Giunto alla soglia
della vecchiaia, Paul Auster decide di compiere un viaggio attraverso il
proprio corpo, un’ampia e rabdomantica ricognizione attorno alla sua vita di
sessantaquattrenne che prende le mosse dai segni depositati nella carne, da
quel vestibolo terrestre che con il tempo può trasformarsi in una cartina
tornasole dei patimenti e delle gioie dell’anima di un uomo. Questa la chiave
di un diario che ha spesso il sapore di una spregiudicata confessione, uno dei
libri più belli e anomali dello scrittore americano, che si muove avanti e
indietro nel territorio virtualmente sconfinato delle memorie personali
tracciando un quadro autobiografico che è anche il racconto di una formazione
artistica e di una progressiva iniziazione ai misteri della morte e del
destino. Ci sono esperienze che Auster ritrova nel passato più lontano, come
quelle del giovanile soggiorno parigino, del rapporto sfibrato e ricucito a più
riprese con la prima moglie o degli alti e bassi di una bohème costellata di
speranze e di amarezze: peregrinazioni tra povere soffitte, lunghi periodi di
solitudine e incontri sorprendenti, tra i quali, memorabile, quello con la
spassionata prostituta Sandra, che recita versi di Baudelaire e illustra con incantevole
pazienza al giovane scrittore l’intero Kamasutra di rue Saint-Denis. Se la
scrittura del Diario, in questi casi, è stimolata dalla rievocazione di attimi
salienti del passato, senza un nesso così forte con le tracce depositate nella
carne, altrove è direttamente il corpo a trasformarsi in una vera e propria
mappa capace di guidare a luoghi e fatti anche rimossi. “Ogni volta che arrivi
a un bivio il tuo corpo cede, perché il tuo corpo ha sempre saputo quello che
la tua mente non sa”. Una cicatrice sul volto riconduce all’infanzia, ai giochi
e alle competizioni sportive dell’adolescenza, all’universo misterioso e
trepidante delle prime avventure allo scoperto, dei soccorsi e delle premure
materne; le gravi crisi di panico di cui ha sofferto lo scrittore in età adulta
sono state risposte a traumi e lutti di fronte a cui le lacrime restavano
bloccate alimentando crescenti tensioni interiori destinate a esplodere. Il
ventaglio aperto delle radici familiari conduce Auster a un’indagine che si arresta
ai quattro nonni ebrei dell’Europa orientale; oltre è l’insondabile “melting
pot di tante civiltà in conflitto in un unico corpo”. Si tratta di un complesso
quadro originario che diventa “una posizione morale, un modo per eliminare la
questione della razza, che secondo te è una domanda fasulla, una domanda che
può solo disonorare chi la pone, e perciò hai deciso di essere tutti e ognuno,
di abbracciare tutti dentro di te per essere te stesso in un modo più pieno e
libero, in quanto chi tu sia è un mistero e non speri che sarà mai risolto.” I dolori
e l’intensità del libro crescono fino a toccare il vertice quando il racconto
si concentra sulla figura della madre: sul suo primo, infelice matrimonio,
sulla scomparsa tragica e improvvisa del secondo marito e sulle continue
oscillazioni tra inquietudine, vanità e generosa brillantezza, fino alla morte,
anch’essa inattesa e repentina. La malattia e la morte. Il deperimento e la
scomparsa al termine di lancinanti sofferenze. Quest’opera di Auster, pur non
mancando di ironia e momenti di trasparente levità, si rivela implacabile nel
registrare i segni dell’estenuante marcia verso l’estinzione, come nel caso
della terribile fine pel SLA della nonna materna. Un’opera che ubbidendo alla
sua vena rabdomantica abbraccia un panorama di temi assai diversi e diviene
infine meditazione sulla natura stessa
dello scrivere: nient’altro, nel profondo, che un’espressione della musica del
corpo.
Paul Auster
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