Franco
Arminio è poeta che scioglie i suoi versi in una prosa aperta come un ventaglio
di sguardi, percezioni, intuizioni. Un pensare rapido e incisivo, il sentimento
di un nomade che rimane tale pur viaggiando in terra propria, con la sua
affezione per quel che accarezza da vicino e scruta dal cannocchiale della
lontananza irrimediabile. Il cantore della sua terra irpina e di tutto il
nostro intenso, ferito, sorprendente meridione, si aggira concentrato e
distratto come un nostalgico della pienezza cui è dato di gustarla solo se
intercettata quasi per errore, bandendo ogni volontà di appropriazione, dopo
lunghi corteggiamenti o per effetto di un’amorosa folgorazione, comunque al di
là di verbosi esercizi e studiati appostamenti. La poesia, “il nesso più
potente tra le parole e le cose”, è la sola pratica di salvezza per lo
scrittore di Bisaccia: poesia come sguardo liberato, vibrante di un candore che
sa leggere le cose senza anteporvi i cascami dello scrupolo raziocinante e dei
saperi specialistici; senza ingessare l’anima dei luoghi dietro l’appropriazione
sproloquiante del cattivo politico o del becchino laureato che sotterra il
mondo sotto profluvi di statistiche. Leggere Arminio è respirare un’aria nuova,
intuire una possibilità, una preziosa chance offerta a questa Penisola sfiatata.
Il rimedio per salvare un’Italia perduta in derive sconcertanti è un balsamo interiore
che curi il nostro intero modo di essere uomini: medicina che riscatti
dall’incuria distratta di una modernità bugiarda che chiama progresso
un’inquietante arretratezza culturale e spirituale. Geografia commossa dell’Italia interna è un vademecum per liberi cercatori
e rivoluzionari che invaderebbero di poeti il Parlamento, rigenerando quei convegni
di sonnambuli e ciarlatani lautamente rimpinzati con la partecipazione di uomini
dalle visioni articolate e pure. In mezzo a tanti libri prevedibili e indigesti,
questo di Arminio è un eccentrico regalo, un arioso zibaldone contaminato
ovunque da una forma di particolare grazia. “Ogni sera in televisione si parla
della crisi e invece bisognerebbe parlare del sacro.” Lo scrittore e poeta ha
fame inarrestabile di verità semplici, chiare, verrebbe ormai da dire antiche:
di una vita interiore che manca sempre di più in questi giorni cocciutamente
diretti nel verso sbagliato. Arminio, per realizzare reportage che sono
racconti o versi dissimulati in narrazioni brevi, corre tra i mille cuori della
geografia peninsulare, bazzicando territori negletti, desolati, in cui si
spalancano all’improvviso bellezze struggenti, in mezzo a gente oppressa da
cataclismi e bugie - l’Aquila, l’Emilia dei terremoti -, chiamata a riconquistare
insieme alle pareti infrante il dolce peso dei propri ricordi. C’è un
socialismo dell’anima in queste pagine, un desiderio di incontro e rinnovo di
comunità che spinge alla compassione, alla partecipazione ai guai altrui; un
insistere nell’alveo di una familiarità millenaria da rinverdire accogliendola con
tutti i sensi, da far vibrare dentro il corpo, rifuggendo il solito pietismo
parolaio. Ancorato al suo sud, che diventa meridione nostro e universale, baricentro
e garanzia di sostanza, terra e sangue, il poeta rabdomante, fondatore di una
scienza concreta e amorosa, battezzata come in un patafisico e concretissimo
gioco paesologia, gira per l’Italia
attivandosi come un demone buono anche in rete, diffondendo attraverso Facebook
il suo lavoro, lanciando messaggi di carnale intimità nell’asettico ambiente
dei social network. Rimarca così le tappe dei suoi incontri in centinai di comuni
grandi ma soprattutto piccoli o piccolissimi, manciate di case e piazze
provinciali: appuntamenti cui fa partecipe una nutrita schiera di fedeli amanti
ma prima di tutto complici di un sovversivo progetto umanistico. E’ un’idea di vitalità
poetica che eccede ogni margine imposto e invade questo universo di plastica e
vuoto pneumatico in cui ci siamo conficcati: un soffio di energia sobillatrice
e risolutrice, scomoda e pacifica, utopia in movimento, pensiero minoritario e
contagioso, oggi più che mai necessario. “Intrecciare politica e poesia,
economia e cultura, scrupolo e utopia.” Ecco la direzione della Geografia commossa, che avverte, indica,
eleva: intensa e girovaga, leggera e saettante, facendo pensare qualche volta
al nomadismo terrestre e celeste di un Walser o di un Keller, con una gravità
però di riflessione aggiunta, da speculatore orfico o saggio ammonitore dei
tempi ultimi, originale intreccio che concilia “confliggere e contemplare”, ”ardore
e malinconia”, “Pasolini e Walser” appunto, “due cose che non sono mai state
insieme”, come suggerisce Arminio stesso, riunite entrambe attorno a focolari
di un’Italia ricercata nella sua verità più nuda e forte, tra domestiche mura
di donne e uomini colmi di sofferenza e amore, ambienti di vini scuri, nutrienti,
latte munto da animali che brucano spargendosi, pura acqua corrente e pane tolto
da forni che si direbbero ancora impastati d’argilla. “Non aspettarti niente da
nessuno. E se vuoi aspettarti qualcosa, aspettati l’immenso e l’inaudito. E
chiedilo, metti in ansia gli indifferenti, metti a disagio i tranquilli,
spogliati, metti le costole sul tavolo, butta il cuore nel cestino, lascia che
la tua lingua si affacci alla finestra. Qualcuno verrà a baciarla, oppure sarà
cibo per gli uccelli.” Brucia davvero, Franco Arminio, e noi con lui, di
commozione, mentre leggiamo le sue pagine.
Franco Arminio