VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

domenica 10 dicembre 2017

ROBERTO CALASSO, L'INNOMINABILE ATTUALE, ADELPHI 2017


Affonda lo sguardo, Roberto Calasso, nella desolante sventura di un mondo che ha smarrito ogni riferimento all’altrove e spingendo alle conseguenze più estreme il processo di secolarizzazione è approdato a una sterile forma di autoreferenzialità. I suoi prodotti e obiettivi sono ormai perfettamente fine a se stessi, buoni a soddisfare appetiti mutati in impulsi di un congegno meccanicizzato, o informatizzato, pronto a confondersi con l’artificiale, dove la nozione di intelligenza, mortificata la dialettica con il metafisico, è ridotta a mera facoltà combinatoria. Turisti e terroristi è il titolo del primo saggio di un libro necessario e inquietante, lugubre, perfino, nello scintillio di intuizioni che marcano l’epilogo di una civiltà giunta all’ “età dell’inconsistenza” - ultima tappa del “culto della società divinizzata” teorizzato da Durkheim - in cui la potenza del terrorismo dilaga trovando nel caso il suo più feroce alleato. Il fittizio pretesto dello spargimento di sangue è sempre il primordiale rito sacrificale, anche se il frutto del sacrificio, un tempo invisibile, si materializza ora, ben più laicamente, nelle vittime dell’attentato. Calasso moltiplica le rapide e densissime indagini sull’innominabile attuale evocandone il quadro e parallelamente scovandone le profonde radici: ricostruendo una sorta di genealogia del disastro in un concerto di voci assenzienti o ammonitrici. Tra queste ultime, una su tutte, quella di Flaubert, che inventa con Bouvard e Pécuchet due compulsivi antesignani di Internet, eroi fondatori della società sperimentale.
Roberto Calasso

La società Viennese del Gas, parte seconda del volume adelphiano, è invece una caleidoscopica ricognizione attorno agli anni che vanno dal 1933 al 1945. In un mosaico di flash narrativi e passi fedelmente riportati, l’ascesa del nazifascismo, con l’attuarsi progressivo e implacabile dell’olocausto, è recuperata da prospettive molteplici, e la temperie di momenti cruciali del Novecento emerge in visioni cupe, apocalittiche, quasi l’anacronistico controcanto a un presente evanescente e diversamente drammatico. Benjamin, Céline, Simenone, Drieu La Rochelle, Frost, Beckett, Halévy, Grossman, Malaparte: all’ombra di Hitler e Stalin, calati nel tessuto di comunità deliranti, sfilano i memorabili testimoni dell’orrore e di un’ansia, come ricorda il risvolto di copertina, che oltre mezzo secolo dopo si è trasformata in inconsistenza: entrambe crudelmente assassine. Non manca un epilogo (Avvistamento delle torri) ermetico, lapidario, in cui il ruolo della profezia è affidato ancora a un gigante della letteratura. E a rimettere in gioco il mistero sarà questa volta un sogno di Baudelaire, annotato su un semplice foglietto, che prefigura con sbalorditiva chiarezza il crollo delle torri gemelle.                             

(la recensione è stata pubblicata il 7/12/2017  dal quotidiano Il Cittadino)                    


venerdì 24 novembre 2017

HELENA JANECZEK - LA RAGAZZA CON LA LEICA - GUANDA 2017

 

Poco più di trecento mirabili pagine che in un’architettura caleidoscopica proliferano attorno al fulgido cuore di Gerda, al secolo Gerta Pohorylle, leggendaria fotoreporter di guerra travolta giovanissima da un carro armato al ritorno dal fronte di Brunete, dove documentava la Guerra di Spagna al fianco delle milizie antifasciste. Filando un tessuto composito di cronaca e immaginazione e dando prova di uno stile che non di rado riverbera lampi da grande scrittrice, Helena Janeczek ricostruisce la vita di uno spirito libero e avventuroso che ha intercettato momenti e personaggi cruciali della storia e dell’arte del secolo scorso. Le voci cui affida il ruolo di testimone della vicenda sono quelle di due innamorati dell’ammaliante esule di origini ebraiche stanziata a Parigi e in fuga dal nazismo montante nella nativa Germania: il ricercatore emigrato negli USA Willy Chardack, corteggiatore eternamente frustrato che nel corso di una passeggiata nostalgica per North Buffalo la ricorda a distanza di molti anni, e il dott. Georg Kuritzkes, impegnato in indagini scientifiche attorno a luce e colori, ex membro delle brigate internazionali in Spagna e maquisard sul monti dell’Alta Savoia, che specularmente, nello stesso 1960, aggirandosi per Roma torna ai cruciali anni Trenta in cui era stato amante della ventenne fotografa prima che divenisse compagna di un altro esule ebreo ungherese, André Friedman, presto celebre con il fantastico nome di Roberta Capa. E in mezzo alla coppia di sopravvissuti a guerre e persecuzioni, nel capitolo centrale del libro, danno corpo ulteriore alla narrazione le memorie di Ruth Cerf, coinquilina di Gerda nella capitale francese nonché collaboratrice del minuscolo laboratorio fotografico da cui germogliò la prestigiosa agenzia Magnum. 

