VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

giovedì 24 novembre 2016

ANGELO FERRACUTI - ADDIO - CHIARELETTERE 2016



E’ un lavoro paziente, minuzioso, costato svariati ritorni sui luoghi, tra la gente che li vive quotidianamente, a caccia di impressioni dirette, emozioni vivide, con la preoccupazione costante di una verità umana profonda, come fa sempre Angelo Ferracuti, artefice di una preziosa serie di imprese, prima che di opere, indispensabili per capire le ferite scottanti del nostro paese, i drammi patiti per la feroce avidità del profitto e di una fallace idea di sviluppo che dimentica intere comunità sull’orlo del baratro. E’ questo il modo in cui racconta la crisi il reporter e narratore di Fermo, scegliendo quella parte d’Italia più compromessa da imperdonabili errori politici intrecciati a grandi speculazioni economiche: la terra sarda del Sulcis-Iglesiente, il bacino minerario attivo da secoli e progressivamente spogliato di risorse fino a divenire la regione più povera d’Europa, “cariata da crisi cicliche, e da uno sviluppo caotico e spontaneo.” Ferracuti si aggira tra i cadaveri delle miniere dismesse, si installa in una pensioncina della spopolata città di Carbonia per registrare il dissesto sociale causato da una disoccupazione dilagante ormai sfociata in miseria - una miseria incredibile per un paese che non si direbbe, se non ne si tastano le zone dolenti, afflitto da grave sottosviluppo -, percorre chilometri lungo stradine strette e spettrali raccogliendo storie commoventi di anziani che dormono in macchina, di famiglie che sopravvivono grazie alla solidarietà di vicini poco più fortunati. E mentre si cala anima e corpo nel territorio conduce ricerche a ritroso, ricostruisce la storia di questi luoghi e dei loro abitanti, la vicenda della secolare produzione mineraria, le rivendicazioni sindacali, gli scioperi e le lotte costate sangue di molti lavoratori, come nell’eccidio di Iglesias del 1920; e ancora racconta con minuzia la durissima filiera del carbone, questa vita odiata e amata da generazioni di minatori uniti da una forma di straordinaria fraternità. 

Angelo Ferracuti

Addio è un libro in cui la forza stilistica, sinuosa e umorale, dello scrittore si unisce allo studio e alla meticolosa ricerca delle informazioni necessarie al suo affresco; un libro in cui la passione e lo scrupolo agiscono in contrappunto continuo, la letteratura e l’impegno sociale si alleano in vista di un obiettivo ambizioso e centrato. Bacu Abis, Fluminimaggiore, Buggerru, Montevecchio, il borgo fantasma di Ingurtosu, un tempo, quando il carbone veniva imbarcato sulla vicina spiaggia di Piscinas in direzione di Carloforte, abitato da 10000 persone. Sono tutti luoghi in cui si moltiplicano gli incontri con testimoni e reduci sconfortati, irati, malinconici, il cui lamento mantiene sempre e comunque la dignità e la fierezza dell’appartenenza lontana a una stirpe coriacea, solidale, allenata alla concreta asprezza del vivere. Delle miniere e della discesa nei visceri della terra apprendiamo poi un aspetto iniziatico, quella mistica del sottosuolo che ci introduce alla zona del sacro; e atale proposito viene ricordato Mircea Eliade e i sacrifici apotropaici praticati in Africa prima di scavare i pozzi per l’acqua. Anche molti autori, classici e contemporanei, che si sono occupati di miniere e minatori trovano posto nel diramarsi eclettico delle pagine di Addio: Zola, Orwell, Levi, Vittorini, fino al romanzo neoverista Terra del carbone dell’ingegnere Valerio Tonini o alla narrazione corale di Sergio Atzeni Il figlio di Bakunin. Nella complessa indagine di questo “romanzo sulla fine del lavoro”, come suona il sottotitolo, rientrano interviste a medici, che relazionano circa la crescita delle patologie in una zona in attesa di adeguate bonifiche, a operai che fondano nel cuore delle fabbriche gruppi ribelli di rock metalmeccanico, a conduttori di radio locali che danno voce al malcontento, a sindaci e sindacalisti. Fino all’imprevisto salto finale all’estremo nord dell’Europa, in Islanda, dove Ferracuti va a scoprire i devastanti misfatti dell’Alcoa, la multinazionale americana che è stata la principale responsabile del disastro sardo, e che, complice l’italiana Impregilo, ha devastato con un’immensa diga 3000 chilometri quadrati di paesaggio incontaminato per portare energia a una fonderia per la produzione di alluminio cui è consentito, in deroga al protocollo di Kyoto, di inquinare più che nel resto Europa. 

