Ian
Holding, che vive e lavora ad Harare, in Zimbabwe, si è ispirato alla storia di un suo allievo per raccontare in forma di romanzo il disastro sociale
del proprio paese, le efferatezze e i saccheggi che hanno marcato la vicenda
post-coloniale. Lo ha fatto con una capacità di scrittura che l’ha posto tra i
finalisti del Dylan Thomas Prize e con l’onestà di spartire le responsabilità
dei crimini tra bianchi e neri, mostrando tutta la bruta violenza che ammorba
entrambe le comunità. Lo Zimbabwe è travestito da nazione senza nome, una
specie di Stato esemplare, modello di tante simili situazioni africane. Davey è
un adolescente cui una banda di sicari massacra i genitori Leigh e Joe Baker,
agricoltori bianchi insediati da generazioni nella fiorente fattoria di
Edenfields. Mandante dell’omicidio e dello scempio dei corpi è una volgare
politicante nera, dispotica accaparratrice che si arroga il diritto di
appropriarsi della terra senza curarsi di nessuna legge. Edenfields diventa
così il campione di un quadro generale in cui gruppi di potere corrotti si
scagliano sui fattori per strappare loro vaste proprietà che da granai del
paese si trasformano presto in campi trascurati. Il racconto della tragedia
sociale, causata dalla spropositata quanto strumentalizzata reazione al
razzismo bianco, passa attraverso il dramma individuale di Davey, segnato a
vita dall’esperienza di una crudeltà straordinaria. La zia Marsha che tenta di
assisterlo giunge a pensare che per lui sarebbe stato meglio scomparire insieme
ai genitori. L’elaborazione e le metamorfosi successive del dolore sono
riferite con grande intuito psicologico dallo scrittore-insegnante. Dalla
gelida apatia del ragazzo traumatizzato a una forma di masochismo
compensatorio; dall’assunzione smodata di alcol e droghe alla trasformazione
del sesso femminile in “una cavità umida in cui riversare il proprio odio come
una nave cisterna che vomiti morchia.” Si tratta di un notevole climax che
passando attraverso il torbido piacere provato nell’ammazzare un coniglio
approda alla pulsione omicida che farà di Davey un vendicatore spietato. Il
romanzo sviluppa attorno al nucleo della vicenda digressioni che completano
l’affresco del dissimulato Zimbabwe allo sfascio. I sacchi da obitorio
riciclati in cui sono avvolti Leigh e Joe, la trama di battute e atteggiamenti
razzisti della ristretta comunità dei proprietari terrieri, l’incongruo
servizio sulla rivista “Garden and Home” interessata al grazioso giardino di zia
Marsha o la musica classica che inonda le verande coloniche, sono tasselli
stridenti ma verosimili di un libro che precipita verso una disfacimento
collettivo e privato. La lunga strada che Davey copre a piedi per compiere la
sua vendetta è un’ulteriore iniziazione all’orrore inframmezzata da qualche
ingannevole respiro bucolico. Tra gli incontri c’è quello di un vecchio
ritirato in una capanna dalla vista magnifica che sotto un genuino anelito
spirituale cova l’infondata speranza di diventare un agricoltore. Poco lontano
da lui alcuni ragazzi scheletrici saccheggiano la marcescente carcassa di un
bufalo nella savana e una coppia di bianchi alcolizzati sopravvivono a loro
stessi torturandosi a vicenda. Il villaggio dove alcuni soldati irregolari
trascinano Davey viene messo a ferro e fuoco. Immobilizzato e picchiato, il
giovane bianco assiste ad atroci violenze. Prima di sfuggire alla mattanza
scorge il cranio di un uomo sfondato a bastonate che ha in bocca il pene reciso
del suo bambino. Siamo al road movie dell’orrore africano, immagini
rabbrividenti dal mondo insensibile che una buona letteratura a tinte
fortissime sa raccontare. Tra la legittima rivendicazione di uguaglianza e
autonomia e lo sfogo di un sentimento di rabbia fomentato da neri incapaci il
cui obiettivo sono i benefici del potere corre un filo sottile che Holding
esplora dal cuore dell’Africa.
Ian Holding
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