Helena Janeczek

Accanto al racconto polifonico che insegue l’astro della giovane donna coraggiosa e imprendibile, capace di inanellare passioni senza tradirne nessuna, dotata di un fascino e un talento spesi fino all’estremo, scorrono le vite di artisti fotografi come Fred Stein, David Seymour e soprattutto Capa, catturate in quel crocevia di formidabili destini che fu la Parigi di allora. Le esistenze da rifugiati bohemien, le fughe salvifiche e rocambolesche, le impennate di ardore e di genio e la lunga odissea della resistenza europea al nazifascismo - tutti gli entusiasmi, insomma, e i patemi di un’epoca grandiosa e drammatica -, scendono dal pulpito della grande storia e si fanno sostanza tangibile nelle pagine della Janeczek. “Discendenti dello stesso verbo” scrive in una delle ultime, confessando insieme un metodo e un’intuizione, “rinvenire e inventare rammentano che per ritrovare qualsiasi cosa bisogna attingere alla memoria, che è una forma di immaginazione.” In perfetto accordo con queste parole, congeda un romanzo che non si dimentica.        

    (la recensione è stata pubblicata sul quotidiano Il Cittadino del 23/11/2017)     

giovedì 2 novembre 2017

JEAN ECHENOZ - L'OCCUPAZIONE DEL SUOLO - GALAAD EDIZIONI 2017


Per la prima volta tradotto in italiano, questo sorprendente racconto colmo di grazia e ironia, lirico e dai toni quasi surreali, è stato salutato fin dal suo primo apparire, sul finire degli anni Ottanta per le storiche Èdition de minuit, come un insolito capolavoro capace di oscurare con magistrale e sibillino fulgore fiumi di letteratura contemporanea. Lo spunto narrativo è conciso quanto efficace. Un’esorbitante affresco dipinto sul muro di un palazzo parigino in cui appare sorridente dentro quindici metri di abito blu mentre offre un flacone di profumo Piver, Forbil, è tutto quel che rimane di Sylvie Fabre, bruciata con la mobilia e le fotografie che la ritraggono nel rovinoso incendio della sua abitazione. A questa precaria e iridescente immagine pubblicitaria, minacciata dal rinnovamento edilizio nonché offesa dal sottostante degrado urbano, tornano con assiduità il marito e il figlio Paul per onorare e mantenere viva a loro eccentrico modo la memoria della defunta. Una scommessa ostinata, avventurosamente quanto vanamente condotta contro l’inevitabile crescere del piano di occupazione del suolo che cancellerà le preziose vestigia ma non l’acribia dei due superstiti, installati in un nuovissimo monolocale appena sotto gli occhi di Sylvie, “due lampade cieche dietro il muro di destra”, intenti a raschiarne perfino la dura materia pur di aprirsi un’ultima breccia verso la moglie e la madre perduta. 

Jean Echenoz

Apologo esemplare attorno alle geniali invenzioni della nostalgia alle prese con l’irrimediabile, sostenuto da una prosa evocativa e traslucida, punteggiata di arditezze stilistiche, questa manciata di pagine offre un memorabile assaggio delle qualità che ritroveremo nei successivi romanzi del celebre scrittore francese. Un piccolo, smagliante gioiello che ha generato un’infinità di commenti entusiasti, eletto per il continuo riverbero dei sensi nascosti e il misterioso nitore a paradigma del racconto perfetto. Un tassello immancabile nella libreria degli amanti di Jean Echenoz e dell’arte della parola tout court.*

*La recensione è apparsa oggi sul quotidiano Il Cittadino   

lunedì 30 ottobre 2017

GIUSEPPE GENNA - HISTORY - MONDADORI 2017


Si traduce in un centellinato percorso di iniziazione, la scrittura di Genna, che annette a sé linguaggi diversi, gerghi specialistici, in particolare scientifici, si profonde in descrizioni di acribia funambolesca e nutre la narrazione di una sostanza densamente speculativa: prosa sofisticata e sontuosa, esempio di raro coraggio in contesti di facili confezioni editoriali e letture distratte. History è romanzo che sfida e dilata i canoni tradizionali trasformandosi in un’opera audace da ascoltare con la necessaria pazienza, senza ansie di definizioni: romanzo di facoltà digressiva e concentrica, che si disperde lontano per ritrovare ovunque il punto di inizio e di fine, il centro ovvero la “mente centrale”, come battezza l’autore la dimensione metafisica e concretamente esperibile di cui è in ricerca costante. Siamo in tempi di ibridazione dell’essere umano con apparati artificiali sempre più complessi, supporti e dispositivi informatici e ogni sorta di realizzazioni avanzate: in un 2018 che prefigura l’avvenire dell’Occidente dove si muove uno scrittore di radici umanistiche saldamente affondate nel Novecento rivedute però alla luce di un nuovo millennio sottoposto all’accelerazione spasmodica del tecnologico. I vecchi parametri sono variati, la scansione dei principali mutamenti sociali in decenni non ha più il vecchio senso e si è immersi in società liquide (Genna preferisce “gassose”), per cui i processi intellettivi sono lanciati in una corsa formidabile, disancorata da eventi ormai incapaci di segnare tappe di significato sicuro: un’epoca dove ogni cosa subisce un processo di astrazione, sublimandosi e riducendosi al tassello di un archivio infinito. Ma quel Novecento precocemente preistorico non può scomparire e torna nel libro con le memorie di un’infanzia e una prima adolescenza vissute in un quartiere della periferia milanese, tra scorribande di ragazzini, allucinazioni domestiche e scoperte di ambigui figuri, di deforme carnalità, che popolano antichi ricordi come ossessioni elevate al rango di archetipi: segni di un Male impresso fin dentro le viscere che si rifrangerà nello specchio del mondo a venire. Lo scrittore che si racconta in History giungerà a un’impasse allarmante, a momenti di angoscia in cui rasenta il suicidio, a quei paurosi due ultimi decenni del secolo scorso che sono il preambolo di una svolta cruciale. 


