VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

mercoledì 31 dicembre 2014

Questa poesia in ricordo dell'amica Giuliana Camilli è apparsa sull'ultimo numero della rivista UT dedicato al "Silenzio"



NDOUGOUMA                           

                                                                      nel ricordo dell’amica
                                                                                             Giuliana Camilli


Se vale ancora dirti una parola
è in questa pace che vorrei donarla
mentre astuti bradipi scalano il baobab
e dalla casa nella roccia vedo insieme
il tramonto e le famiglie affaccendarsi
di pastori con in spalla sciabole argentate
e greggi al seguito come sassi bianchi nella piana.

Il corridoio d’acqua che scende dalla mite sommità
rimane ingombro di nuvole infantili,
oblunga vertigine di cielo dove emergi
armoniosa nella voce e pensierosa nello sguardo
da cui mi guardi quando la fine sulla terra è giunta.

Sorridi ora nel fluttuare ondoso degli uccelli
ultimi di sera al seguito dei rossi, rosa e blu
meravigliosi nell’incendio sgretolato in mare.
Si apre come un tempo la tua chiacchiera
al brindisi di calici sonori nel ritrovo
immancabile al festoso diluvio dei trent’anni.

Ed è già scorsa quella vita come altre
che vivemmo e non vivemmo in beatitudine
quando nient’altro che un’idea era il lasciarsi
e il morire una congettura tenebrosa,
filosofica, soltanto, nei primi scricchiolii
di ossa ancora giovani per credere
che saluto e arrivederci non collimano
ma concorrono entrambi alla finzione
di viaggi nonostante tutto separati.

Nella brillante attualità della visione
divieni spirito che spolvera nel cielo
grani di cobalto tra le prime stelle
e voce che mi chiama in sogno
ricordando al vento le parole mute.

Cliccare I like sul post grondante lacrime
è stata l’assurda novità di un’epoca
immaginaria fino a credersi reale
nella corona instabile di amici
raccolti chissà dove in un cordoglio online.

Ma non smette di far notte sull’altura
mormorante ormai del popolo lunare:
la luna morsicata guarda a oriente
e ha voglia ancora di sgroppare la beltà
spericolata di un tardivo piccolo belier.

Hanno per nome Pigliamosche
del Paradiso o Parrocchetto dal collare
gli abitanti stretti attorno al buio
compiuto in fine di questo lembo d’Africa.

Sarò nel sonno con un pugno stretto
da cui correrai nelle mie vene
ad ogni liquida pressione, ogni respiro.


lunedì 15 settembre 2014

IN LIBRERIA IL NUOVO ARCHIVIO DI VOCI (ARCHINTO 2014)

Dal 3 settembre è in libreria la nuova edizione ampliata di "Archivio di voci", il mio viaggio nel teatro italiano in compagnia di dieci tra i maggiori autori contemporanei.


Differenti percorsi si incrociano in una personale investigazione condotta tendendo l’orecchio direttamente alle parole di registi, autori, attori, narratori di storie e poeti che hanno arricchito di contributi essenziali la nostra cultura. Motivi esistenziali e culturali, vicende private e retroterra umani dell’opera, considerazioni politiche e rivelazioni sul metodo e sullo stile, tutto ciò che gravita attorno e poi rifluisce nella creazione teatrale, si compone nella polifonica voce di un unico piccolo archivio, che vuole introdurre il lettore a una nuova visione, insieme autorevole e confidenziale, dell’arte di mettere in scena la vita. Questo Archivio si presenta arricchito di nuove voci, affiancando agli incontri con Marco Baliani, Gabriella Bartolomei, Moni Ovadia, Marco Paolini, Luca Ronconi e Giuliano Scabia, quelli con Ascanio Celestini, Mandiaye Ndiaye, Pippo Delbono e Serena Sartori.
Il teatro, con i suoi luoghi, le sue cerimonie, autori, attori e spettatori accomunati da una sola pullulante scena, è una replica del desiderio, sotterraneo, che si fa più forte nel corteggiamento, nell’amore, ma anche nelle amicizie intense, in certi prodigiosi incontri umani e naturali: un desiderio di confrontarsi, unirsi e riconoscersi per poi passare oltre e tuffarsi in un abbraccio che disintegra la prigione in cui siamo costretti abitualmente.
Le voci del nuovo Archivio ci offrono dunque un viaggio libero, refrattario ad ambiti specifici e costellato di stazioni da cui sporgersi verso un oltre condiviso: un ricercare insieme nel mistero di cui siamo costituiti, in modo che la stessa rotta, con la sua contagiosa capacità di senso, diventi a un certo punto il nostro obiettivo in divenire.

Nuova edizione ampliata

Vincenzo Maria Oreggia è nato a Milano nel 1966 e risiede a San Benedetto del Tronto, nelle Marche. Autore di romanzi, racconti, testi poetici e sceneggiature per il cinema, da circa un ventennio è appassionato cultore di teatro. Ha curato la sezione storico-critica del volume Teatri Invisibili e nuove generazioni teatrali (1999) e diretto, tra il 2001 e il 2002, il Bollettino dei Teatri Invisibili. Collabora con svariati quotidiani e riviste, pubblicando reportage, recensioni di letteratura e teatro.
Grande viaggiatore permeato da diverse culture, trascorre lunghi periodi dell’anno in Africa occidentale, con base a Dakar, in Senegal.
Tra i suoi libri: Prossimi alla conclusione (1995), Bach tra gli elefanti (2005), Pesce d’aprile a Conakry (2010) e Questa non è la mia patria (2013).
Ha inoltre realizzato i cortometraggi Dal basso (2009) e Il miracolo del pane (2013), nonché tradotto dal francese gli scritti del maestro sufi Serigne Babacar Mbow (Il Servitore del Profeta, 2011).

