VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

lunedì 21 dicembre 2015

OI. PENSANDOTI LONTANA


Per prima cosa mi è venuto da digitare oi. Oi come il male dolce che mi fa pensare a lei lontana, lei che sbatte gli occhi e li richiude, lei che sopporta e agisce per volontà di specie, per volontà di sangue, per volontà di cuore. Di necessità, soltanto. Oggi - l’attenzione era moltiplicata visto il pensiero ricorrente a lei - ho visto issare malamente un cane, qui, in una via africana, issarlo su per il collare da un incosciente che guidava un carretto trainato da un cavallo. Ho avvicinato l’incosciente e l’ho redarguito, inutilmente, forse, ma l’ho fatto, ricorrendo pure all’Islam e confidando in quel residuo di coscienza che può sollecitare il nocciolo di bene delle religioni. Gli ho detto che il Profeta fece spostare la direzione di un esercito per non disturbare una cagna che allattava. Gli avrei voluto dire anche che a un uomo è toccato il Paradiso per avere dato acqua a un cane assetato. Ogni istante di bontà è il Paradiso, avrei voluto aggiungere, se solo avessi avuto tempo e comprensione. Ogni attimo di dono è una parte di sé che si sposta in alto. Che sfugge, altissima, alla prigione. Se solo lo avesse capito. Ma spero che almeno lui, il cane intendo, stia un po’ meglio. Era malato, per giunta, ferito come di una rogna tutto intorno alle orecchie. Scrivo di questo perché mi addolora e mi commuove pensare a lei, appunto, la mia diciassettenne a quattro zampe che non se la sta passando proprio bene. La sua anima, che partecipa dell’anima di chi ne ha condiviso umori, giochi, giornate, vacanze ma anche solo piccoli momenti di compagnia: la sua anima, immagino, a quest’ora starà dormendo in cuccia, acciambellata, trasognata, indaffarata con quel notturno sibilo mentale che porta immagini e pensieri, visioni agli uomini quanto agli animali. Anima che è cosa estesa, multiforme: campo in cui si entra vivendo solamente. E se si muore l’anima svapora, trascolora, trasmigra e non scompare. Se ne va, se ne gira, flirta coi ricordi. Resta sempre anche dove non ci siamo. E’ più del corpo, ed è il suo frutto. Il frutto e il duplicato delle gesta, l’impronta dei viventi, degli andati. Solo un salto, volevo fare - per questo, forse, sono giunto fino a qui - dall’altra parte del Sahara e del Mediterraneo, oltre gli Appennini, e discendere sulla costa marchigiana per portare, qualunque e comunque valga, la benedizione che chiedo questa notte al mio Signore. Che scenda sulla casa, e come spero vi importi almeno un poco anche su di voi, sulle case di noi tutti. E se non importa non importa, scenderà o non scenderà comunque. Qualunque cosa sia, sappiate o non sappiate, offro questo a lei, Daisy, e insieme a tutti, a tutte, alle notti coi vitelli nei campi collinari, alle fragole nascoste nel fogliame dove non è ancora inverno, a chi fa un amore appassionato e disperato e a chi dorme nelle braccia di sua madre. E a chi dorme solo, certo, cullato dall’invisibile sfera degli assenti. A tutti. A tutto. E dico Amen. Amen. 

Daisy

domenica 30 agosto 2015

PETER HANDKE - SAGGIO SUL CERCATORE DI FUNGHI - GUANDA 2015


Uno scrittore che vive solitario in un paesaggio di colline e steppe tra Parigi e il mare che lambisce Dieppe si incuriosisce allo strano caso umano di un vecchio amico, nato e cresciuto nel suo stesso villaggio, che giunto alla piena maturità dell’esistenza rispolvera una lontana passione giovanile per i funghi e ne diviene ben presto un appassionato cercatore, sempre più dedito e ossessivo nelle sue indagini tra il folto dei boschi, i sentieri e i prati delle radure fino a lasciar defluire tutto il resto, famiglia, professione e anche le proprie decorose apparenze, in un secondo piano sempre più oscurato da una pulsione irrefrenabile che potremmo collocare a metà strada tra la malattia mentale e l’illuminazione ascetica. Ecco il territorio in cui si muove Pater Handke in questa specie di favola metafisica al cui centro sta un personaggio che fin dai tempi dell’adolescenza, molto prima di divenire un noto avvocato impegnato in tribunali internazionali e quindi di naufragare nel suo balzano amore per i porcini, dà segnali di uno squilibrio che lo allontana e lo distingue dalla comune gente. Il folgorato cercatore ha oscillato fin da giovane tra presenza e assenza, toccato da una svagatezza che era in realtà naturale dimestichezza con un altrove percepito come naturale approdo, destino di una ricerca che gli avrebbe fatto inevitabilmente sentire stretti i panni del professionista, del marito e del padre. Una percezione della distanza da sé, quella che cresce nel protagonista del saggio narrativo del settantatreenne scrittore austriaco, simile a un senso di coscienza accentuato che anziché avviarlo alla dispersione o a una meditazione astratta lo avvia alla concentrazione massima su un esclusivo oggetto del desiderio: un esercizio di sempre più dettagliata individuazione delle forme consentito dall’esame approfondito del porcino, che diverrà per lui scuola di olfatto, di tatto, scoperta di colori e sfumature, di ambienti propizi e luoghi riparati, di tutto un universo negletto e misterioso che gravita attorno a questa nobile creatura appartenente al celebre regno separato. L’avvocato di grido che volta le spalle a tutto un ambiente umano che reputa ormai meschino e stupito accoglie come un eterno assetato i segreti bagliori di conoscenza che rifrangono le spesso neglette divinità del sottobosco e coltiva il progetto di un libro che non porterà mai a termine e che l’estensore della sua storia ricostruirà per frammenti, in base a scarne testimonianze e saltuarie confidenze dell’amico. Avrebbe dovuto essere, l’immaginario trattato, un grande omaggio a questa “forma di eternità” in cui si sostanziano la spedizioni boschive e dove i funghi si trasformano in una sorta di “ultimo luogo selvaggio”. Propositi che procedono di pari passo con un delirio terrestre e spirituale, l’avventura di un anarchico eroe che dopo avere votato buona parte della vita all’insolita causa del meraviglioso porcino torna più o meno in sé e viene a far visita all’appartato estensore della sua storia. Un finale come un risveglio da una favola che spezza le illusorie catene di ogni convenzione realistica.  