Giuseppe Genna

Si può leggere questo romanzo, in tralice, come una progressiva avventura di formazione all’informe, acquisizione graduale di una consapevolezza della vanità universale e quindi di un’inedita facoltà creatrice che da quella vanità prende le mosse. Lo scrittore ormai pronto alla sua palingenesi viene cooptato da un centro di studio sull’intelligenza artificiale, l’avanguardistico “tecnopolo”, chiamato a occuparsi di una bambina, History appunto, affetta da una radicale versione di autismo, con la quale lui solo si dimostra capace di interagire efficacemente. Attorno a questa giovane mente dai contenuti segreti vortica una ressa di ambienti e personaggi inquietanti: il padre tycoon, ostinato nella sua onnipotenza terrestre e dilaniato dai lutti, le microsocietà dei giovani rampolli che si alimentano di piaceri drogati e derive da finimondo, i palazzi del soverchiante potere trasformati in raggelanti labirinti di uffici e spazi destinati a intrattenimenti oscenamente festosi. Il quadro, insomma, di un universo postumo o prossimo venturo che porta alle conseguenze più estreme quello che già nel presente si vive. Ma accanto alle visioni da tecnologizzato circo o carcere planetario fiorisce anche la possibilità di un esodo salvifico: una definitiva migrazione interiore ovvero l’accesso al cuore della Mente suprema, cui è dedicata la parte finale di History, quando la bambina scompare e le parole di Genna risuonano come note di un oracolo liberatorio.*

*La recensione è apparsa sul quotidiano Il Cittadino del 19/10/2017

giovedì 15 giugno 2017

KENT HARUF - LE NOSTRE ANIME DI NOTTE - NN EDITORE 2017


Maestro americano scomparso nel 2014 a settantuno anni, Kent Haruf sceglie la cittadina immaginaria di Holt, in Colorado, per ambientare le sue storie umanissime e cristalline: dipinte, verrebbe da dire, da una prosa parsimoniosa ed evocativa, costruita come se in fila, nei momenti più intensi, siano disposti versi di poesie narrative. Grazia e leggerezza particolari che colgono le anime dei personaggi quasi scattando istantanee all’invisibile, lasciando respirare i silenzi e permeandoli di un senso potente e ineffabile, le pause dei dialoghi che regalano esempi continui della distillata e particolare saggezza di un romanziere in grado di contemplare la vita da un punto intimo ed eccentrico, facendo vibrare nel suo lavoro moti di complicità, nostalgia e soprattutto grande pietà. Ascoltare lo stile di Haruf è dunque dedicarsi a una vera e propria pratica conoscitiva, un’esperienza che indaga e insegna l’universo degli esseri umani, i loro dilemmi, le loro complesse scelte morali, l’incapacità, a volte, di prendere vie che siano interamente buie o luminose, benefiche o portatrici di nefasti accidenti, perdurando in quel purgatorio di ambiguità e incertezze che incarnano spesso nei loro viaggi terreni, da cui si staccano poche, preziose schegge di chiara autenticità. Come ricorda nella nota in coda al romanzo il traduttore Fabio Cremonesi, quel che si aggiunge in quest’opera, rispetto ai lavori precedenti e in particolare rispetto alla Trilogia di Holt - pubblicata in tempi recenti come tutto Kent Haruf da Enne Enne Editore - è una certa impazienza e un incalzare del tempo che viene a mancare. Nella trama di una vicenda semplice e teneramente paradigmatica - la storia di un amore senile inaspettatamente fiorito e poi, dopo una breve stagione gioiosa, costretto a ridursi a un timoroso mormorio telefonico dalle violenze dell’ipocrisia sociale che giudica e di nascosto invidia la felicità altrui -, si riflette forse lo stato emotivo dell’autore che scrive quest’opera nell’estremo frangente della sua vita (Our Souls at Night verrà pubblicato un anno dopo la morte) come un malinconico ma in fondo non pessimista testamento d’artista. Nonostante tutto, infatti, l’ultima battuta che corre tra Addie Moore a Luis Waters, i due amanti, è una domanda confidenziale, rassicurante, quotidiana - “Fa freddo lì stasera, tesoro?” - che rilancia virtualmente all’infinito un dialogo che si temeva compromesso. Una domanda, quella rivolta da Addie a Luis, che costituisce anche l’ultima riga del libro nonché il rilancio di una speranza ancora presente e attiva. 

