I Baul, oltre a credere che la verità abita solo nel cuore dell’uomo, sono i depositari di una pratica sessuale tantrica insegnata dai guru ed esercitata esclusivamente con la propria compagna. Il libro dello scrittore pronipote di Virginia Woolf spazia dalla storia del monaco tibetano Tashi Passang, che rinunciò ai voti per combattere i cinesi, al ritratto del creatore di idoli Srikana, scultore ed erede di una tradizione del Tamil Nadu antica di settecento anni, e ancora, girovagando nel subcontinente, dal triste caso della prostituta sacra Rani Bai alle danze del posseduto Hari Das, nel Kerala fertile e conservatore, e alle recite di Mohan Bhopa, uno degli ultimi cantori depositari di un grande poema epico medievale del Rajastan. Ogni vicenda dischiude una cospicua rassegna di usanze, fedi e contesti naturali di un’India indissolubilmente antica e contemporanea. La sola avventura che ne eccede i confini è quella tra sufi del Sindh, il deserto del Pakistan meridionale, in cui sono venerati santi celebri come Shah Abdul Latif e Lal Shahbaz Qalander. La storia della devota Lal Peri, l’estatica fata rossa nata in un piccolo villaggio del Bihar e sfuggita a molte persecuzioni prima di approdare alla pace del santuario pakistano, è inserita in un reportage che si può leggere come un sintetico trattato sul sufismo, corrente liberale e mistica dell’Islam che ha vita sempre più difficile in un Pakistan invaso da scuole coraniche politicizzate, improntate a una forma di rigido puritanesimo e finanziate dai sauditi, specie dopo la guerra in Afghanistan. Il 4 marzo 2009, una settimana prima dell’arrivo di Dalrymple a Sehwan, un gruppo di talebani pakistani piazza della dinamite nel santuario del santo sufi Rahman Baba, dove anche le donne potevano pregare, distruggendo completamente la stanza sepolcrale.

William Dalrymple

JOE R. LANSDALE, CIELO DI SABBIA


Jack, Tony e Jane, tre adolescenti in fuga dall’Oklahoma al tempo della Grande Depressione, rientrano a pieno titolo nella tradizione dell’avventura picaresca americana, ideali nipoti di Tom Sawyer e Huckelberry Finn. Joe R. Lansdale, popolare scrittore texano che spazia dal noir alla fantascienza, dall’horror al western, vi aggiunge il tratto distintivo di uno stile asciutto e colloquiale, marcato da dialoghi e battute che funzionano al metronomo, risentendo di quella brillantezza a volte automatica ma sempre funzionale che gli deriva dalla pratica, oltre che di poliedrico romanziere, di sceneggiatore per fumetti. La trama non ha cedimenti, la storia inanella immancabili sorprese e tutto procede secondo un copione da pellicola. Intanto, sul fondale dei paesaggi attraversati dai tre giovani, scorre il racconto di un’America segnata dalle ferite di una crisi epocale. Senza neppure seppellire i genitori - scampa alla carestia solo la madre di Jane e Tony fuggita con un piazzista di Bibbie - gli eroi di Lansdale voltano le spalle alla sventura e alle ingiustizie sociali abbandonando una terra funestata da tempeste di sabbia, pezzi di terra in polvere rossa, bianca e nera provenienti dall’Oklahoma, dal Texas e dal Nebraska che piovono dal cielo come maledizioni e soffiano nell’aria irrespirabile. La fattorie sono semidistrutte, i campi disseccati, le case pignorate con la puntuale rapacità bancaria e le scorte di cibo agli sgoccioli. Non resta che rubare la Ford del vecchio Turpin morto in veranda e ancora impolverato con il suo sigaro tra i denti e mettersi in viaggio per il Texas orientale e forse per la dorata California. Jane è la voce più eversiva del gruppetto, una graziosa silhouette con un debole per le bugie e una sfrontatezza che attira cuori e guai all’istante. E’ lei  a sferzare un calcio tra le gambe di Timmy Durango, braccio destro del gangster svaligiatore di banche Bad Tiger Malone, che li prende in ostaggio e da cui riescono a svignarsela coperti da una grandinata di cavallette. Rievocano atmosfere alla Mark Twain i bivacchi lungo i torrenti, i fuochi notturni nei boschi, le pesche alla trota mattutine con lenze di spago e chiodi ribattuti. Più attenti al volto del paese depresso sono invece i racconti dell’avvicinamento alle comunità di hoboes, i celebri senza fissa dimora degli anni Trenta che sposano un ideale libertario e vagano per gli stati del sud campando di elemosina ma anche di furtarelli, oppure quello dello sceriffo Big Bill che assolda disperati promettendo un dollaro per una giornata nei campi a raccogliere piselli e rapisce i malcapitati creduloni costringendoli a lavori forzati. Da questo delinquente in divisa i tre protagonisti riescono a fuggire una seconda volta, superando i pericoli di una palude infestata da sanguisughe e alligatori. Pietoso e delicato è l’incontro con Daggart, vecchio morente scovato nell’angolo di un vagone ferroviario preso in corsa, che deglutisce con fatica qualche boccone di cibo riuscendo almeno a spirare in compagnia. La figura di Pretty Boy Floyd, rapinatore e gentiluomo vagabondo, riscatta in parte la crudezza degli incontri sulla strada, salvandoli in extremis da un paio di hoboes snaturati che si sarebbero intascati volentieri le ultime riserve di alimenti e spiccioli. La lunga corsa di Jack e compagni si arresta in un luna park accampato a Linsdale, nel Texas orientale. E’ qui che al termine di peregrinazioni e sbandamenti mozzafiato riescono a trovare il lottatore da circo Strangler Nubowski, cui il famigerato Bad Tiger non ha perdonato un fallito colpo in banca e soprattutto la misteriosa sparizione della refurtiva. In un carnevale di spari e pestaggi si chiude il sipario su un mezzo lieto fine, con Tony e Jack che sembrano avviarsi su una strada più tranquilla e Jane che intemperante e coraggiosa come sempre dirige i suoi sogni in California.