martedì 22 luglio 2014

SCHELETRI E FANTASMI DEL PREMIO MARIO LUZI

Dovrei essere felice di avere ottenuto una menzione in cima ai finalisti del Premio Mario Luzi, sezione poesia inedita; invece sono moderatamente amareggiato di ritrovarmi in mezzo a un’impaludata arena di giochi oscuri e di fantasmi. Brevemente i fatti. Mi iscrivo, a inizio giugno e senza indagare più di tanto, al Premio, non suggestionato dalla sbandierata di pompose garanzie ma prendendo comunque atto della storica Presidente di Giuria (Maria Luisa Spaziani, ora e da pochissimo scomparsa), di alcune firme tra i giurati (Donatella Bisutti, che salta all’occhio per la stimata militanza e quale ragionevole eccezione in un concerto di anagrafi decisamente impegnative), dell’esclusiva autorizzazione dell’erede Luzi, nonché del patrocinio del Senato della Repubblica Italiana. Un allarme, tuttavia, e a onor del vero suona, a cose fatte, ovvero a trittico inviato, da un lontano articolo postato sul blog di Loredana Lipperini in cui si stigmatizzava la desolante circostanza di un mercato online di recensioni e proposte di stampe a pagamento pubblicizzate accanto  all’Ambasciatrice del Premio Carla Fracci, al nostro apprezzabile Senato, e al Fondatore e Direttore Mattia Leombruno, su marioluzi.it . E a conferma di un sentore non buonissimo ricevo in puntuale coincidenza una telefonata dalla Casa Editrice Pagine (anche qui, invitante e collegato, un Premio di poesia) con la proposta - dietro contributo di soli, suppergiù, 70 euro - dell’inserimento in una ovviamente prestigiosa antologia: intrusivo marketing di cose di poesia approntato da un’operatrice che dopo l’inaugurale assedio modifica percettibilmente tono all’assenza di speranze del mio la prego, non insista, non ho neppure molti soldi e semmai ne avrei bisogno, anche pochini, dall’editore. Altolà ahimè dimentico di far luce sull’incognita centrale: chi aveva offerto a questa Pagine il mio numero di cellulare? Esiste dunque un network, un passaggio clandestino, una banca dati di aspiranti al regno del visibile cui attingere nell’ingordigia  di un banchetto condiviso? Ma questo sarebbe ancora il meno. Il 12 luglio, dopo la cancellazione, esattamente un mese prima, della data prevista per la consegna dei premi, per cause di forza maggiore (posso supporre le condizioni di salute in emergenza estrema della signora Spaziani, mancata il 30 giugno scorso), vengono resi finalmente pubblici i nomi dei vincitori della sezione poesia edita, il cui primo premio (l’unico con la dotazione del conquibus, 2000 euro) viene assegnato a Mario Artz, autore della raccolta Soliloqui, Digipress editore, che dovremmo a questo punto indicare più correttamente come supposto autore, con supposta raccolta Soliloqui e supposto Digipress editore, poiché della fatale triade non emerge traccia in nessun angolo del net. Mario Artz: ormai fantasma, bersaglio e barzelletta di un esilarato circolo di frequentatori dei social network, in primo luogo facebook, dove peraltro, postando sulla propria pagina, Donatella Bisutti dichiara di non essere stata neppure informata di far parte della Giuria del Premio Mario Luzi e non tarda a rassegnare le dimissioni con lettera raccomandata. Qui si è giunti quando 9 giorni dopo, dunque ieri 21 luglio, sono pubblicati pure gli esiti della sezione poesia inedita, cui mi è toccato in sorte di partecipare e dove il primo posto (l’unico, neppure a ricordarlo, che prevede questa volta 1000 euro) è andato a Daniel Trinca, di cui le ricerche - più delicate vista l’impalpabile premessa dell’inedito - sono strenuamente in corso. Ne ho appena riso, e riso ancora, riso tanto quanto mi è bastato a compensare la vergogna con l’amico musicista che mi diceva attento, questo è il mondo con cui avrai a che fare. Giuro, gli ho risposto, preferirei chiamarmi Mario Artz.    

sabato 19 luglio 2014

INTERVISTA DEL 18/07/2014 SU VERA TV

Ecco l'intervista curata da Stefania Serino, che mi ha sollecitato a parlare di libri, documentari, viaggi, migrazioni...

http://www.veratv.it/video/2014/07/18/0017363/Vita-Vera-Edizione-11-00-del-18-07-2014.aspx

Dakar, baia di Soumbedioune, una piroga prende il largo. Sullo sfondo: Ile aux Serpents.