Kent Haruf 

Ma prima di questo sapiente epilogo in levare c’è tutta la delicatezza con cui lo scrittore fa avvicinare la settantenne vedova Addie a un altrettanto anziano e vedovo vicino di casa: la schietta e apparentemente sfrontata proposta di venire a dormire da lei, nel suo letto, solo per stare vicini, per raccontarsi, nel buio o alla tiepida luce di un’abat-jour, ritrovando la piacevole, affettuosa intimità che avevano forse sperimentato in un epoca lontana e forse mai con una simile forma di abbandono. E insieme a questa intimità giunge il desiderio di fare cose semplici e buone che tornano ad avere un gusto perduto: un paio di giorni nella natura assoluta, ad esempio, dove ascoltare il rumore dell’acqua in una tenda accanto a un ruscello di montagna mentre la piccola cittadina bigotta chiacchiera e sparla delle visite notturne di Luis, pigiama e dentifricio infilati in un sacchetto di carta come un adolescente scappato dalla finestra, e delle sue scorribande nel paradiso di un miracoloso amore tardivo. Le nostre anime di notte assume per un buon tratto questo carattere di idillio sospeso e minacciato, custodito gelosamente e assediato dalla malevolenza, vissuto da due anime incanutite cui non resta null’altro che donarsi a vicenda il donabile, nel piacere, oltre ogni verosimile tornaconto, di risentirsi puramente vivi, partecipi e testimoni della propria esistenza. Una condizione meravigliosa e precaria, questa passione distillata dagli anni, che accusa una brutale battuta di arresto quando il figlio di Addie Moore, Gene, minaccia la madre di privarla di ogni contatto con l’adorato nipotino Jamie se non interrompe subito la vergognosa relazione con il vicino. Il coraggio dell’anziana donna si stempera di fronte al ricatto avanzato dalla sua stessa famiglia - e qui è di nuovo perfetta l’intuizione di Haruf nel cogliere la fisiologica, improvvisa e remissiva debolezza di un corpo invecchiato - così che i due amanti si allontanano, fino a riaprire, però, nelle battute conclusive la partita interrotta.

   Le loro voci al telefono, niente di più: al momento tutto quello che resta. “Fin quando potremo. Finché dura.”                     

martedì 13 giugno 2017

LA MISURA DEGLI ANNI VINCE IL PREMIO DI POESIA TAPIRULAN PER SILLOGE INEDITA



La raccolta di poesie 'La misura degli anni' ha vinto la sezione per silloge inedita del Premio Tapirulan. La cerimonia di premiazione si è svolta a Cremona lo scorso sabato 10 giugno. Ringrazio tutti i membri della giuria, presieduta dal prof. Paolo Briganti, ordinario di letteratura italiana contemporanea presso l'Università di Parma, l'ospitalissimo staff dell'associazione Tapitulan, in particolare Lorena Montini e French, e Raffaele Sabatino per l'ottima prefazione al volume edito dalle Edizioni Tapirulan nella collana Impronte. Il libro sarà presto disponibile nelle consuete librerie online, sul sito dell'editore e in una catena di librerie fiduciarie nelle principali città italiane.  

  con il prof. Paolo Briganti dopo la cerimonia di premiazione

venerdì 19 maggio 2017

ROBERT GRAVES - ADDIO A TUTTO QUESTO - ADELPHI 2016


Robert von Ranke Graves, uno dei grandi intellettuali eclettici - poeta, saggista e scrittore - del secolo scorso, scrisse questa autobiografia a soli trentatré anni, nel 1929, quando, ufficiale in congedo con una famiglia in frantumi e una patria che non riesce più a sopportare, dice Goodbye to All That e inizia l’avventura dell’esule (germinata ben prima, nell’animo), che trova il suo puerto seguro nella natura ancora semivergine dell’isola di Maiorca, dove scrive e soggiorna fino alla morte, avvenuta nel 1985. La parte iniziale del libro attinge al periodo dell’infanzia e della primissima adolescenza, trascorse prevalentemente a Wimbledon, cittadina in cui abitano il padre irlandese e la nobile madre tedesca, e da cui il piccolo Graves si allontana per passare le vacanze nell’antica casa padronale del nonno vicino a Monaco di Baviera, piena di incanti e misteriose sorprese. E’ al termine di un inquieto pellegrinaggio tra non poche scuole che approda alla Charterhouse, una tra le più prestigiose istituzioni scolastiche private inglesi, dal clima dorato ed ipocrita, intriso di sottaciuto classismo e infervorato da passioni omoerotiche che sono quasi la norma. Ma la Storia incalza e l’intera generazione di Graves verrà decimata dalla guerra imminente. L’allievo ufficiale che il comandante di compagnia definisce “poco militaresco e rompiscatole” si arruola nel glorioso reggimento dei Fucilieri del Galles, con il quale parte per la Francia settentrionale, alla volta di una delle più impressionanti e sistematiche carneficine che la storia abbia conosciuto. “Un terzo della mia generazione scolastica perse la vita” tira le somme in un passo della narrazione. 