mercoledì 7 settembre 2011

La forma degli angeli - Reportage dal villaggio senegalese di Ndem

   
Ndem è un villaggio incastonato nell’immensa piana del Sahel, in territorio senegalese, a circa tre ore di macchina dalla capitale Dakar allontanandosi dalla costa in direzione nordest. Vi giunsi per la prima volta con un amico che doveva visitare il luogo allo scopo di impiantarvi un forno per il pane. Era notte, e dopo avere abbandonato la strada asfaltata per una mezzora di sabbia, luna, visioni chiaroscurali di baobab, acacie e cespugli sparsi nel palcoscenico della savana, fummo ricevuti dagli alfieri della comunità Baye Fall, ragazzi sorridenti e colorati di abiti tradizionali che ci condussero fino alla loro guida spirituale e referente per tutte le attività del luogo, Serigne Babacar Mbow.
Dopo anni di pellegrinaggi in Europa, specie in Spagna e Francia, dopo avere conosciuto la strada e tutto ciò che significa per un emigrato africano, e dopo avere continuato il suo cammino interiore fermandosi ogni tanto a scrivere e meditare in piccole località alpine, Serigne Babacar è tornato alla sua terra natale. Insieme alla moglie francese Sokhna Aissa Cissé, prodigio di perfetta integrazione afroeuropea, modello di ciò che avrebbe potuto essere l’eredità coloniale in Africa, il quarantenne sociologo, scrittore e soprattutto cercatore mistico di fede islamica decise di non fermarsi nella più comoda Dakar e si insediò proprio qui, nel villaggio dei suoi antenati.

Già quando abitava a Mermoz, buon quartiere della metropoli senegalese, Serigne Babacar era stato un punto di riferimento per molti, dai semplici amici ai bisognosi e perfino ai folli che approdavano alla sua porta sempre aperta. Dava consigli, condivideva il poco o tanto che aveva e cercava spunti in ogni cosa per riflettere attorno alla natura e all’uomo. Predisposto all’indagine e alla delicata funzione della guida, rintracciava ovunque segni illuminanti, esempi utili a comprendere e a risalire alla comune origine di tutto, al Signore Supremo, l’Invisibile e il Visibile, il Nascosto e il Manifesto, l’Onnipotente Allah.

