È
a Giorgio Manganelli che si indirizza nel 1970 una multinazionale interessata a
costruire una linea ferroviaria capace di unire Il Cairo a Dar es Salaam,
chiedendogli di prendere parte a una spedizione e stendere una relazione sui
luoghi attraversati dalla mai realizzata Transafricana1. Ne nasce un resoconto
di viaggio che è l’immersione in un universo altro rispetto ai canoni europei, terra
in cui Manganelli si muove con virtù rabdomantica. Un tessuto fitto, la sua
prosa, lontana dal limitarsi a una relazione tecnica o un diario narrativo. Lo
straordinario reporter specula, spinge all’estremo l’intuizione etnografica e poetica,
la prodigiosa congerie di riflessioni sollecitate da luoghi che permangono in
una condizione dove la storia, così come intesa in Occidente, è assente.
Giorgio Manganelli
“Se la
storia è edificio e scrittura, qui la storia non è mai cominciata.” Sono
paesaggi scabri, pietrosi, minimamente verdi lungo il corso del Nilo: un
infinito “grande angolare” che rimanda a un’arcaicità in cui l’uomo non conosce
l’idea di futuro o progettazione, e l’isolamento e la vita faticosa sono la tragica
norma. L’Africa di Manganelli, dominata dall’idea di fondo - eletta in modo
talora fin troppo assolutistico ad assioma - di un immobile primitivismo, è luogo
primigenio, “ignaro di date”, dove a imperare sono “non colossei, ma leoni, non
torri ma svettanti giraffe, non acropoli ma crateri affollati di belve.” Una
prospettiva radicale, che comunque consente di attingere a verità restituite
con grande intensità espressiva. “La strada è mentale, la pista fisiologica”
medita Manganelli sorvolando le maglie dei percorsi transitabili che incidono
un “continente di tenebre compatte”. Tre sono gli Stati in cui si snoda la sua
perlustrazione: il Kenya liberista, la Tanzania socialista e l’Etiopia, fondata
su una arcaica ideologia agraria e imperiale, “singolarmente arretrata al
livello del potere e del tutto discontinua a livello popolare”. Nel corso di un
“viaggio veloce in mezzo ad oggetti infinitamente lenti”, dove l’europeo
diventa una “provocazione motorizzata”, appaiono come mostruose deformità i conglomerati
urbani: Nairobi, innanzitutto, “città impetuosamente, anche sinistramente, d’avanguardia”,
e Addis Abeba, capitale di un’Etiopia affetta da un isolazionismo drammatico, una
zona in cui possono svilupparsi civiltà contigue e lontane, percorsa da
“fantasiosi e nevrotici brividi di storia”. Quando l’affaticato scrittore,
prima di tornare in Italia, decide di fare una puntata ad Atene, vede nel
Partenone “la supponenza geometrica della macchina architettonica”: qualcosa,
scriverà più tardi, che gli è improvvisamente chiaro proprio perché è di
ritorno “dall’Africa magmatica, informale, deforme, il grande corpo planetario
che essuda forme, coaguli di immagini, carmina e amuleti: una terra in cui
l’uomo, essere labile e spaventato, ininterrottamente tratta la propria
sopravvivenza con l’indifferenza del mondo…”
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