Robert Graves in uniforme, 1915

Tutto l’orrore e l’assurdo, i morenti, i cadaveri e il disordine delle trincee, con avanzamenti o arretramenti di poche centinaia di metri che costano lo strazio di migliaia e migliaia di giovani, è riportato dallo scrittore con una precisione agghiacciante, laicamente pietosa, scandendo la cronaca di attese interminabili e feroci battaglie combattute a Béthune, Loos, Annezin, Cambrin, Ipres e tante altre località sulla linea del fronte, e scegliendo per raccontare uno sguardo per nulla fazioso, che prende onestamente atto di una crudeltà e di una condizione umana senza bandiera, per cui anche il mito dei tedeschi più crudeli degli Alleati viene sfatato e la risibilità delle convinzioni religiose e patriottiche emerge in tutta la sua desolante verità. Ogni motivazione precipita nella mattanza in atto sul teatro di guerra e gli uomini si aggrappano ai puri automatismi della sopravvivenza. Ci sono altri poeti, oltre a lui, in quell’inferno, tra cui il caro amico Sigfried Sassoon, che da sopravvissuto, anni dopo, esalterà il pacifismo e dovrà ricorrere, come molti reduci, a cure psichiatriche per sopportare il ritorno continuo di troppi fantasmi. Specie durante i brevi congedi il comandante Graves incontra molti grandi letterati e intellettuali dell’epoca: Aldous Huxley, Lytton Strachey, Bertrand Russell, Wilfred Owen. Il 16 luglio 1916 è ferito gravemente dall’esplosione di uno shrapnel, e i genitori, dopo l’avventata sentenza di un superiore che lo dichiara spacciato, ricevono una lettera formale di condoglianze, morto a seguito di ferite, cui seguirà sulle colonne del Times una divertita smentita del supposto decesso. Il redivivo ufficiale, dopo quattro anni e mezzo in cui ha indossato ininterrottamente la divisa, torna finalmente alla vita civile. Occorrerà molto tempo perché si attenuino le sofferenze psicologiche e le ricorrenti allucinazioni. Intanto, grazie all’interessamento di T.E. Lawrence, il mitico Lawrence d’Arabia, il poeta trentunenne parte con la famiglia e insegna per alcuni mesi letteratura inglese all’Università del Cairo. Ma le avventure accademiche di gusto coloniale, così come l’apatico esotismo di quei luoghi pur fascinosi non fanno per lui. Si licenzia e torna in patria a secco di soldi, con i figli ancora piccoli e un matrimonio agli sgoccioli. Sono questi degli ultimi passi dell’autobiografia di un trentenne che è già ricca di cose vissute come al culmine di un percorso lunghissimo, con un nuovo capitolo che si sta per aprire oltremanica e quello della vecchia Inghilterra lasciato per sempre alle spalle.       

domenica 14 maggio 2017

CAROLE HILLEBRAND - ISLAM - EINAUDI 2016

In questo sconcertante momento storico, con una buona parte del mondo messa a soqquadro da conflitti di interessi armati per cui si inventano semplicistiche e spesso false giustificazioni, mentre siamo costernati di fronte a violenze incomprensibili e immensi dolori di esseri umani innocenti trucidati in nome di una fede che in realtà, per chi la pratica a quel modo, non esiste, sgombrare il campo da equivoci e mistificazioni è il primo passo verso una distensione e una pace ancora lontane. I non musulmani sanno generalmente poco o pochissimo dell’islam e della sua storia; mancano di nozioni fondamentali per capire cosa significa, come si è sviluppata e ramificata l’espressione di questa fede millenaria. Il saggio di Carole Hillebrand, professore di Storia islamica presso l’Università di Edimburgo, studiosa letta e apprezzata anche in paesi islamici, racconta con chiarezza e serietà storiografica, in modo agile e piacevolmente accessibile, la grande avventura iniziata con la rivelazione del Profeta Muhammad. L’Arabia preislamica, la vita e il messaggio del fondatore dell’islam, il sacro Corano, i suoi temi principali e la sua lingua, il Credo che oggi accomuna circa un miliardo e seicento milioni di uomini e donne, i suoi cosiddetti cinque pilastri - la professione di fede, la preghiera, l’elemosina, il digiuno e il pellegrinaggio -, quindi la legge e la sua evoluzione nella giurisprudenza, la diversità dei diversi contesti, in primo luogo quelli sunnita e sciita, e ancora il pensiero islamico e la sua crescita nel mondo antico, medievale e moderno, le vertiginose speculazioni del sufismo con i suoi celebri maestri e la nascita delle secolari confraternite, l’approfondimento del tema scottante del jihad maggiore, quello spirituale contro le proprie insane pulsioni egoistiche, e del jihad minore, che consente di imbracciare le armi a specifiche e determinate condizioni cui gruppi di fanatici sedicenti islamici soprassiedono con efferata ignoranza, infine il ruolo delle donne nello sviluppo delle società musulmane: tutto questo ci consente di approfondire un libro ricco, importante, che giunge in un momento così delicato e drammatico. 