giovedì 12 giugno 2014

BARRY LOPEZ - UNA GEOGRAFIA PROFONDA - GALAAD EDIZIONI 2014



Naturalista, ex fotografo, considerato uno dei più grandi scrittori americani viventi, vincitore con Sogni artici (1986) del National Book Award, Barry Lopez conduce da alcuni decenni una ricerca fisica e spirituale in territori estremi, dove la magnificenza della natura non ha ancora conosciuto - o almeno non così drammaticamente - lo scempio del dissennato e sedicente ‘progresso’ contemporaneo. La sua scrittura trae origine da un incanto perseguito mettendosi in ascolto e dedicandosi interamente ai luoghi di indagine prediletti: ghiacci, tundre, oceani, deserti, ma anche i selvaggi boschi dell’Oregon occidentale dove lo scrittore abita dal 1970, a poche decine di metri dal fiume McKenzie, di cui scruta ogni giorno la vita manifesta e segreta, i gorghi, i movimenti continui, i giochi mutevoli della luce sullo specchio acquatico e gli atteggiamenti di flora e fauna che abitano l’inesauribile campione dell’ecosistema. Quando si allontana dai “centri conservatori della civiltà” per giungere in quegli “spazi remoti, elementari e aspri, dove la mente si prosciuga da tutto ciò che era insignificante e ozioso”, questo imperdibile maestro di meraviglia si tuffa in un’esperienza assoluta, optando per un tipo di conoscenza di prima mano, problematica, distante dai riduttivi approcci scientifici che prosciugano il mistero naturale ingabbiandolo in statistiche e definizioni. Quando attinge a testimonianze locali, Lopez entra in comunicazione con aborigeni e popolazioni autoctone, che non compendiano in manuali ma raccontano con l’immediatezza dell’oralità la confidenza con l’ambiente e la sapienza tutta pratica, sensibile, necessaria per muoversi in quei territori. Il libro che ripropone all’attenzione del lettore italiano una figura centrale della narrativa ma anche della riflessione contemporanea - per cui saggistica e arte della narrazione si alternano continuamente e si fondono spesso in un’unica forma di meditazione - è un’antologia di scritti che ne riassumono le tappe principali, egregiamente introdotta da Franco Michieli e conclusa da una lunga intervista all’autore di Davide Sapienza. Perlustrazioni artiche e antartiche, incontri con ghiottoni e caribù, orsi e lupi si avvicendano in una caccia instancabile ad atti enigmatici di animali i cui comportamenti risultano ogni volta imprevedibili, soggetti come ogni cosa alle variabili infinite delle circostanze singole, misteri viventi di ecosistemi in continuo divenire. Non mancano però anche memorie illuminanti dei contatti con artisti, specie fotografi e naturalisti, che hanno arricchito di stimoli cruciali il lungo percorso di Barry Lopez: “un osservatore d’avanguardia che lavora in un’epoca pericolosa”, come si definisce, e che si chiede cosa succederà quando avremo completamente smarrito “il senso reale della terra”, e con esso la matrice autentica, rigenerante dell’immaginazione umana. “La civiltà occidentale, investendo pesantemente nel progresso materiale, sta compromettendo la sua stessa biologia.” Allarmi lanciati da un uomo di cultura raffinata nutrito di esperienza e dispensatore di saggezza, che non perde mai di vista e invita a corteggiare il nostro bene più prezioso: quella verità, disseminata anche in queste pagine della geografia profonda, che “non può essere ridotta ad aforismi o formule, ma è qualcosa di vivo e impronunciabile”.     

Barry Lopez


mercoledì 28 maggio 2014

TRE POESIE


Ecco le tre poesie scelte dalla giuria del Premio Tapirulan ( http://www.tapirulan.it/ ) e raccolte nell'antologia MEVOJ ( http://www.tapirulan.it/pubblicazioni.php ) :


TRADIZIONE ESTIVA

Eppure laggiù c’è festa.
Non si direbbe data la straordinaria quiete della sera,
il raggio d’oro che scavalca la montagna
o l’altro versante della valle inondato da un sole così vivo.
Non si direbbe che sia già disceso il grande tronco
e i tre colpi di cannone siano esplosi
o un migliaio di automobili
siano lì tra le viuzze di Spelonga.

L’immobilità inganna da lontano;
perfino l’orecchio devi poggiarlo quasi contro
per sentire il fruscio del vento nella sedia a sdraio.

Troppa indifferenza
mormora il fantasma acquattato nella chioma,
impagliato come un gufo ammonitore sopra il ramo,
troppi attributi sovrumani in questo splendore naturale.

A tanta pace non resta che rabbrividire
nel quadrato sperduto di conifere.


INDICAZIONI DI REGIA

L’interprete, coltivato in materie musicali,
basso, in carne o allampanato poco importa,
simuli pure di ignorare il suo copione;
avanzi piano, gongolando a tratti,
a tratti contenuto ma non troppo,
non, almeno, fino al punto di sembrare inesistente
o peggio ancora scomparire.
Si attenga, ecco, appena può,
e sempre che i gesti i gesti lo consentano,
alla lezione muta.
Ma più di tutto non ci creda, per carità, oltre misura:
si attrezzi come quel poeta nato a Fiume
che si meraviglia in primo luogo di esser lì
mentre recita i suoi versi.
Se desidera, infine, e dove proprio non si trovi,
canti pure,
che nei passaggi narrativi è consentito.


DUE CALCOLI

Anche i sentimenti
senza la gravità si alleggeriscono.
Pare che sulla luna siano un sesto
di quel che calcoliamo in terra,

oppure, scienza a parte,
è la perdita degli anni ad alleviare il computo.
Guarda i bambini ad esempio,
guardali assorti la mattina
nella burrasca minore di una semplice partita:

come lievita dall’asse del pianeta,
come spunta la sfera tra le dita,
effetto non terrestre ma stellare,
regalo rimediato lungo il periplo di casa.

Fanno appena le dieci e sullo schermo
terzultimo è l’auspicio di pace in Palestina,
penultimo il premier del sorriso,
poi, mancava, l’impiccato del telegiornale;
destra sinistra e inutili code in capitale,
parabole in declino
sulla fortezza dei tetti prospicienti.