Peter Handke
          

domenica 7 giugno 2015

UNA MIA POESIA NELL'ANTOLOGIA DELL'OTTAVO CONCORSO DELL'ASSOCIAZIONE TAPIRULAN


ULTIMO SBARCO


Produsse una data nuova di zecca,/
ottobre, per divulgare il solito strazio./
Se la legge non è uguale per tutti,/
in questo tuttavia appariva invariabile,/
solcando equamente mari in bufera,/
bonacce, moti ondosi in aumento/
o attenuazione tra isola e costa africana./

Lettiga in passaggio furtivo,/
pance in attesa,/
un paio di vecchi sdentati/
e nulla di lontanamente ammissibile/
a smorzare l’effetto,/
puntuale per la consegna alle stampe,/
dell’orda stagnante tra la poppa e la prua./

Perfino un bue e un asinello/
soffiavano in fondo alla pagina,/
un Cristo moriva per tutti/
e alla Vergine non rimaneva che piangere,/
stampata tra necrologi commossi,/
gli svariati caduti dell’ultimo sbarco./  

Nessuno, però, nonostante le suppliche,/
che si fosse deciso a risorgere./ 

venerdì 27 febbraio 2015

TAYE SELASI - LA BELLEZZA DELLE COSE FRAGILI - Einaudi 2015




Madre nigeriana e padre ghanese, nata a Londra e cresciuta negli Stati Uniti, attualmente residente a Roma, Taye Selasi, fotografa oltre che notevole scrittrice, traccia in questo suo romanzo il quadro di una famiglia - in modo parzialmente autobiografico la propria - di origini africane e nazionalità americana: madre e padre immigrati e quattro figli nati in Occidente. La partenza è un lutto, la morte per arresto cardiaco di Kweku Sai, abile chirurgo che molti anni prima abbandona improvvisamente la famiglia e gli Stati Uniti per tornare al Paese natale, nella capitale Accra, sistemandosi poi in una solitaria abitazione progettata e costruita insieme all’ascetico falegname Lamptey sulla riva dell’Atlantico. A motivare il gesto un licenziamento ingiusto, a sfondo razzista, dall’ospedale in cui lavora, e la conseguente consapevolezza di ritrovarsi fallito, incapace di soddisfare le attese e le ambizioni dei suoi cari. Ma l’inquieto animo di Kweku risponde a ragioni più profonde, a un’instabilità che ha a che fare soprattutto con le sue radici, con un labirinto di complessi e discriminazioni, con quel continuo stare in bilico tra universi culturali e modalità affettive differenti, capaci di trasformare esseri umani che tentano di radicarsi lontano dalla propria terra in ansiosi nomadi con patrie fittizie e incolmabili vuoti interiori. Ognuno reagisce allo shock in modo diverso, secondo il carattere e le esperienze individuali, che pure all’interno di uno stesso nucleo familiare si rivelano distanti. Folásadé Savage, ovvero Fola, la bellissima moglie amata e abbandonata, deve incarnare la difficile parte della madre sola, per cui si sente impreparata, che la spinge verso pericolose scelte di abbandono. E come un ventaglio di casi umani illuminati dalla precoce sofferenza del distacco si delineano, grazie all’implacabile scavo psicologico della Selasi - stile nervoso, senza ridondanze, capace di registrare i minimi sommovimenti interiori, secondo una tradizione letteraria che annovera tra i suoi maestri Toni Morrison e Salman Rushdie -, le personalità dei quattro prodigiosi frutti dell’interrotto amore coniugale. Olu ha seguito fedelmente le orme professionali del padre assente: dotato medico anche lui che però nasconde nella sua rigidità scientifica una fragilità sulle difensive, permeabile a insospettati cedimenti. Sadie, l’ultima arrivata, non ha mai sconfitto il complesso dell’esclusa, della più brutta e priva di spiccate qualità di fronte alla brillantezza dei fratelli, e soltanto al termine di un lungo processo di espiazione, culminante in una danza iniziatica e rivelatrice intercettata in un villaggio ghanese, ritrova il cuore generoso della propria identità. In mezzo ci sono i due gemelli: Taiwo, seducente e talentuosa, amante clandestina del preside della facoltà di Legge della Columbia, e il grande artista Kehinde, rinato e perso nel mondo delle sue visioni, delicatissimo e sapiente, in fuga da una fama ormai internazionale: entrambi, Taiwo e Kehinde, vittime, nella prima adolescenza, di abusi sessuali perpetrati dallo zio Femi, drogato criminale cui Fola, per una breve stagione maledetta, li aveva incautamente affidati. E attorno al vortice di queste trepide esistenze, che si chiariscono sempre meglio nella progressione del romanzo attraverso una serie di intense epifanie, continua a ruotare il lutto del padre, fino alla conclusiva cerimonia funebre, in cui il luogo delle origini, quel Continente africano osservato dalla posizione dolente e privilegiata della diaspora, diventa centro e punto di partenza verso nuovi, forse più clementi, capitoli di vita.  