Carole Hillebrand

Mano a mano che ci addentriamo nell’esposizione sintetica e oggettiva di Hillebrand molti pregiudizi e fraintendimenti che ruotano attorno all’idea convenzionale di islam iniziano a dissiparsi e assumiamo una prospettiva storica più corretta in cui inquadrare una religione tanto discussa e temuta, specie da coloro che pretendono di giudicarne l’impatto sulla base esclusiva di eco mediatiche che diffondono quasi solo notizie di crimini e stragi. Rettificando l’opinione corrente, le sanguinose vicende attuali del terrorismo internazionale ci appaiono sempre più chiaramente come gravissime distorsioni di un messaggio che per la stragrande maggioranza dei musulmani rimane quello di pace e tolleranza; l’orrenda pratica della mutilazione genitale femminile, ancora in uso presso diversi popoli di fede islamica, risulta, a un esame documentato, un’eredità di tradizioni locali che non hanno nessun fondamento in prescrizioni coraniche. In modo analogo altre idee comunemente assodate finiscono per essere riviste o interamente smentite. L’uccisione di donne, vecchi, bambini e persone non belligeranti è assolutamente interdetta in tutti i maggiori trattati riguardanti il jihad; i musulmani nativi e residenti nelle regioni arabiche sono il 5% dei musulmani nel mondo ancorché si pensi prevalentemente a quei luoghi e ai loro abitanti per identificare i portatori dell’islam autentico; il tanto dibattuto velo che copre il capelli di molte donne musulmane, lontano dall’essere imposto, è spesso percepito da loro stesse come espressione di libertà e consapevole scelta religiosa; movimenti femministi e riformisti tendono sempre più a rafforzarsi nonostante l’attiva presenza di correnti retrive e tradizionaliste. A discapito di coloro che vorrebbero passare per buona l’immagine monolitica di un islam immutabile e primitivo moltitudini di tranquilli e devoti praticanti scelgono la via della flessibilità e della tolleranza nei mutevoli contesti sociali. Un’enorme distanza, insomma, corre tra le cattive suggestioni dei teatrini televisivi e dei proclami mediatici e una conoscenza più meditata e argomentata, che anche queste pagine aiutano ad acquisire.                                

sabato 15 aprile 2017

GOFFREDO PARISE - GLI AMERICANI A VICENZA - ADELPHI 2016

La storica introduzione di Cesare Garboli a questo volume di racconti di Goffredo Parise è quanto di più raffinato e sapiente si possa chiedere all’esercizio critico. Allargando lo spettro di indagine all'intera parabola umana e creativa dello scrittore vicentino, Garboli spende parole incantevoli sul primo periodo, magico e surrealista, del Ragazzo morto e le comete, caratterizzato da una “rapidità fantastica” e una “velocità distratta” che fanno pensare ai possibili esiti di certe opere di Antonio Delfini; considera con altrettanto ispirato acume la fase in cui il talento visionario assume toni più asciutti e realistici, per approdare finalmente a quell’opera notevolissima e così distante dagli esordi dei Sillabaridove un autore temprato e ferito da una vita spesa senza riserve giunge a una forma di artistica "perfezione seriale, volutamente meccanica"Questa raccolta, in particolare, si consolida attorno al racconto Gli americani aVicenzache uscì per la prima volta insieme ad altre narrazioni brevi nel 1987, poco dopo la morte di Parise. Il suo fulcro ideale è quindi l’affresco degli eventi marginali e bizzarri che si moltiplicano dopo l’arrivo degli americani a Vicenza. Un’aria di provincia nostalgica, punteggiata di ricordi e quadri di epoche andate, colorata dei più strampalati casi umani che la rendono teatralmente surreale, si respira in tutto il libro. 

