Conosco abbastanza Angelo Ferracuti da intuirne
il timbro della voce nella qualità della scrittura. Leggerlo è quasi come
sentirlo raccontare le sue storie; una cadenza e un timbro che le ancorano alla
terra, scansando la fisima stilistica e cercando piuttosto l’onestà nella
testimonianza sobria, quanto più possibile trasparente e veridica, di ciò che è
accaduto. O meglio di ciò che gli è
accaduto e ha potuto toccare con le mani, avvicinare con gli occhi, mettere
alla prova dei sensi. Ferracuti è reporter per vocazione prima
che per scelta, e le sue doti narrative guadagnano il passo migliore se
poggiano sull’esperienza diretta delle cose, dei paesaggi, degli esseri. In
tempi di evasioni virtuali, profili online e astratte elucubrazioni, lo
scrittore marchigiano continua a rimanere dalla parte del realismo -
l’intramontabile realismo, non un capitolo di letteratura ma la sua necessaria radice
umana, la sua sostanza legata stretta all’esperienza percettiva, qualsiasi
mondo voglia aprirci. La metà del cielo
porta a un limite esemplare questa fedeltà al vissuto, unendo romanzo e
reportage, prestando corpo vero alla finzione e ingaggiando una sfida
ultimativa tra parole e vita. Angelo perde la prima moglie Patrizia quando ha
solo quarantadue anni, colpita da un tumore inarrestabile. E proprio la morte,
la più insolubile delle pagine bianche, gli chiede di scrivere un libro “che
non avrebbe mai voluto vivere”, cresciuto per frammenti in un percorso annoso e
terminato quando anche le lacrime si sono esaurite e il dolore è giunto a una specie
di catarsi.
Angelo Ferracuti
Tra queste lontane sponde di un
personalissimo calvario - la lancinante perdita e il sollievo di una pace
giunta al culmine della rammemorazione - si snodano pagine che lambiscono le
fasi salienti di una storia d’amore e intercettano eventi di portata storica. Il
libro diventa così mémoir interiore e
romanzo di formazione, cronaca di un ferita intima e di uno snodo generazionale.
Il corteggiamento, il primo bacio, la caduta del muro di Berlino e delle Torri,
la claustrofobia di una provincia tanto vicina al cuore quanto insopportabile, l’impegno
politico, la deriva di compagni slittati nella disperazione e nella violenza,
l’adoperarsi per una svolta che fermasse l’annichilente voracità del capitale e
la delusione di fronte a una lotta di classe ridotta a pura invidia sociale. In
mezzo a tutto ciò corsie d’ospedale, estenuanti attese, visite oncologiche, una
sofferenza che rode il corpo e l’anima fino al respiro che si arresta e a un
amore che continua il suo viaggio nel ricordo, e forse oltre. “Sento che nei
momenti importanti mia madre mi protegge” confida una delle due figlie al padre,
“come se una forza mi sostenesse.” L’imbarazzato assenso sembra trasformarsi
all’improvviso in una condivisione misteriosa.
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