Galleggia qualcosa.
Sul quasi nulla ronzano api.
Insetti domestici vengono a toccarti le dita.
Saltano tra le unghie.



a Parma, il 24 maggio scorso, nella biblioteca del Monastero di San Giovanni, 
per il ritiro del premio.



"Le tre composizioni mostrano una convincente libertà metrico-prosodica, fondata essenzialmente sui ritmi di una sintassi discorsiva e argomentativa, mentre l'autore osserva la realtà ed occasioni diverse col distacco e il disincanto di chi è abituato ad andare oltre le apparenze, a 'prendere le distanze', a non crederci troppo: una festa di paese, che nella distanza panoramica sembra immobile, complice magari l'indifferenza di chi guarda (Eppure laggiù c'è festa); il minor peso, in assenza di gravità, persino dei sentimenti, e la convinzione invece - che spicca - di bambini che giocano, mentre gli schermi ripetono inutili consueti copioni nel 'quasi nulla' esistenziale (Anche i sentimenti); infine le Indicazioni di regia, che suggeriscono, per una rappresentazione - una messinscena o la vita stessa -, i comportamenti fintamente naturali di un qualsivoglia interprete (ipostasi oggettivata dell'io-egli come showman di sé, per lo 'spettacolo', per darla a bere agli astanti), perché, fingendo di non seguire il copione, segua invece strettamente le 'indicazioni di regia'"
(Paolo Briganti, docente di letteratura italiana contemporanea presso l'Università degli Studi di Parma, Presidente di giuria del Concorso di poesia Tapirulan. Dall'introduzione dell'antologia Mevoj)  

venerdì 2 maggio 2014

IL MIRACOLO DEL PANE AL FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E D'AMERICA LATINA DI MILANO

Sabato 10 maggio alle ore 17,30 (spazio Oberdan), in prima assoluta, con replica domenica 11 maggio (Società Umanitaria - Sala Facchinetti), presentazione del cortometraggio Il miracolo del pane.

Il trailer:

http://vimeo.com/93203760

e la pagina dedicata del Festival:

http://www.festivalcinemaafricano.org/new/film/il-miracolo-del-pane/




martedì 11 marzo 2014

IL'INTERVISTA DI SIMONE GAMBACORTA SUL QUOTIDIANO LA CITTA' DI TERAMO - 29 GENNAIO 2014

SG Il primo aspetto che mi colpisce, del suo romanzo, "Questa non è la mia patria", di recente pubblicato da Galaad, è il protagonista, il giovane immigrato ecuadoriano Juan José, alias Nevio. L'ipotesi di un anagramma suggerisce una domanda: le sue sono le confessioni di un italiano 3.0?
VMO La creazione di un personaggio di finzione come il mio attinge a un tessuto complesso di storia personale e cronaca indagata di vite altrui. I segni del disagio di Nevio sono spie di un disagio che lo accomuna a molti di noi, e anche a me naturalmente. Raccontando il modo in cui il nostro paese non riesce ad accogliere come dovrebbe lo straniero, racconto indirettamente le mie difficoltà a riconoscermi in una buona parte dell’Italia attuale.     

SG Fatto è che l'occhio esterno, ma anche "estero" di Nevio è il vettore che gli consente di rappresentare narrativamente il dissesto collettivo dell'Italia di questi nostri anni.
VMO L’incontro con l’altro, a livello pubblico e privato, nel comportamento sociale e individuale, nel carattere che assumono a riguardo le leggi e i comportamenti, è un momento rivelatore, una cartina tornasole dello stato di salute di un paese e dei suoi abitanti. Negli occhi del mio immigrato si specchia l’Italia di oggi, con le sue iporisie e le incapacità gestionali, l’egocentrismo e la finta generosità dei proclami che trovano nei fatti puntuali smentite. Questo romanzo restituisce una visione amara dei nostri tempi, e credo che la premessa indispensabile a qualsiasi rimedio sia una conoscenza ravvicinata, profonda di chi sta vivendo una delicatissima avventura esistenziale, tra sradicamento dalla terra d’origine e problemi concreti di accoglienza nel nuovo contesto.     

SG Flaiano diceva che in Italia il modo più gettonato per congiungere due punti non è tracciare una retta, ma un arabesco. Un'osservazione che torna alla mente riflettendo sul non marginale peso che la "burocrazia" gioca nel romanzo.
VMO Senza volere enfatizzare i meriti di altre culture, possiamo certamente dire di essere molto lontani dal pragmatismo anglosassone, che nella giusta dose ci farebbe davvero bene. L’Italia è, storicamente e immoralmente, il paese delle corti e delle consorterie. La burocrazia fa il gioco del potere, che gongola come un ippopotamo nel fango dell’immobilismo, lascia annaspare milioni di pesci piccoli e legifera inefficacemente. Viviamo in un finimondo di chiacchiere, carte bollate e codicilli che giocano al massacro di vite umane. I regimi adorano le carte e diffidano dei libri, e le democrazioe estremamente burocratizzare somigliano sotto certi aspetti a forme di labirintiche dittature, dove non si impone direttamente ma si induce la gente ad imboccare vicoli ciechi, a non risolvere nulla in modo chiaro e definitivo restando succubi del vischio burocratico e dell’arbitrio dei funzionari. Una condizione, tra l’altro, in cui la corruzione ha libero gioco.