Goffredo Parise in un'immagine giovanile

L’incontro con una vecchia che mostra l’immagine del figlio morto in guerra e intanto ripercorre il suo lontano passato (La vecchia vicino ai morti); la pedofilia del viscido don Claudio raccontata da uno dei suoi prediletti giovani scolari (L’aceto sulle ferite); la straziante vicenda di Adelina, rinchiusa e forse maltrattata in un convento di clausura (L’orfana);la povertà della fanciullezza rievocata attraverso la visita a certi bisognosi congiunti (I parenti poveri); la visione infantile di un enorme cetaceo trasportato su un camion e messo in mostra ingiro per l’Europa (La balena Jonas); o ancora le voyeuristiche avventure di un bambino nel baule del libertino zio Gennaro, scrigno di piaceri proibiti tra cui spunta una donna nera, immersa in un enorme calice di champagne, realmente incontrata anni dopo in un cinema della periferia milanese (Josephine). È tutto un diorama di bozzetti, questa stralunata e irresistibile provincia italiana, avvicinabile a certe immagini caricaturali e sognanti fiorite dal genio felliniano; ma è anche un imprevisto regalo, questo libro opportunamente ripubblicato da Adelphi. Altri esempi delle umanissime storie registrate dallo scrittore verso la fine anni Cinquanta sono quella dello scolaro dal nome tedesco,Blumenfeld, attorno a cui vertono sospetti di ebraismo, e che accende in chi lo ricorda la consapevolezza tardiva di una società malvagia che insegna il pregiudizio per armarsi contro chi teme superiore (Un compagno di scuola), o quella che illumina il triste destino di una povera venditrice di scherzi d’infanzia soccorsa dal locale comitato di beneficenza, il quale però, constatando che gli aiuti finiscono in sperperi, lascia che la sventurata ritorni alla sua vita di bevitrice errabonda (Cleofe). Solo gli ultimi due racconti fanno eccezione, presagendo, parrebbe, qualcosa dei Sillabari: due parabole sulle meraviglie e soprattutto leassurdità del vivere insieme, dove una giovane sposa viene colta dall’isterica voglia di salire in groppa al condiscendente marito (La moglie a cavallo), e un uomo,nel racconto Laparoladopo una lunga e concordata separazione decide di tornare a far visita alla titubante consorte. "In fondo l’amore non è altro che uno stato perenne di dipendenza, molto simile sotto certi aspetti a quello che si crea tra un padrone e un dipendente. Se non ché, a differenza del padrone e del dipendente, in cui le parti sono precise e antitetiche, in amore e nel matrimonio ognuno dei due partner è padrone e anche dipendente. Con varie oscillazioni di potere che si annullano quanto più i due si amano», Note sapienti,nutrite di meditata disillusione, che lasciano ormai trasparire una vena diversa, concentrata sui dilemmi più amari del vivere.

sabato 11 marzo 2017

PHILIP ROTH - LE NEMESI - EINAUDI 2016


Cosa hanno fatto i protagonisti di questi quattro romanzi di Philip Roth raccolti sotto il titolo del più recente, Nemesi, per meritare quello che hanno avuto in sorte? Quali colpe manifeste o segrete o atti tanto ignominiosi per veder crollare le loro vite sotto i colpi di un destino impietoso? Questa è la domanda esistenziale e metafisica sottesa alle straordinarie prove narrative di quello che è probabilmente il più grande scrittore contemporaneo, erede e interprete della più alta tradizione realistica della letteratura al di là e al di qua dell’Atlantico. Il cardiopatico eroe di Everyman, brillante pubblicitario in pensione afflitto da problemi di salute che lo angustiano fino a perdere la vita sotto i ferri dell’ennesima operazione, è un uomo dalla moralità per molti versi discutibile che abbandona prole e una moglie fedele per accondiscendere a rinnovati e possenti desideri erotici; che a cinquant’anni scopre una libertà convenzionalmente riprovevole, e che comunque non merita la solitudine in cui si vede costretto a passare gli ultimi anni, evitato e disprezzato dai figli e praticamente solo a combattere contro la propria decrepitezza e ad assistere a quella che affligge il proprio scarno entourage di coetanei. Marcus Messner, protagonista di Indignazione, è un ragazzo di grande talento, lucido e onesto, che per sfuggire a un padre paranoicamente soffocante va a studiare in un college lontano da casa, dove la sua brillantezza è invischiata in una rete di ipocrisie cui strenuamente cerca di opporsi. Vittima di malignità e rancoroso perbenismo, nonostante la sua eccellenza verrà spedito in Corea, teatro di guerra in cui subirà una ferita mortale; e proprio nell’agonia delirante, imbottito di morfina, percorre a ritroso la sua amarissima storia. 

Philip Roth in un'immagine piuttosto recente

E’ ancora un impossibile riscatto attraverso la violenta immersione nell’eros che tenta il celebre attore in crisi di L’umiliazione, Simon Axler, avviando una relazione con la giovane lesbica Pegeen: vicissitudine di giochi perversi e ambigue attrazioni che si risolverà con un brutale, umiliante abbandono da parte di lei. Ma l’esemplarità dell’ingiustizia terrena e delle sue discutibili ritorsioni raggiunge l’apice nell’ultimo romanzo della raccolta, Nemesi appunto, dove un ventitreenne dinamico e generoso istruttore di ginnastica, Mr. Cantor, viene coinvolto nella terribile ondata di poliomielite che semina vittime tra i bambini di Newark. Malgrado anch’egli finisca per contrarla, rimanendo seriamente handicappato, il senso di colpa per non aver fatto abbastanza in soccorso dei suoi cari adolescenti unito all’infondato sospetto di essere stato lui stesso la fonte di molti contagi lo accompagneranno per tutta la vita e ne faranno una specie di Giobbe moderno che impreca insieme al cielo e a sé stesso. E’ qui, in quest’opera, che l’interrogazione sul senso dell’esistere si fa esplicita come forse mai prima in Roth, sfociando in un’accusa pesante rivolta al Creatore. Un Dio malvagio, grida Mr. Cantor, che saccheggia vite innocenti e permette la guerra, oppure - nelle parole del testimone, altro reduce della polio che ci racconta la storia - che si vanifica in pura illusione e lascia libero il campo alla semplice e indifferente azione del caso. “A volti si è fortunati e a volte non lo si è. Ogni biografia è guidata dal caso e, a partire dal concepimento, il caso - la tirannia  della contingenza - è tutto. E’ al caso che ritengo Mr. Cantor si riferisse quando vituperava quel che lui chiamava Dio.” Prospettiva assolutamente laica e priva di residue speranze quella della letteratura di Roth.    

