E’ un lavoro paziente, minuzioso, costato
svariati ritorni sui luoghi, tra la gente che li vive quotidianamente, a caccia
di impressioni dirette, emozioni vivide, con la preoccupazione costante di una
verità umana profonda, come fa sempre Angelo Ferracuti, artefice di una
preziosa serie di imprese, prima che di opere, indispensabili per capire le
ferite scottanti del nostro paese, i drammi patiti per la feroce avidità del
profitto e di una fallace idea di sviluppo che dimentica intere comunità sull’orlo
del baratro. E’ questo il modo in cui racconta la crisi il reporter e narratore
di Fermo, scegliendo quella parte d’Italia più compromessa da imperdonabili
errori politici intrecciati a grandi speculazioni economiche: la terra sarda
del Sulcis-Iglesiente, il bacino minerario attivo da secoli e progressivamente
spogliato di risorse fino a divenire la regione più povera d’Europa, “cariata
da crisi cicliche, e da uno sviluppo caotico e spontaneo.” Ferracuti si aggira
tra i cadaveri delle miniere dismesse, si installa in una pensioncina della
spopolata città di Carbonia per registrare il dissesto sociale causato da una
disoccupazione dilagante ormai sfociata in miseria - una miseria incredibile
per un paese che non si direbbe, se non ne si tastano le zone dolenti, afflitto
da grave sottosviluppo -, percorre chilometri lungo stradine strette e
spettrali raccogliendo storie commoventi di anziani che dormono in macchina, di
famiglie che sopravvivono grazie alla solidarietà di vicini poco più fortunati.
E mentre si cala anima e corpo nel territorio conduce ricerche a ritroso,
ricostruisce la storia di questi luoghi e dei loro abitanti, la vicenda della secolare
produzione mineraria, le rivendicazioni sindacali, gli scioperi e le lotte
costate sangue di molti lavoratori, come nell’eccidio di Iglesias del 1920; e
ancora racconta con minuzia la durissima filiera del carbone, questa vita odiata
e amata da generazioni di minatori uniti da una forma di straordinaria
fraternità.
Angelo Ferracuti
Addio è un libro in cui
la forza stilistica, sinuosa e umorale, dello scrittore si unisce allo studio e
alla meticolosa ricerca delle informazioni necessarie al suo affresco; un libro
in cui la passione e lo scrupolo agiscono in contrappunto continuo, la
letteratura e l’impegno sociale si alleano in vista di un obiettivo ambizioso e
centrato. Bacu Abis, Fluminimaggiore, Buggerru, Montevecchio, il borgo fantasma
di Ingurtosu, un tempo, quando il carbone veniva imbarcato sulla vicina
spiaggia di Piscinas in direzione di Carloforte, abitato da 10000 persone. Sono
tutti luoghi in cui si moltiplicano gli incontri con testimoni e reduci
sconfortati, irati, malinconici, il cui lamento mantiene sempre e comunque la dignità
e la fierezza dell’appartenenza lontana a una stirpe coriacea, solidale,
allenata alla concreta asprezza del vivere. Delle miniere e della discesa nei
visceri della terra apprendiamo poi un aspetto iniziatico, quella mistica del
sottosuolo che ci introduce alla zona del sacro; e atale proposito viene
ricordato Mircea Eliade e i sacrifici apotropaici praticati in Africa prima di
scavare i pozzi per l’acqua. Anche molti autori, classici e contemporanei, che
si sono occupati di miniere e minatori trovano posto nel diramarsi eclettico
delle pagine di Addio: Zola, Orwell,
Levi, Vittorini, fino al romanzo neoverista Terra
del carbone dell’ingegnere Valerio Tonini o alla narrazione corale di
Sergio Atzeni Il figlio di Bakunin.
Nella complessa indagine di questo “romanzo sulla fine del lavoro”, come suona
il sottotitolo, rientrano interviste a medici, che relazionano circa la
crescita delle patologie in una zona in attesa di adeguate bonifiche, a operai
che fondano nel cuore delle fabbriche gruppi ribelli di rock metalmeccanico, a
conduttori di radio locali che danno voce al malcontento, a sindaci e
sindacalisti. Fino all’imprevisto salto finale all’estremo nord dell’Europa, in
Islanda, dove Ferracuti va a scoprire i devastanti misfatti dell’Alcoa, la
multinazionale americana che è stata la principale responsabile del disastro
sardo, e che, complice l’italiana Impregilo, ha devastato con un’immensa diga 3000
chilometri quadrati di paesaggio incontaminato per portare energia a una fonderia
per la produzione di alluminio cui è consentito, in deroga al protocollo di
Kyoto, di inquinare più che nel resto Europa.
Recensione pubblicata su Il Cittadino il 24/11/2011 :
http://www.ilcittadino.it/p/notizie/speciale/2016/11/24/ABdKoxJL-lavoro_vergogna_dentro_viscere.html
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