SG "Questa non è la mia patria" è comunque, e soprattutto, un romanzo sulla disuguaglianza.
VMO Oggi chi ha il coraggio di argomentare e sostenere fino in fondo l’uguaglianza, viene liquidato come eretico, rivoluzionario o utopista. La semplice constatazione che un essere umano non può essere considerato illegale per la sua posizione geografica in questo mondo potrebbe bastare a suscitare scandalo presso i cosiddetti realisti della politica e della vita, che, più semplicemente, sono i cinici di sempre e gli impauriti dalla perdita di personali tornaconti e privilegi.   

SG C'è anche molto dolore, molta solitudine, molta indifferenza…
VMO Certo, sono fenomeni conseguenti alla disattenzione verso il prossimo, dissimulata sotto false preoccupazioni mediatiche che compendiano tutto in statistiche, immagini-cartolina che allarmano e scompaiono come se non fossero mai apparse nel buio catodico. Dobbiamo riavvicinarci alle persone in carne e ossa, ai loro cuori, alle loro storie: parlare, scambiarci racconti, esperienze, emozioni, toccare, condividere, scoprirci sul serio. E’ l’unica via possibile per evitare o limitare solitudine, dolore e indifferenza.

SG Quali sono state le spinte e le istanze che hanno dato origine a "Questa non è la mia patria"?
VMO Il contatto con un immigrato ecuadoriano che mi ha raccontato la sua storia e un particolare momento della mia vita in cui gravava il peso di una strana solitudine, con una tempesta di notizie allarmanti che giungevano dal contesto ambientale e politico italiano e internazionale. Le tre istanze, quella privata, quella del mio “modello” reale, e quella del mondo in cui entrambi vivevamo, hanno dato il via prima al processo di raccolta e messa a fuoco dei materiali, quindi all’avventura vera e propria di composizione del romanzo.

SG E perché la scelta della forma romanzo per affrontare queste tematiche?
VMO Credo sia la forma migliore per non perdere il contatto con la vita che nasconde ogni cronaca. Narrare in forma romanzesca non significa, come nella cattiva letteratura d’evasione, allontanarsi dalla realtà, ma avvicinarla e intercettarla. Significa reperire, azzerare i fatti e farli rinascere, in un processo continuo di distruzione e rigenerazione: un processo che obbliga il lettore e prima ancora lo scrittore a confrontarsi con esseri umani non stardardizzati o astratti. Il romanzo, e più generalmente la buona letteratura, lavora attraverso le parole sui sensi, sulla sollecitazione della sensibilità. E’ un operare concreto, con una forte connotazione artigianale, dove il talento deve necessariamente tradursi in un’attenzione costante alla grammatica minuta, al senso delle virgole, al respiro delle pause, alla coloritura degli aggettivi e a tante altre cose, in accordo con le sfumature e le corrispondenze dei sentimenti umani. Il vecchio e perennemente attuale adagio di Flaubert per cui “lo stile è il mio modo di sentire” ci dice come e quanto la letteratura sia in grado di promuovere un’educazione sensibile, facendoci cambiare, nel modo di vedere e di comportarci. Poesia e letteratura, come suggerisce un bravissimo scrittore e poeta italiano contemporaneo, Franco Arminio, dovrebbero irrompere in Parlamento perché qualcosa davvero muti in questo paese svilito da ignoranza, cattiva retorica e affarismo.

SG Da un punto di vista narrativo, quali aspetti del romanzo le hanno richiesto più attenzione, più lavoro?
VMO Non saprei stabilire un’esatta gerarchia a proposito. Tutte le sue fasi, dal recupero d’informaizoni a proposito delle leggi vigenti sull’immigrazione, fino alla stesura di pagire dal contenuto psicologico, che rendono conto delle trasformazioni interiori di Nevio, hanno richiesto la giusta dose di cura e lavoro. Posso comunque dire che le ore passate a scrivere, quando si è davvero dentro la narrazione e la storia che si racconta, quando la si immagna nel dormiveglia e si prendono appunti al buio, sul comondino: ecco, quei momenti, nonostante la fatica, sono quelli che trascorrono con più felicità e lasciano una certa soddisfazione: qualcosa di simile al sentimento che il poeta inglese Philip Larkin confessava dopo aver scritto una poesia. “E’ come se avessi fatto l’uovo”. Curiosa, ironica ma indovinata immagine.

SG "Questa non è la mia patria", se affiancato ai precedenti, e certo differenti, "Bach tra gli elefanti" e "Pesce d’aprile a Conakry", forma una sorta di trittico dell'alterità…
VMO Sono di fatto lavori molto diversi, considerati anche i tempi di elaborazione dei miei libri, decisamente poco commerciali, che hanno riflesso momenti di vita e fasi creative distinte. Questo romanzo, poi, benché pubblicato di recente, da ultimo, è nato prima degli altri, addirittura nel 2004. “Bach tra gli elefanti”, raccolta di reportage narrativi dal Senegal, paese dove trascorro lunghi periodI dell’anno, e “Pesce d’aprile a Conakry”, romanzo che va avanti e indietro, geograficamente e interiormente, tra Africa e Italia, hanno connotazioni autobiografiche più marcate, pur trattandosi, in realtà, di “finzioni autobiografiche”, dove le versioni di me stesso si moltiplicano diventando personaggi a tutto tondo, autonomi e connessi. Si tratta di una ricerca sull’identità individuale e sul suo disperdersi, sulla sorpresa di scoprirsi continuamente altri nel flusso di una stessa storia; nel medesimo, grande spettacolo dell’esistenza. Incontrare il lontano, attraversarlo e farlo diventare parte della propria esperienza vitale può in effetti considerarsi una tensione costante di questo irregolare trittico: un serie di viaggi dentro l’altro, che sono i migranti, certo, ma che siamo anche noi stessi.  