domenica 26 febbraio 2017

DON DE LILLO - ZERO K - EINAUDI 2016




Tende all’astratto, la scrittura di De Lillo, plasmando una sorta di realismo allucinato e come scrutando sé stessa da un luogo molto distante; da nessun luogo, in effetti, espressione cara all’autore: il luogo, diremmo, trasparente e ricettivo di una coscienza assoluta, quel punto di vista di un’arte narrativa giunta a un limite estremo di nitore, che percepiamo con un brivido freddo che ci pervade e una forma ambiguo stupore, l’effetto di visioni e immagini colte ad occhi sbarrati, vigili, analitici. Una percezione del mondo che ne riflette una sorta di livida mostruosità, da cui si sottraggono quasi solo ricordi lontani, e che contraddistingue ormai da decenni il maestro americano e il suo inconfondibile stile. Nell’ultimo romanzo, accolto dalla critica come uno dei suoi libri migliori, la trama è ridotta all’essenziale. Ross Lockhard, finanziere multimiliardario, sostiene un avveniristico progetto battezzato Convergence, che programma e realizza il congelamento di corpi umani, tenuti in ibernazione fino al giorno in cui la medicina potrà guarire le malattie che li affliggono. Artis Martineau, seconda moglie di Ross, da tempo gravemente malata, sceglie questa specie di morte, o presunta vita sospesa, e l’uomo più importante tra gli sponsor e creatori di Convergence, la cui sede operativa è nelle spoglie distese del Kazakistan, nonostante le buone condizioni di salute decide di seguire l’amatissima compagna nello stesso destino. 


Don De Lillo

Il punto di vista della narrazione è quello di Jeffrey, il figlio di Ross sulla quarantina, che accompagna il padre in questo luogo dell’Asia centrale dove tutto, come in un nuovo pianeta, appare svuotato dei connotati di una vita ordinaria. Una struttura in gran parte ipogea, il quartier generale di Convergence, labirintica, di corridoi e stanze deserte, sulle cui pareti scorrono video di guerre e disastri naturali e nei cui spazi pencolano fantasmi o alloggiano sculture umanoidi. Si tratta infatti di una destinazione ultimativa, post-umana, curata nei minimi dettagli e regolata da una filosofia che teorizza e diffonde il messaggio di un’inedita forma di perpetuità. Jeffrey, accompagnando Ross nell’epilogo anticipato della propria esistenza, viene a contatto con strane figure, esseri che sembrano sbucare da un’era postatomica o un inquietante, prolungato day after, assistenti deputati a seguire e dare conforto ai candidati al processo di crioconservazione: manipolo di consiglieri e predicatori che fanno pensare a un’insolita setta religiosa o a una combriccola di sofisticati artisti concettuali intenti a fondere saperi scientifici e afflati mistici. Restando vicino al padre in quest’ultima imprevista fase della vita, Jeffrey si trova costretto a fare i conti con il proprio passato e ne ricostruisce in cadenzati flashback i diversi tasselli: in primo luogo il rapporto controverso con il ricchissimo genitore e quello dai tratti ben più dolci e nostalgici con la madre perduta, Madeleine, prima moglie di Ross, da questi pressoché rimossa. Un duplice congedo, quello cui è chiamato Jeffrey: l’addio a un mondo fisico, di persone e di affetti, tra i quali la compagna Emma, con cui vive a New York e che finirà per ritornare all’ex marito, e un addio interiore, come una segreta migrazione e un progressivo ritiro dalla vita attiva. Rifiuta molti incarichi di lavoro, ne accetta finalmente uno, più per tirare avanti che per convinzione, e lentamente, pagina dopo pagina, ci appare sempre più come il contemplatore di un universo che guarda con stupito distacco, registrando ciò che accade da una specie di eternità terrestre. Da un tempo che la scrittura di De Lillo restituisce egregiamente in un finale scandito da frammenti simili, più che a un romanzo, a una sequenza di esercizi meditativi: allucinato under statement da cui emergono scorci di una New York che si concentrano nelle ultimissime battute sulle grida e l’estasi ambigua di un bambino anormale incontrato per caso in un autobus: un essere insolito, ballonzolante accanto alla madre e portatore di un’impressione rivelatrice, “il più puro senso di stupore all’intimo contatto fra la terra e il sole” che quei sussulti di gioia scomposta riescono a suggerire. Un incontro, questo, dopo il quale Jeffrey confessa: “Sono tornato al mio posto, guardando dritto davanti a me. Non avevo bisogno della luce del paradiso. Mi bastavano le grida di meraviglia del bambino.”