Vincenzo Maria Oreggia con Serigne Babacar Mbow a Ndem

Il misticismo islamico, la corrente esoterica che lo pervade fin dai primordi, altrimenti indicata con il termine sufismo (da tasawouf, abito di lana grezza indossato dai primi sufi, quindi abbigliamento sobrio di chi relativizza l’aspetto materiale dell’esistenza) ha attraversato i secoli costituendo il cuore delle non molte confraternite tradizionali. Si tratta di comunità che hanno spesso raggiunto dimensioni transnazionali e raccolto milioni di fedeli dall’Africa all’Estremo Oriente, fondate da un santo rimasto punto di riferimento inossidabile, iniziatore di una lunga catena di Cheikh (maestri affiliati) che ne tengono vivo lo spirito e accolgono nella turuk (confraternita, ma più propriamente Via) il musulmano che si mostri pronto e disponibile.
Il Senegal ha dato i natali a uno dei grandi santi dell’Islam, Cheikh Ahmadou Bamba, vissuto tra il 1855 e il 1927, protagonista di una pacifica opposizione alle invadenze dell’amministrazione coloniale che gli costò l’esilio e una serie innumerevole di aggressioni e prove superate con virtuosa pazienza e dedizione totale agli insegnamenti del Profeta Muhammad, tanto interiorizzati da fargli assumere il titolo di Khadimou Rassol, il Servitore del Profeta.
Cheikh Ahmadou Bamba Khadimou Rassol, autore di poemi mistici recitati da milioni di musulmani e iniziato in gioventù alla confraternita della Quadriya (risalente al santo dell’undicesimo secolo Abd Al Quadir Jilani e filtrata in Africa Nera dal maghreb) fu fondatore di una propria Via, una delle poche turuk nate sotto il Sahara e una delle ultime apparse nella storia dell’Islam, la confraternita di Muridiya (da mourid, discepolo, aspirante), che ha il suo centro nella città di Touba e nella magnifica Moschea dove ha sede il mausoleo di Ahmadou Bamba. Uno dei suoi intimi seguaci, il prediletto Cheikh Ibrahima Fall, fu a sua volta fondatore di una costola del mouridismo (il movimento che rimanda alla Muridiya), la confraternita Baye Fall (letteralmente Padre Fall). Ed è proprio di quest’ultima che Serigne Babacar Mbow è una delle guide spirituali o marabout, in senso stretto maestro di scuola coranica.

Quando vi ritornò con la moglie, Ndem era poco più di una manciata di capanne in una zona che la siccità rendeva particolarmente inospitale, da cui i giovani fuggivano e per cercare acqua occorreva coprire molti chilometri a piedi o a dorso d’asino. Ma la tenacia visionaria di Serigne B. e Sokhna Aissa non si arrese. Non si accontentarono della pace meditativa della campagna senegalese e di un amore da cui nacque presto la primogenita di una numerosa prole. Il passo iniziale della ONG che oggi dà lavoro a circa trecento persone e che ha rivoluzionato le prospettive dell’intero circondario fu l’insediamento di un piccolo laboratorio di sartoria. Una produzione artigianale di abiti e una tenda in cui abitare accompagnati dalle immancabili preghiere, devozioni e riflessioni annotate su taccuini che nel tempo si sarebbero trasformati in libri.
Serigne Babacar Mbow racconta del miracolo di Ndem come di un’opera divina, cui assiste partecipe e sorpreso, consapevole che l’operato umano sarebbe nulla senza l’azione costante di Colui che indica spesso nei suoi scritti come il Grande Mistero.
Interessato alla figura di San Francesco d’Assisi (sono notevoli le affinità tra francescanesimo e sufismo), che sente alquanto prossima a una ricerca pur radicata in un contesto islamico, Serigne B. rimane per ore dopo il crepuscolo ad ascoltare i canti dei discepoli che innalzano nella savana silenziosa i Nomi Divini, e durante il giorno si dedica all’organizzazione del lavoro. I prodotti di Ndem, manufatti realizzati con materiale di recupero, abiti e tessuti che prevedono l’impiego di pigmenti naturali, sono venduti in Senegal, specie a Dakar, ed esportati in Europa attraverso la rete del commercio equo e solidale. Alcuni stilisti francesi collaborano con gli atelier di sartoria del villaggio creando modelli dal gusto africano e dalla portabilità internazionale. Un’invenzione recente è quella del carbone vegetale o “bioterra”, combustibile ecologico i cui ingredienti sono buccia di arachidi, scartata a tonnellate dopo la lavorazione dei raccolti locali, e argilla, abbondante nella sabbia del sahel.
Scegliendo di vivere in un luogo così remoto, Serigne B. e signora pensavano di ritirarsi in solitaria pace spirituale, ma dopo circa vent’anni da quei primi passi hanno dovuto ricredersi e ora sono protagonisti di una nuova grande scommessa: quella di tenere in equilibrio sviluppo sociale e radici tradizionali, lavoro metodico ed esercizio spirituale. Si tratta del resto di un precetto alla base della confraternita Baye Fall, il cui ispiratore Cheikh Ibrahima Fall predicò la sottomissione totale all’Onnipotente attraverso un costante impegno nel mondo.