SG Nella sua scrittura è determinate il rapporto con l'Africa…
VMO Lo è diventato nel corso dell’ultimo decennio, da quando cioè ho iniziato a frequentare in primo luogo il Senegal, ma anche la Mauritania, il Mali, la Guinea Bissau, la Guinea Conakry: terre, popoli e universi umani che hanno esteso lo scenario in cui si muove la scrittura, esercizio che porto a spasso per diversi Continenti, in costante movimento tra presente e passato, cruda, fantastica attualità e memoria. Un’Africa che finisce per bagnarsi nei Navigli milanesi o un nitido ricordo di decenni addietro che deborda nella fantasmagorica contemporaneità di un mercato di Dakar.



domenica 2 marzo 2014

MORDECAI RICHTER - JOSHUA ALLORA E OGGI - ADELPHI EDIZIONI 2013


Un affermato giornalista di mezza età, minacciato dal coinvolgimento in uno scandalo di natura sessuale, è ricoverato in clinica dopo un grave incidente e nei va e vieni tra stati di ottundimento e lucidità ricorda la sua vita. Joshua Shapiro, al pari dell’indimenticabile Barney Panofsky della Versione di Barney, romanzo che assicurò a Mordecai Richter larga fama internazionale, incarna il suo spirito ebraico in un uomo ribelle, reticente alle convenzioni sociali e perennemente incalzato da giudici che di volta in volta indossano le maschere di risentiti colleghi, donne complicatissime, diffamanti perbenisti o frustrati e violenti poliziotti. Lo scrittore canadese, talento narrativo tra i migliori della seconda metà del Novecento, dà voce a personaggi anomali, incontenibilmente bramosi di vita, incostanti, sensibili e micidiali, soggetti alla persecuzione di un mondo che nutre verso di loro un’inconfessabile invidia. Un nuovo capitolo, insomma, della poliedrica e sofferta identità ebraica interpretata da Richter, architetto di trame romanzesche che giocano su più piani temporali, ricostruendo a tasselli distanti e connessi le vicende dei suoi eroi inquieti e dell’universo che ruota attorno ad essi. Ma torniamo a Shapiro, seriamente malconcio in ospedale e ossessionato dalla scomparsa della moglie Pauline, fuggita da un altro ospedale, questa volta psichiatrico, dov’era ricoverata in preda a gravissime crisi. Alla ricerca di lumi che lo aiutino a sbrogliare la matassa di un’intricata esistenza, Joshua rievoca gli anni di un giovanile viaggio in Europa: periodo di vita bohemien, peregrinazioni e ricerche che da Londra lo conducono in Spagna, deciso a ultimare un saggio sulla Guerra Civile, e dalle città spagnole fino all’isola d’Ibiza, quando, nei primi anni Cinquanta, era ancora un luogo incantevole abitato da pescatori e pochi viaggiatori di passaggio. Sono pagine tra le più belle di Joshua allora e oggi, che restituiscono l’irrequieta meraviglia di una gioventù intenta a misurarsi con fumosi postriboli, deliranti e imboscati nazisti, sinceri e coriacei uomini di mare, amori rapidi e intensi, amicizie terrigne e intellettuali, mentre da una radio mai spenta si ascoltano gli echi allarmanti del regime franchista. Ma l’orologio controllato da Richter non smette mai di spostare le sue lancette, e tra una quadro e l’altro di questo scenario europeo emerge la figura del padre Reuben, ex pugile di una certa fama nonché esattore poco raccomandabile per conto di un trafficante italiano: uomo ruvido e dolce, che con un’arma a portata di mano raccomanda al figlio la lettura dei testi sacri e il rispetto delle pratiche religiose, quasi fosse questione di rispetto, di dignità più che di fede; quindi la madre, Esther, nota nella mitica zona di St. Urbain Street per i suoi spogliarelli, che in un momento di esilarante felicità, di fronte a un gruppo di compagni di scuola del piccolo Joshua si produce in uno dei suoi numeri piccanti, generosamente impegnata a fortificare la platea ammutolita dei teneri impuberi. Una famiglia di equivoche, umili origini, quella degli Shapiro, che impatta contro una classe sociale diversa quando Joshua si innamora di Pauline, figlia del senatore Hornby. Come spesso accade alle figure femminili di Richter, anche l’avvenente Pauline è donna minata da una radicata fragilità nervosa e una dissimulata insoddisfazione che deborderà in una crisi psichiatrica alla morte dell’adorato fratello Kevin, viziato speculatore di borsa approdato al successo economico e bersagliato da accuse di fraudolente manovre finanziarie. Un altro dei tanti personaggi di questo caleidoscopio di campioni umani mulinanti attorno a un’esistenza che, come al termine di un lungo, rabdomantico film, più che a spiegarsi, giungerà a illustrare tutto il sorprendente spettacolo del proprio destino. Quel che si chiede, in fondo, alla letteratura.     