Taye Selasi

venerdì 6 febbraio 2015

PAUL AUSTER - DIARIO D'INVERNO - EINAUDI 2015



Giunto alla soglia della vecchiaia, Paul Auster decide di compiere un viaggio attraverso il proprio corpo, un’ampia e rabdomantica ricognizione attorno alla sua vita di sessantaquattrenne che prende le mosse dai segni depositati nella carne, da quel vestibolo terrestre che con il tempo può trasformarsi in una cartina tornasole dei patimenti e delle gioie dell’anima di un uomo. Questa la chiave di un diario che ha spesso il sapore di una spregiudicata confessione, uno dei libri più belli e anomali dello scrittore americano, che si muove avanti e indietro nel territorio virtualmente sconfinato delle memorie personali tracciando un quadro autobiografico che è anche il racconto di una formazione artistica e di una progressiva iniziazione ai misteri della morte e del destino. Ci sono esperienze che Auster ritrova nel passato più lontano, come quelle del giovanile soggiorno parigino, del rapporto sfibrato e ricucito a più riprese con la prima moglie o degli alti e bassi di una bohème costellata di speranze e di amarezze: peregrinazioni tra povere soffitte, lunghi periodi di solitudine e incontri sorprendenti, tra i quali, memorabile, quello con la spassionata prostituta Sandra, che recita versi di Baudelaire e illustra con incantevole pazienza al giovane scrittore l’intero Kamasutra di rue Saint-Denis. Se la scrittura del Diario, in questi casi, è stimolata dalla rievocazione di attimi salienti del passato, senza un nesso così forte con le tracce depositate nella carne, altrove è direttamente il corpo a trasformarsi in una vera e propria mappa capace di guidare a luoghi e fatti anche rimossi. “Ogni volta che arrivi a un bivio il tuo corpo cede, perché il tuo corpo ha sempre saputo quello che la tua mente non sa”. Una cicatrice sul volto riconduce all’infanzia, ai giochi e alle competizioni sportive dell’adolescenza, all’universo misterioso e trepidante delle prime avventure allo scoperto, dei soccorsi e delle premure materne; le gravi crisi di panico di cui ha sofferto lo scrittore in età adulta sono state risposte a traumi e lutti di fronte a cui le lacrime restavano bloccate alimentando crescenti tensioni interiori destinate a esplodere. Il ventaglio aperto delle radici familiari conduce Auster a un’indagine che si arresta ai quattro nonni ebrei dell’Europa orientale; oltre è l’insondabile “melting pot di tante civiltà in conflitto in un unico corpo”. Si tratta di un complesso quadro originario che diventa “una posizione morale, un modo per eliminare la questione della razza, che secondo te è una domanda fasulla, una domanda che può solo disonorare chi la pone, e perciò hai deciso di essere tutti e ognuno, di abbracciare tutti dentro di te per essere te stesso in un modo più pieno e libero, in quanto chi tu sia è un mistero e non speri che sarà mai risolto.” I dolori e l’intensità del libro crescono fino a toccare il vertice quando il racconto si concentra sulla figura della madre: sul suo primo, infelice matrimonio, sulla scomparsa tragica e improvvisa del secondo marito e sulle continue oscillazioni tra inquietudine, vanità e generosa brillantezza, fino alla morte, anch’essa inattesa e repentina. La malattia e la morte. Il deperimento e la scomparsa al termine di lancinanti sofferenze. Quest’opera di Auster, pur non mancando di ironia e momenti di trasparente levità, si rivela implacabile nel registrare i segni dell’estenuante marcia verso l’estinzione, come nel caso della terribile fine pel SLA della nonna materna. Un’opera che ubbidendo alla sua vena rabdomantica abbraccia un panorama di temi assai diversi e diviene infine  meditazione sulla natura stessa dello scrivere: nient’altro, nel profondo, che un’espressione della musica del corpo.


Paul Auster