Cosa dire di Denis Johnson. Soprattutto che ha scritto Cronache anarchiche, pubblicato in Italia dall’ottima ed estinta
Alet, nel 2005, collezione di reportage dagli Stati Uniti e dai luoghi più
caldi del pianeta, dove il corrispondente
per il New Yorker e Rolling Stone, scomparso nel maggio del 2017, si è avventurato con
curiosità insaziabile. Che ha prodotto uno dei migliori romanzi sulla guerra in
Vietnam, Albero di fumo, premiato con
il National Book Award, considerato per intensità e innovazione stilistica un
libro prossimo ai capolavori di Philip Roth e Don De Lillo. Che infine - ma
arretrando, nella sua produzione, fino al 1992 - ha confezionato i formidabili racconti di Jesus’Son,
da cui il film omonimo di Alison Maclean. Una drogata scorribanda nel
mondo provinciale americano, questa rosa di narrazioni brevi, le cui trame si
intuiscono e scompaiono, come la mente allucinata dei personaggi che le animano, manipolo di disperata umanità, disoccupati, infermieri, carcerati,
prostitute, gente comune che scorrazza a caccia di tutto e nulla,
invischiata in storie assurde e senza legge.
Denis Johnson
Un incidente mortale
dopo un passaggio in autostop, ad esempio, dove il protagonista di Incidente durante l’autostop, illeso, strafatto,
smonta dall’automobile distrutta occhieggiando alla catastrofe da un pianeta sconosciuto. Di fronte a un uomo che penzola morente dalla carrozzeria si
meraviglia semplicemente perché “lui non poteva dirmi cosa stava sognando, e io
non potevo dirgli cosa era reale”. Un’apocalissi, quella che evoca così crudamente, e beffardamente, Johnson, ricorrendo a una lingua che esplode in visioni acide,
capaci di trasfigurare il paesaggio imprimendo tinte espressioniste e interponendosi a dialoghi
dove un cinismo asciutto e pervasivo è la regola, e la disperazione nulla più di un sentimento raffreddato dall'abitudine agli eccessi. Una lettura di
meraviglie scure, inadatta a palati delicati, nel corso della quale uno dei
tanti fantasmi in carne ed ossa, la vittima qualunque di Emergenza, si presenta a piedi, in ospedale, con un coltello
infilato dalla moglie nell'angolo dell’occhio sinistro, accudito da infermiere
e dottori sballati quanto lui che balbettano il soccorso di un neurochirurgo. Ma ecco l’incipit di Lavoro, dove un'altra delle figure-immagini
di un paese perso precipita nel fondo di inquietudini e piaceri oppiacei.
“Stavo all’Holiday Inn da tre giorni, sotto falso nome, in compagnia della mia
ragazza, sinceramente la donna più bella che avessi mai conosciuto, a farmi di
eroina. Facevamo l’amore a letto, mangiavamo bistecche al ristorante, ci
bucavamo al cesso, vomitavamo, piangevamo, ci accusavamo, ci imploravamo, perdonavamo,
promettevamo e ci portavamo in paradiso a vicenda.” Tra cielo e fango, estasi e disillusione, nel mezzo, ad occhi spalancati, fino in fondo.