Mordecai Richter


mercoledì 19 febbraio 2014

LO SVILUPPO CON L'ANIMA - UN REPORTAGE SU SERIGNE BABACAR MBOW E L'AVVENTURA DEL VILLAGGIO SENEGALESE DI NDEM

Un nido di case e una manciata di anziani nell’immensa piana del Sahel, a due ore e mezzo di macchina, direzione nordest, dalla capitale Dakar: un villaggio inaridito da siccità ricorrenti e spopolato di giovani fuggiti lontano. Questo era Ndem, quando circa trent’anni fa, deciso a tornare nella terra dei suoi avi, vi si insediò insieme ad Aissa, l’ispirata moglie francese, Serigne Babacar Mbow. E’ difficile credere a un tale miracolo, gironzolando per questo mare di sabbia su cui ora fiorisce un armonioso progetto divenuto modello esemplare di sviluppo sostenibile africano. Due pozzi artesiani che danno acqua pulita e abbondante, un’infermeria con farmacia d’emergenza, strutture scolastiche, coltivazioni biologiche e un centro di mestieri che produce capi d’abbigliamento e un combustibile alternativo al carbone composto di buccia d’arachidi e argilla con il quale funziona, tra l’altro, il panificio locale. Un complesso di strutture che sono diventate punto di riferimento per molti villaggi vicini offrendo lavoro a centinaia di persone. E a pochi passi da tutto ciò, cuore pulsante del piccolo universo di Ndem, la daira, ovvero scuola coranica di Serigne Babacar, guida spirituale del luogo nonché maestro della confraternita sufi dei baye fall, filiazione estroversa della più vasta muridiya, che raccoglie in Senegal milioni di seguaci, fondata verso la metà dell’Ottocento dal santo islamico Ahmadou Bamba. Lavoro e preghiera sono i due capisaldi di questi musulmani le cui pratiche non rispondono all’islam ortodosso. I baye fall non ossequiano, generalmente, le cinque preghiere canoniche e non osservano il digiuno di Ramadan, ma ubbidienti a pratiche di devozione di stampo mistico, invocano costantemente il nome di Allah e lo fanno echeggiare nel corso di lunghe preghiere notturne collettive, dove procedono stretti in file circolari raggiungendo stati di ebbrezza spirituale. Sono i sufi più estremi di questo composito islam sub sahariano. Serigne Babacar Mbow, cresciuto nell’amore per questa confraternita e questa via, era ancora un giovane uomo nato da un’abbiente famiglia dakaroise con una formazione accademica in sociologia, quando, tornato dal suo viaggio europeo, anziché reinstallarsi nella confortevole capitale, prese insieme alla moglie una scelta radicale, accampandosi con una tenda e una capanna adibita a piccolo laboratorio di sartoria in un angolo della savana appartenuto ai suoi antenati. Incontrandolo, e mostrandomi stupito di quanto sia riuscito a creare dopo un così modesto e avventuroso inizio, il mio gentilissimo ospite allunga uno sguardo ai suoi animali, ai pavoni che scorrazzano nella daira, ai recinti dei montoni e dei buoi, alle colture di aloe e a una parte della sua famiglia raccolta sotto la veranda di casa. Mi dice sorpreso: “E’ come se non lo avessi fatto io. Tutto ciò è frutto soltanto d’amore.” Amore. Una parola che torna spesso nei suoi discorsi, semplificando e rendendo insieme misteriosa l’azione di quest’uomo pratico e contemplativo, umile e tenace nel suo ruolo di guida religiosa nonché presidente della ONG di Ndem. Scrittore di testi sulla via baye fall e i valori della spiritualità universale, Serigne Babacar viaggia parecchio in Europa, invitato per conferenze e sollecitato dai non pochi partner occidentali, in particolare italiani e francesi, che nel corso degli anni hanno sostenuto i suoi progetti. La lavorazione, la tintura tradizionale dei tessuti e la confezione di abiti che conciliano gusto senegalese e occidentale sono diventati un segno distintivo di Ndem e hanno portato alla creazione della linea e della boutique Maam Samba. Se fino a pochi anni fa le forniture erano in gran parte destinate all’Europa, attraverso catene di distribuzione equo-solidali, la recente scelta di aprire un centro con esposizione, vendita e luoghi di accoglienza in un quartiere in vista di Dakar, ha dirottato le mire sul mercato interno. “Ci sono due ragioni principali che ci hanno indotto a questa scelta. La prima, dopo un decennio di dipendenza commerciale dall’Europa, è la necessità di un’autonomia che garantisca maggiore sicurezza al nostro lavoro a prescindere dalle oscillazioni della domanda esterna. La seconda è la possibilità, per uno spazio come quello inaugurato a Dakar, unico nel suo genere in Africa occidentale, di divenire punto di riferimento e scambio tra partner africani orientati verso progetti di commercio equo solidale e sviluppo sostenibile.” Mentre Serigne Babacar mi racconta tutto ciò, si avvicinano alla veranda Moussa e Fatou, una delle coppie miste senegalo-europee che abitano a Ndem, dove prospera una multiculturalità tollerante, rispettosa e curiosa delle reciproche differenze. Nell’incontro con modi e opinioni diverse, Serigne Babacar sa essere per primo di una delicatezza estrema; gironzola o riceve i suoi continui ospiti incuriosito e discreto, raccontando e soprattutto dimostrando un islam del cuore, infinitamente lontano da qualsiasi connotazione oppressiva o violenta: un islam che realizza in modo autentico la sua radice etimologica di abbandono (aslama) a Dio nella pace (salam), e in questo caso a una pacifica operosità. Condividendo la passione per letture e studi sul sufismo, io e questo saggio ispirato che frequento ormai da cinque o sei anni ci allontaniamo dal gruppo di amici e familiari per raggiungere un angolo della sua camera dove custodisce una piccola ma sceltissima biblioteca, con opere di grandi maestri del passato più e meno recente, da quelle di classici come Al-Gazali e Ibn Arabi fino ai sufi dell’ultimo e penultimo secolo, tra cui qui non poteva mancare il senegalese Ahmadou Bamba con il suo discepolo prediletto Ibrahima Fall, l’originario ispiratore del modo di vivere di questo villaggio, a cui Serigne Babacar Mbow ha dedicato diversi libri. Il Servitore del Profeta, che ho curato e tradotto, è uscito l’anno scorso in Italia per le Edizioni dell’Arco, ed è di prossima pubblicazione, per i tipi di Harmattan Italia, un breve saggio dal titolo Genti dell’Amore. “La tensione verso una spiritualità universale” mi conferma l’amico prezioso prima dell’arrivederci, ”accanto a un approccio interculturale e interreligioso, sono sempre stati tratti distintivi dell’avventura iniziata qui a Ndem. Il confronto continuo con il diverso è un segno di vitalità e un antidoto indispensabile ai rischi della fossilizzazione attorno a pericolosi preconcetti. Tra le figure capitali dell’Occidente, amo in modo particolare quella di San Francesco d’Assisi, che già ai suoi tempi, ispirato da una vocazione straordinaria, ha saputo valicare barriere secolari affratellando uomini dai diversi cammini nella fede in un Unico Signore.” Allontanandomi dal villaggio per riprendere la strada della capitale e contemplando la savana brulla, punteggiata a larghi intervalli da maestosi baobab e qualche acacia, la sensazione di questo miracolo fiorito in mezzo a un’immensità semidesertica torna a conquistarmi, e insieme ad essa la meraviglia per la tenacia e l’amore fusi in un unico slancio di energia vitale che può trasformare le umane opere in una paziente via verso l’Eterno. *

