Tende
all’astratto, la scrittura di De Lillo, plasmando una sorta di realismo
allucinato e come scrutando sé stessa da un luogo molto distante; da nessun
luogo, in effetti, espressione cara all’autore: il luogo, diremmo, trasparente
e ricettivo di una coscienza assoluta, quel punto di vista di un’arte narrativa
giunta a un limite estremo di nitore, che percepiamo con un brivido freddo che
ci pervade e una forma ambiguo stupore, l’effetto di visioni e immagini colte
ad occhi sbarrati, vigili, analitici. Una percezione del mondo che ne riflette
una sorta di livida mostruosità, da cui si sottraggono quasi solo ricordi
lontani, e che contraddistingue ormai da decenni il maestro americano e il suo inconfondibile
stile. Nell’ultimo romanzo, accolto dalla critica come uno dei suoi libri
migliori, la trama è ridotta all’essenziale. Ross Lockhard, finanziere
multimiliardario, sostiene un avveniristico progetto battezzato Convergence,
che programma e realizza il congelamento di corpi umani, tenuti in ibernazione
fino al giorno in cui la medicina potrà guarire le malattie che li affliggono.
Artis Martineau, seconda moglie di Ross, da tempo gravemente malata, sceglie
questa specie di morte, o presunta vita sospesa, e l’uomo più importante tra
gli sponsor e creatori di Convergence, la cui sede operativa è nelle spoglie
distese del Kazakistan, nonostante le buone condizioni di salute decide di
seguire l’amatissima compagna nello stesso destino.
Il punto di vista della narrazione è quello di Jeffrey, il figlio di Ross sulla quarantina, che accompagna il padre in questo luogo dell’Asia centrale dove tutto, come in un nuovo pianeta, appare svuotato dei connotati di una vita ordinaria. Una struttura in gran parte ipogea, il quartier generale di Convergence, labirintica, di corridoi e stanze deserte, sulle cui pareti scorrono video di guerre e disastri naturali e nei cui spazi pencolano fantasmi o alloggiano sculture umanoidi. Si tratta infatti di una destinazione ultimativa, post-umana, curata nei minimi dettagli e regolata da una filosofia che teorizza e diffonde il messaggio di un’inedita forma di perpetuità. Jeffrey, accompagnando Ross nell’epilogo anticipato della propria esistenza, viene a contatto con strane figure, esseri che sembrano sbucare da un’era postatomica o un inquietante, prolungato day after, assistenti deputati a seguire e dare conforto ai candidati al processo di crioconservazione: manipolo di consiglieri e predicatori che fanno pensare a un’insolita setta religiosa o a una combriccola di sofisticati artisti concettuali intenti a fondere saperi scientifici e afflati mistici. Restando vicino al padre in quest’ultima imprevista fase della vita, Jeffrey si trova costretto a fare i conti con il proprio passato e ne ricostruisce in cadenzati flashback i diversi tasselli: in primo luogo il rapporto controverso con il ricchissimo genitore e quello dai tratti ben più dolci e nostalgici con la madre perduta, Madeleine, prima moglie di Ross, da questi pressoché rimossa. Un duplice congedo, quello cui è chiamato Jeffrey: l’addio a un mondo fisico, di persone e di affetti, tra i quali la compagna Emma, con cui vive a New York e che finirà per ritornare all’ex marito, e un addio interiore, come una segreta migrazione e un progressivo ritiro dalla vita attiva. Rifiuta molti incarichi di lavoro, ne accetta finalmente uno, più per tirare avanti che per convinzione, e lentamente, pagina dopo pagina, ci appare sempre più come il contemplatore di un universo che guarda con stupito distacco, registrando ciò che accade da una specie di eternità terrestre. Da un tempo che la scrittura di De Lillo restituisce egregiamente in un finale scandito da frammenti simili, più che a un romanzo, a una sequenza di esercizi meditativi: allucinato under statement da cui emergono scorci di una New York che si concentrano nelle ultimissime battute sulle grida e l’estasi ambigua di un bambino anormale incontrato per caso in un autobus: un essere insolito, ballonzolante accanto alla madre e portatore di un’impressione rivelatrice, “il più puro senso di stupore all’intimo contatto fra la terra e il sole” che quei sussulti di gioia scomposta riescono a suggerire. Un incontro, questo, dopo il quale Jeffrey confessa: “Sono tornato al mio posto, guardando dritto davanti a me. Non avevo bisogno della luce del paradiso. Mi bastavano le grida di meraviglia del bambino.”
Don De Lillo
Il punto di vista della narrazione è quello di Jeffrey, il figlio di Ross sulla quarantina, che accompagna il padre in questo luogo dell’Asia centrale dove tutto, come in un nuovo pianeta, appare svuotato dei connotati di una vita ordinaria. Una struttura in gran parte ipogea, il quartier generale di Convergence, labirintica, di corridoi e stanze deserte, sulle cui pareti scorrono video di guerre e disastri naturali e nei cui spazi pencolano fantasmi o alloggiano sculture umanoidi. Si tratta infatti di una destinazione ultimativa, post-umana, curata nei minimi dettagli e regolata da una filosofia che teorizza e diffonde il messaggio di un’inedita forma di perpetuità. Jeffrey, accompagnando Ross nell’epilogo anticipato della propria esistenza, viene a contatto con strane figure, esseri che sembrano sbucare da un’era postatomica o un inquietante, prolungato day after, assistenti deputati a seguire e dare conforto ai candidati al processo di crioconservazione: manipolo di consiglieri e predicatori che fanno pensare a un’insolita setta religiosa o a una combriccola di sofisticati artisti concettuali intenti a fondere saperi scientifici e afflati mistici. Restando vicino al padre in quest’ultima imprevista fase della vita, Jeffrey si trova costretto a fare i conti con il proprio passato e ne ricostruisce in cadenzati flashback i diversi tasselli: in primo luogo il rapporto controverso con il ricchissimo genitore e quello dai tratti ben più dolci e nostalgici con la madre perduta, Madeleine, prima moglie di Ross, da questi pressoché rimossa. Un duplice congedo, quello cui è chiamato Jeffrey: l’addio a un mondo fisico, di persone e di affetti, tra i quali la compagna Emma, con cui vive a New York e che finirà per ritornare all’ex marito, e un addio interiore, come una segreta migrazione e un progressivo ritiro dalla vita attiva. Rifiuta molti incarichi di lavoro, ne accetta finalmente uno, più per tirare avanti che per convinzione, e lentamente, pagina dopo pagina, ci appare sempre più come il contemplatore di un universo che guarda con stupito distacco, registrando ciò che accade da una specie di eternità terrestre. Da un tempo che la scrittura di De Lillo restituisce egregiamente in un finale scandito da frammenti simili, più che a un romanzo, a una sequenza di esercizi meditativi: allucinato under statement da cui emergono scorci di una New York che si concentrano nelle ultimissime battute sulle grida e l’estasi ambigua di un bambino anormale incontrato per caso in un autobus: un essere insolito, ballonzolante accanto alla madre e portatore di un’impressione rivelatrice, “il più puro senso di stupore all’intimo contatto fra la terra e il sole” che quei sussulti di gioia scomposta riescono a suggerire. Un incontro, questo, dopo il quale Jeffrey confessa: “Sono tornato al mio posto, guardando dritto davanti a me. Non avevo bisogno della luce del paradiso. Mi bastavano le grida di meraviglia del bambino.”
Nessun commento:
Posta un commento