laboratorio di sartoria a Ndem

L’Islam, nel percorso di elevazione e avvicinamento a Dio, non prevede un sistematico isolamento di stampo monastico. Il cercatore spirituale può trascorrere periodi anche lunghi di ritiro ascetico, ma la sua strada tende a un ritorno tra gli uomini per mettere al loro servizio i propri tesori. La pace del cuore è una perla nascosta sotto la serena efficienza, custodita dalla pazienza, dal controllo delle emozioni, da una visione delle cose, degli esseri e dell’universo conforme al grande quadro della Rivelazione.
A Ndem, dove questa serena operosità è tangibile, senti il nome di Dio glorificato nel vivo di laboratori in cui batte il martello, sotto pergolati dove le donne immergono tessuti nelle tinture e altri mourid tagliano, modellano e azionano telai artigianali con movimenti che si ripetono come devozioni fatte di carne, muscoli e nervi.
All’interno della daara, lo “spazio consacrato a Dio”, la dimora della famiglia di Serigne con annessi nuclei abitativi per discepoli e ospiti, ci sono recinti dove si allevano montoni, capre, anatre, pollame, pavoni, asini, cavalli. La sabbia è costantemente spazzata come in un salotto all’aperto, le aiuole accudite, la natura rispettata come è giusto che sia. Accanto alle macchie di cespugli più bassi crescono limoni, acacie, eucalipti. Si è creata una specie di oasi in mezzo alla pianura gialla di sabbia e di stoppie. Un pozzo attinge acqua buona e potabile a circa ottanta metri di profondità. Per l’armonia generale, Serigne B. invita a costruire case di un solo piano. Dove si è potuto installarli, ci sono pannelli solari.
La sera, gruppi di bambini e adolescenti intonano regolarmente le Khassida, i poemi mistici di Cheikh Ahmadou Bamba. Il rituale segreto della confraternita Baye Fall consiste in uno dhikr, ricordo o menzione del Nome di Dio, che si pratica in gruppo, componendo un cerchio rotante e intonando la formula sacra fino all’abbandono dell’identità personale nella glorificazione dell’Altissimo, per ore e ore e per un tempo che specie la notte perde la sua scansione usuale sconfinando nella mistica adorazione.
Capita di incontrare a Ndem rinomati teatranti europei, cooperanti di varia nazionalità, agronomi che mettono a punto progetti pilota, curiosi amici di amici: una convivenza di esperienze diverse, musulmani e non, cattolici, uomini di fede e laici, un popolo vario unito da un codice non detto ma limpidamente osservato, una regola di rispetto e attenzioni reciproche. Non c’è bisogno di difendere un’identità specifica. Ciò che vale si protegge da sé. Il mourid o baye fall si rimette all’Eterno, consacra il proprio operato al Creatore inserendosi nel quadro di un’Opera cui partecipa nella misura fissata dal proprio destino.
A Ndem si impara che Islam significa abbandonarsi (aslama) a Dio nella pace (salam), e che jihad, nel suo senso autentico e depurato da vizi propagandistici, significa sforzo verso la liberazione dall’ego, dalle pulsioni individualistiche che precipitano l’essere umano nell’inestricabile disordine materiale.
L’estremo rispetto e i frequenti ossequi che i membri della comunità manifestano nei confronti della loro guida non è sottomissione a un’autorità umana, e neppure divinizzazione di un semplice essere umano. L’atteggiamento di sommesso riguardo rivolto a Serigne Babacar esprime gratitudine per un influsso concreto e benevolo, una presenza efficace che è al tempo stesso una porta allegorica, un essere fraterno che facilita l’accesso all’universo spirituale e quindi il contatto con l’Essere Supremo.
La grazia di chiunque porti la pace è una realtà luminosa. Comunica nel silenzio. Anche il critico peggiore o il migliore avvocato del diavolo ne avvertirebbero l’influenza.