* Il reportage è uscito sul numero di febbraio 2014 della rivista Popoli. Ecco il link:


venerdì 7 febbraio 2014

MAURIZIO PALLANTE - MONASTERI DEL TERZO MILLENNIO - EDIZIONI LINDAU 2013



Per alcuni interpreti di una saggezza pochissimo ascoltata dai governanti, uscire dal pantano morale e materiale cui sono ridotte le nostre società significa praticare ciò che Maurizio Pallante ha battezzato decrescita felice: una forma di progressiva riduzione del superfluo che distrugge il pianeta e il genere umano. La martellante spinta al consumo di beni in larga parte inutili e la massiccia produzione industriale hanno condotto al collasso di ecosistemi incapaci di sopportare un inquinamento smisurato e alla prona accettazione di un’ideologia invaghita di quelle magnifiche sorti e progressive di leopardiana memoria. Non conosciamo più nulla di ciò che consumiamo, l’arte del fare e del produrre artigianalmente è stata sostituita dall’ingordigia di oggetti dal retroterra oscuro, promossa dalla corale informazione del pensiero dominante. “Nelle società industriali, in particolar modo nelle città che ne sono il cuore, nessuno produce nulla di ciò che gli serve per vivere e tutti dipendono dal mercato per ogni esigenza. Il corrispettivo a livello culturale di questa totale mancanza di autonomia è l’esasperazione crescente delle specializzazioni che riduce sempre più l’area di conoscenza di ogni individuo creando barriere insormontabili a ricostruire una visione d’insieme anche all’interno di ogni singola branca del sapere.” Il valore d’uso dei beni che caratterizzava le società tradizionali è stato sostituito dal valore di scambio, e la cultura del dono, come quella della reciprocità, elementi fondanti di molte società pre-moderne, sono state annientate dalla mediazione invasiva del denaro. Il decantato prodotto interno lordo, ovvero il valore monetario delle merci e dei servizi scambiati con denaro, è divenuto il solo indice per misurare la salute di un paese, escludendo elementi di valutazione che riguardano la felicità dell’essere umano nel suo senso più completo. Pallante non è così assolutista da non vedere anche certi lati positivi dell’attuale forma di progresso, ma il costo a cui ci espongono tali vantaggi rimane inaccettabile. Di fronte a questo dissesto generalizzato, la provocazione contenuta nell’ultimo libro del fondatore del movimento della decrescita felice è quella di un ritorno all’antica civiltà dei monasteri, alla qualità morale e spirituale del loro fare e del saper essere centri produttivi ispirati da una nobile, religiosa idea dell’uomo. Nella fase attuale della storia, le istituzioni monastiche possono essere considerate modelli di riferimento per scelte di vita alternativa e risultano particolarmente eloquenti attorno a tre nodi cruciali della crisi contemporanea: il rapporto con il territorio, tradotto nel lavoro, quello con gli altri, incarnato nell’economia e nella socialità, e quello con se stessi, fecondato da un’autentica riflessione sul senso complessivo dell’esistenza. I nuovi cantieri della rinascita non saranno ovviamente il calco degli antichi monasteri, ma ne conserveranno i motivi ispiratori applicandoli a forme di aggregazione inedite. “I monasteri del terzo millennio non richiederanno necessariamente voti di obbedienza a regole, né comunioni di beni mobili e immobili. Saranno strutture leggere, o meglio ancora non-strutture, semplici luoghi d’incontro in cui si ritroveranno, per scelta e affinità, persone e famiglie che avvertono in modo particolarmente acuto il disagio, la sofferenza e i limiti di vivere in un sistema economico finalizzato alla crescita della produzione di merci e desiderano annettere più importanza alle relazioni umane che alla produzione di merci, collaborare invece di concorrere, ridurre la propria impronta ecologica e la propria dipendenza dal mercato, producendo non solo valori di scambio, ma anche valori d’uso ogni qualvolta sia conveniente.” Principi che stanno trovando applicazione nel neonato Agrivillaggio Vicofertile (www.agrivillaggio.com), in provincia di Parma, nuovo laboratorio e punto di riferimento della decrescita felice. 

Maurizio Pallante