Per alcuni
interpreti di una saggezza pochissimo ascoltata dai governanti, uscire dal
pantano morale e materiale cui sono ridotte le nostre società significa
praticare ciò che Maurizio Pallante ha battezzato decrescita felice: una forma di progressiva riduzione del superfluo
che distrugge il pianeta e il genere umano. La martellante spinta al consumo di
beni in larga parte inutili e la massiccia produzione industriale hanno
condotto al collasso di ecosistemi incapaci di sopportare un inquinamento
smisurato e alla prona accettazione di un’ideologia invaghita di quelle
magnifiche sorti e progressive di leopardiana memoria. Non conosciamo più nulla
di ciò che consumiamo, l’arte del fare e del produrre artigianalmente è stata
sostituita dall’ingordigia di oggetti dal retroterra oscuro, promossa dalla
corale informazione del pensiero dominante. “Nelle società industriali, in
particolar modo nelle città che ne sono il cuore, nessuno produce nulla di ciò
che gli serve per vivere e tutti dipendono dal mercato per ogni esigenza. Il
corrispettivo a livello culturale di questa totale mancanza di autonomia è
l’esasperazione crescente delle specializzazioni che riduce sempre più l’area
di conoscenza di ogni individuo creando barriere insormontabili a ricostruire
una visione d’insieme anche all’interno di ogni singola branca del sapere.” Il
valore d’uso dei beni che caratterizzava le società tradizionali è stato
sostituito dal valore di scambio, e la cultura del dono, come quella della
reciprocità, elementi fondanti di molte società pre-moderne, sono state
annientate dalla mediazione invasiva del denaro. Il decantato prodotto interno
lordo, ovvero il valore monetario delle merci e dei servizi scambiati con
denaro, è divenuto il solo indice per misurare la salute di un paese,
escludendo elementi di valutazione che riguardano la felicità dell’essere umano
nel suo senso più completo. Pallante non è così assolutista da non vedere anche
certi lati positivi dell’attuale forma di progresso, ma il costo a cui ci
espongono tali vantaggi rimane inaccettabile. Di fronte a questo dissesto
generalizzato, la provocazione contenuta nell’ultimo libro del fondatore del movimento
della decrescita felice è quella di un ritorno all’antica civiltà dei
monasteri, alla qualità morale e spirituale del loro fare e del saper essere
centri produttivi ispirati da una nobile, religiosa idea dell’uomo. Nella fase
attuale della storia, le istituzioni monastiche possono essere considerate
modelli di riferimento per scelte di vita alternativa e risultano
particolarmente eloquenti attorno a tre nodi cruciali della crisi
contemporanea: il rapporto con il territorio, tradotto nel lavoro, quello con
gli altri, incarnato nell’economia e nella socialità, e quello con se stessi,
fecondato da un’autentica riflessione sul senso complessivo dell’esistenza. I
nuovi cantieri della rinascita non saranno ovviamente il calco degli antichi
monasteri, ma ne conserveranno i motivi ispiratori applicandoli a forme di
aggregazione inedite. “I monasteri del terzo millennio non richiederanno
necessariamente voti di obbedienza a regole, né comunioni di beni mobili e
immobili. Saranno strutture leggere, o meglio ancora non-strutture, semplici
luoghi d’incontro in cui si ritroveranno, per scelta e affinità, persone e
famiglie che avvertono in modo particolarmente acuto il disagio, la sofferenza
e i limiti di vivere in un sistema economico finalizzato alla crescita della
produzione di merci e desiderano annettere più importanza alle relazioni umane
che alla produzione di merci, collaborare invece di concorrere, ridurre la
propria impronta ecologica e la propria dipendenza dal mercato, producendo non
solo valori di scambio, ma anche valori d’uso ogni qualvolta sia conveniente.” Principi
che stanno trovando applicazione nel neonato Agrivillaggio Vicofertile
(www.agrivillaggio.com), in provincia di Parma, nuovo laboratorio e punto di
riferimento della decrescita felice.
Maurizio Pallante
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