I temi maggiori della narrativa di Philip Roth sono già presenti in questo romanzo risalente al 1986 e pubblicato solo ora in Italia. Il genio del prolifico scrittore statunitense, autore di capolavori quali Pastorale americana, Il teatro di Sabbath o La macchia umana, sembra trarre la propria forza da una costante interrogazione sull’evanescenza dell’identità individuale e sulla necessità di un’eroica quanto fallimentare ribellione all’ipocrisia collettiva. I protagonisti dei suoi romanzi sono uomini assediati da mortifere convenzioni e avidi di una linfa vitale che cercano nella parte più eversiva di se stessi, ovvero nell’eros e in uno spasmodico attaccamento al piacere fisico, a congiungimenti e passioni carnali dal disperato sapore mistico, labili avamposti nel dominio assoluto delle tenebre. Roth è il grande interprete di un laicismo ostinato, irridente, che vede nel religioso piegarsi a un’artefatta entità superiore l’espressione più vergognosa dell’intelligenza umana, la resa a un conforto meschino cui le sue creature oppongono forme di resistenza drammatiche quanto affascinanti. E se a tutto ciò si aggiunge il sentimento di una sradicata, eclettica identità ebraica, il quadro umano in cui si muove lo scrittore appare quello di una prometeica sfida all’impossibile, un ribollente contesto esistenziale in cui la legge della precarietà demolisce colpo su colpo ogni tentativo di coraggiosa ribellione. Superstite consolazione è la memoria, l’incanto oscillante del passato, rifugio di immagini delicate, nostalgiche, un’infanzia e una giovinezza ebraico-americane rivissute alla stregua di un tempo mitico, un anti-tempo innalzato come un magnifico e struggente altare degli afflitti. Sono questi i momenti in cui l’alter ego dello scrittore, Nathan Zuckerman, rievoca il nido familiare da cui il fratello Henry si allontanava in stato di sonnambulismo: una rete di affetti e sapori d’epoca ai quali gli capita di tornare quasi involontariamente, per accensioni magiche che sollevano dal doloroso bailamme del presente. La Controvita è la storia di una morte e di una fuga raccontate da una doppia prospettiva, secondo una costruzione letteraria complessa, a tratti faticosa ma ricca di passaggi magistrali, all’altezza del Roth migliore, crudo e rivelatore, fustigatore e commovente, visceralmente erotico e scherzosamente pornografico, moralista scettico, irriducibile antagonista delle boriose doppiezze umane e cantore di quel consapevole gioco delle maschere che è la vita agli occhi disillusi dell’artista o dei suoi delegati immaginari. I cinque capitoli del libro sono altrettanti scenari in cui si sposta la vicenda di Henry, il fratello di Zuckerman, un uomo che potrebbe dirsi soddisfatto della propria famiglia e della professione di dentista, costretto all’impotenza da una cura prescritta dal cardiologo e che per non rinunciare ai quindici minuti di sesso con la sua assistente Wendy tenta una difficile operazione al cuore che risulterà fatale. Henry è l’eroe di uno scacco suicida a una precoce andropausa, osservato da Zuckerman come la cavia di un esperimento che esalta l’avventurosa clandestinità come alternativa al grigiore di un’esistenza depotenziata, comoda, protetta. Nel capitolo Giudea l’affermato scrittore vola in Israele sulle tracce del dentista fuggitivo che abbandona la famiglia e abbraccia anima e corpo la più fanatica causa sionista, rifugiandosi tra le colline desertiche di Agor al seguito del bellicoso nazionalista Mordecai Lippman. La questione ebraica diventa oggetto di una rappresentazione in cui agli eccessi ultranazionalistici di Lippman e compagni si oppone la figura di un ebreo che rinuncia a settarismi mondani e predilezioni geografiche, elegge per patria il semplice luogo delle proprie memorie e adotta una specie di quintessenziale coscienza ebraica molto vicina alla coscienza artistica di Nathan. In un brusco capovolgimento di prospettive, dopo avere seguito il celebre e discusso romanziere tra le tormentose delizie del suo matrimonio con una shiksa, affabile ariana anglosassone di nome Maria, la morte dello stesso Zuckerman inaugura un gioco di specchi dove il fratello-antagonista Henry è alle prese con l’imbarazzante eredità di uno scrittore che usa la sua anarchica immaginazione come “spia perspicace dei tormenti altrui”. Il romanzo di Roth, metamorfico e cerebrale come le vaniloquenti ambizioni dei suoi personaggi, finisce per narrare di se stesso e dell’esercizio a una perenne finzione come via all’unica forma di autenticità possibile. Al termine di un’accesa discussione con la nuova moglie, i toni di uno Zuckerman redivivo sembrano farsi più miti e inclini a una complice tregua. “Può darsi, come dici, che questa non sia vita, ma usa il tuo incantevole, bellissimo cervello: questa vita è la cosa più vicina alla vita che tu, e io, e nostro figlio, possiamo mai sperare di ottenere”.
Philip Roth
Segnalo l'intervista a Philip Roth disponibile sul sito Einaidi. Ecco il link:
http://www.einaudi.it/multimedia/Videointervista-a-Philip-Roth-parte-prima
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