Ogni domenica mattina, accompagnati dal suono dei tamburi, i giovani del villaggio escono in battuta di caccia nella savana.
Se non è assente per altri lavori, in testa alla comitiva c’è Serigne Babacar Mbow.
Ore 9. E’ aperta la caccia al rifiuto di plastica. Sacchetti trasportati dal vento in ogni direzione di questa piana sconfinata: un flagello per l’ambiente e gli animali che se ne possono nutrire.
Il riverito marabout, esempio di umile servizio, si china prima degli altri per custodire nel migliore modo possibile il mondo che il Signore gli ha affidato per viverci.
Il sole alza la mira e il sudore inizia a inumidire la fronte. Uno scoiattolo scarta pochi passi più avanti e si inerpica lungo la ripida acacia.

La forma degli Angeli che si librano in Cielo è quella del bue; allontanati dallo sviamento! / Gli Angeli sotto di essi sono come procellarie e quelli che seguono come avvoltoi; non v’è il minimo dubbio! / Gli Angeli sotto questi ultimi sono come cavalli, e dopo di loro, caro compagno, vengono gli Angeli somiglianti alle Uri! / E’ quindi la volta degli Angeli della sesta sfera celeste, creati, secondo comune opinione, a immagine dei figli di Adamo. / Ci sono veli, fratello, che coprono moltitudini angeliche di una grande varietà.

Mi tornano in mente questi versi appena tradotti di Cheikh Ahmadou Bamba, che sembrano la trasformazione del mondo in un universo animato, la configurazione mistica del mondo terrestre.
Era in luoghi simili, mi piace immaginare proprio in questi, che il santo meditava fino a spalancare l’occhio interiore sul Mondo Celeste, fino a svelare il mistero che pervade ovunque questo oceano di forme.
Intanto, dall’altra parte del cosmo o a un passo da qui, altri uomini sono pronti a scannarsi, accecati nei bassifondi della loro natura dove prospera l’odio, la vendetta, il rancore mortale. Stupisce con sempre maggiore chiarezza il loro ostinato piacere di gratificazioni istantanee, l’impressionante costo umano della malefica ignoranza. Stupisce ancora più forte da qui, da questo lontano angolo di terra africana, dove senti che si può vivere smettendo di fingere che non si scivoli tutti, sempre e in ogni più piccolo istante, nell’infinito. Nel mio scarto breve e imprevisto di ribellione voglio urlarlo alla tracotanza delle chimere, all’ingordigia dei potenti accecati.
Poi il sussulto si stempera. Di nuovo la pazienza. L’aura del luogo è più forte.
Sono giunto la prima volta di notte e mi allontano la mattina molto presto, rosari che pendono dalle dita e un frullare di uccelli simili a passeri tra i cespugli spinosi in attesa dell’acqua.
Per tre mesi all’anno, il paesaggio arido e piatto si trasforma in campi verdi di miglio e bissap. L’orizzonte si stringe, la vertigine è all’improvviso domestica, un immenso cortile di spighe e mietitori che si avvicinano.
I mesi di agosto, settembre, ottobre, poi di nuovo la ciclica sospensione e la terra che beve ogni goccia residua.
Resta l’acqua dei pozzi e le gocce di sudore che seminano il verde del Paradiso.

(Vincenzo Maria Oreggia)

domenica 4 settembre 2011

La testimonianza di Vittorio Arrigoni, attivista per i diritti umani rapito e ucciso nella striscia di Gaza il 15 aprile 2011

http://english.aljazeera.net/programmes/aljazeeraworld/2011/06/201162975140291805.html

KNUD RASMUSSEN - IL GRANDE VIAGGIO IN SLITTA


Minuscoli insediamenti sparsi nelle immense terre ghiacciate, una manciata di igloo in cui vivono uomini primitivi e giocosi che dietro le prime diffidenze nascondono “l’ampio sorriso e l’animo aperto, docile”: un popolo, quello degli eschimesi, cui Knud Rasmussen si avvicinò nei primi decenni del Novecento, quando il contatto con l’uomo bianco non ne aveva ancora sovvertito la cultura. Il grande esploratore polare nacque in un villaggio della Groenlandia nel 1879. Figlio del pastore locale e della figlia del responsabile della colonia, prima di essere mandato a studiare in Danimarca apprese le arti e la lingua locali, coltivando fin da piccolo il sogno delle grandi avventure sulle mitiche slitte trainate da cani. Le esplorazioni vere e proprie iniziarono nel 1912 con una serie di viaggi indicati come Spedizioni Thule, dal nome della stazione commerciale fondata insieme a un amico. Il resoconto della V Spedizione, la più lunga e impegnativa, durata dal 1921 al 1924, diede origine a migliaia di pagine di appunti e resoconti scientifici, la cui versione sintetica e divulgativa, edita nel 1932 un anno prima della prematura scomparsa dell’esploratore, venne tradotta con successo in diverse lingue e soltanto ora, dopo circa ottant’anni, in italiano. Rasmussen coprì un tragitto di 18.000 chilometri, dalla Groenlandia fino all’estrema punta orientale dell’Unione Sovietica, passando attraverso l’estremo nord del Canada e dell’Alaska, accompagnato da un piccolo gruppo di assistenti scientifici: cartografi, naturalisti, etnografi e archeologi. Al termine dell’impresa riportò in Danimarca 20.000 oggetti affidati alla Raccolta Etnografica del Nationalmuseet di Copenaghen, utensili d’uso comune, vestiti, feticci, amuleti e una quantità di svariati reperti che accanto alle esperienze trascritte costituiscono strumenti preziosi per avvicinare un popolo dalle consuetudini talora cruente che si associano a un’ingenua e sfrenata ilarità. Rasmussen fotografa quadri di vita e annota leggende, storie tramandate da secoli, senza accusare con moralistica indignazione neppure la pratica di sopprimere le neonate figlie femmine che graverebbero inutilmente sull’economia familiare o l’abitudine di sterminare con una certa leggerezza i rivali amorosi. Benché ancorati a logiche in apparenza selvagge, indissociabili dall’asprezza dei contesti in cui vivono, gli eschimesi con cui comunica in lingua madre il viaggiatore danese dimostrano raffinate abilità pratiche, un ricco sistema di credenze e una dimensione spirituale fondata in primo luogo sui saperi e sui poteri degli sciamani. Intermediari tra il mondo degli uomini e quello degli spiriti, questi custodi di segreti soprannaturali sono gli autentici regolatori degli squilibri sociali e naturali. Dopo aver dialogato, durante i loro viaggi estatici, con le entità invisibili, comandano i sacrifici adatti a placare le tempeste, a propiziarsi una caccia fruttuosa o a guarire malattie causate da colpe inconfessate di alcuni membri della comunità. Le diverse abitudini delle comunità costiere e di quelle stanziate nei territori interni hanno spesso origine nei diversi tipi di prede che assicurano il sostentamento. Minuziosi e segnati da un autentico talento narrativo sono i racconti della caccia alla renna, al tricheco, al salmone e alla foca attraverso i fori di respirazione aperti nella coltre di ghiaccio: esercizi di astuzia e mirabile pazienza che possono protrarsi un’intera giornata a temperature che scendono decine di gradi sotto lo zero. Non meno sorprendenti si mostrano allo sguardo vergine di Rasmussen la perizia costruttiva degli eschimesi nel realizzare accampamenti di igloo o la loro spiccata propensione al canto che si traduce in feste notturne con accompagnamento di tamburi, ritmi e grida che ricordano imprese memorabili, evocano il mondo dei trapassati o gettano mistici ponti verso un pantheon di insaziabili spiriti.    

 Knud Rasmussen in compagnia di un eschimese