Recensione pubblicata su Il Cittadino il 24/11/2011 :

giovedì 6 ottobre 2016

CHRISTOPHER ISHERWOOD - IL SIGNOR NORRIS SE NE VA - ADELPHI 2016


Christopher Isherwood, giovane intellettuale anticonformista e omosessuale, già amante del poeta Wystan Hugh Auden, del quale resterà in seguito amico per tutta una vita, lascia l’Inghilterra al principio degli anni Trenta per un lungo soggiorno a Berlino, che farà da sfondo alle sue celebri ‘storie berlinesi’, tra le quali questo romanzo riproposto da Adelphi, luminoso per l’impeccabile stile del classico inglese, stupefacente per il precoce acume psicologico e preziosissimo nel restituire il drammatico quadro di una società in cui il nazismo è alle ultime fasi della sua catastrofica ascesa. A bordo di un treno che lo sta riportando nella città in cui si arrangia grazie a ripetizioni di lingua, William Bradshaw, alter ego dello scrittore, incontra Arthur Norris, gentiluomo piuttosto attempato dai modi sofisticati e un’aura particolarmente ambigua, diretto in Germania per misteriosi affari. E’ l’avvio di un’amicizia coltivata con curiosità e circospezione da William, che si addentra nel mondo raffinato e osceno di Arthur, sul quale gravano sospetti di passate detenzioni per reati ineffabili. Accanto a quest’uomo dalla battuta pronta e vagamente blasé, timido e accorto, gentilissimo e sibillino, appare tutta una rosa di personaggi bizzarri: il segretario Schmidt, maneggione e arrogante, dietro cui si intravede l’ombra del ricatto, compiacenti ragazze che si prestano a giochi di natura sadomasochistica, l’effeminato barone von Pregnitz, campione di un’aristocrazia sfibrata e smarrita in artificiosi quanto precari paradisi terrestri, oltre all’adorabile signora Schroeder, locatrice dell’appartamento di Norris, e a poche altre figure che completano il cesellato ritratto di una mondanità presto travolta dal precipitare della storia tedesca. 

un'immagine giovanile di Christopher Isherwood

La capacità di oscillare tra privato e pubblico, vicissitudini individuali e sociali è uno dei tratti salienti del romanzo di Isherwood, che intriga nei labirinti delle relazioni umane e apre al tempo stesso scenari su eventi di rilievo collettivo. In una Berlino sconquassata da disoccupazione, violenze e disordini sociali, in cui “le riunioni politiche erano affollatissime e costavano meno che andare al cinema o all’osteria a ubriacarsi”, Arthur inizia a frequentare le riunioni semiclandestine e monitorate dalla polizia del movimento comunista, a cui interviene anche il suo “caro ragazzo” William, dando spettacolo di facondia ammirevole e profondendosi in relazioni attorno alle condizioni dei lavoratori nell’Estremo Oriente governato dall’Impero britannico. Contraddizione morale insolubile, quella tra l’impegno per la causa del popolo e le fosche trame affaristiche di Norris, che si scioglierà quando Bradshaw verrà a conoscenza della sua attività di infiltrato e di spia dissimulata sotto la maschera della passione umanitaria e delle buone maniere sociali. Ma nonostante l’amaro colpo di scena l’amicizia tra i due, anziché terminare, prenderà la direzione di un imprevisto perdono, e William, incline per orgoglio e giustizia alla rottura, finirà con l’arrendersi intuendo una verità superiore. “Arthur appariva per il momento beatamente inconscio di quanto aveva commesso. Ne fui lieto. Sentii anzi un’improvvisa ansietà di proteggerlo, perché non capisse pienamente l’enormità del fatto. Il rimorso non è adatto per le persone anziane. Quando queste sono assalite dal rimorso, il rimorso non le redime, non le purga né rialza, ma le degrada soltanto e le rende miserabili come una malattia schifosa.” Tutto ciò poco prima che arresti illegali, torture e perquisizioni domiciliari infieriscano come decisive sciagure sull’intera vicenda, conclusa mentre si apre l’osceno sipario dell’abiezione nazista. 

(recensione pubblicata su Il Cittadino il 6/10/2016:

giovedì 1 settembre 2016

ANNIE ERNAUX - L'ALTRA FIGLIA - L'ORMA EDITORE 2016



Tutto è raffinato, assorto, sospeso nella scrittura di Annie Ernaux, autrice francese di culto, insignita nel 1984 del Premio Renaudot per Il Posto e del Premio Maguerite Duras, nel 2008, per Gli anni: un’opera, la sua, che trasforma l’esperienza autobiografica in un’indagine inesausta sul senso della propria vita, degli accidenti e delle tappe che ne marcano il percorso, condotta con i mezzi di una letteratura che punta all’essenziale. “Scendere a ogni libro dentro ciò che non conoscevo in anticipo”: questo il proposito dell’Ernaux, ma anche la sua pratica costante, come dichiara in modo esplicito in quest’ultimo romanzo breve, tradotto e confezionato con preziosa cura editoriale dall’editore L’Orma. L’altra figlia ha la forma di una lettera indirizzata a Ginette, sorellina morta due anni e mezzo prima che nascesse chi le scrive: un lutto appreso quasi per errore da una conversazione della madre e rimasto da quel momento dell’infanzia un enigmatico non detto tenuto a debita distanza da entrambi i genitori e trasformatosi nel tempo in una mancanza sempre più astratta e fondamentale. Il racconto, in una continua messa a fuoco di tracce, indizi e scampoli di memorie che ritornano all’epoca infantile e a quella della prima giovinezza, ricostruisce il quadro di un nucleo familiare e la storia di una bambina ossessionata da un doppio estinto con cui si sente eternamente messa a confronto: un’ombra che la assilla e che tenta di riesumare grazie a una sorta di esorcismo postumo. “Che ti stia scrivendo per resuscitarti e ucciderti un’altra volta?” Il percorso autobiografico compone per accensioni rapsodiche e fulminee un privato affresco di vita provinciale spesa tra i piccoli comuni della nativa Lillebonne e di Yvetot, dov’è il cimitero di famiglia, nella Senna Marittima, ma lambisce anni anche più tardi, quando la madre si ammalerà di Alzheimer e il padre verrà calato - siamo già nel giugno del 1967 - nella fossa accanto a quella di Ginette. Nel metodico esercizio della memoria, la scrittrice sembra trovare un antidoto e un contraltare al disordine insensato del presente, quasi che la nitidezza delle immagini più lontane possa compensare la caotica profusione delle attuali, ed è frutto di maestria ormai sperimentata il modo in cui ci fa intuire esattamente dove siamo limitandosi a pochi tratti dall’intensa forza evocativa, muovendosi agilmente tra i decenni di una vicenda condensata in un’ottantina di pagine dalla marginatura alquanto generosa. 

                                                                    Annie Ernaux

Intrecciata a questa storia, come un’indagine semisommersa che riemerge qua e là con interrogazioni nette e lancinanti, ferve la domanda sul più intimo senso dello scrivere, sulla sua profonda urgenza e le sue istanze: quasi una storia parallela unita saldamente a quella più evidente degli accadimenti personali e storici: due aspetti, in fondo, di una medesima ricerca spartita tra un dentro e un fuori, tra un racconto di fatti e supposizioni e dei bisogni che ne hanno resa ineludibile la testimonianza. Letteratura e vita, dunque, come universi che si reggono su una continua osmosi e diverrà impossibile tenere dissociati. Non a caso affiorano i nomi di Pavese, suicida, si suppone, nel giorno in cui giunge la notizia della morte di Ginette, e di Kakfa, citato in un terribile momento della Lettera al padre. E’ in questa trama più nascosta, nel dialogo instancabile tra ciò che accade all’interno e al di là del testo, in questa ‘maledizione’ dell’irrealtà, o di una realtà così evasiva da dover essere ricreata una seconda volta, che si annida il segreto sprone dell’avventura letteraria, capace di rimettere al suo mondo, sulle ceneri di pochi scatti in bianco e nero o dietro all’eco di evanescenti e lontanissime parole, anche una labilissima e quasi solamente immaginata sorellina estinta. “Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io possa scrivere, fa una grande differenza”. Una vita o una morte - qui confuse - che delegano alla letteratura, orfana dell’impossibile, la messa in scena di una meravigliosa resistenza.

(la recensione è apparsa su Il Cittadino del 1/09/2016 :
http://www.ilcittadino.it/p/notizie/speciale/2016/09/01/ABhKhsWK-annie_ernaux_morte_letteratura.html )

venerdì 19 agosto 2016

GIANNI CELATI - STUDI D'AFFEZIONE PER AMICI E ALTRI - QUODLIBET 2016


Meno battuta, vivissima e immune dal dover essere che ammorba le tendenze letterarie conclamate è la linea che indica Celati in questa raccolta di lezioni ed esercizi critici riguardanti alcuni degli autori da lui più amati, interpreti di una letteratura estranea alla ricerca del facile consenso e marcata da una propria intensa qualità poetica. Partendo da una ricognizione attorno a maestri antichi più e meno noti, lo scrittore nato a Sondrio nel ’37, con uno stile lieve, duttile e sapientemente antiretorico che ne accomuna i saggi ai testi narrativi, racconta della straordinaria verve del Boccaccio novelliere, destinata ad essere addomesticata e stinta dai suoi epigoni per poi rinascere nella miracolosa apparizione del Cunto de li cunti di Basile; passa all’Ariosto e a quell’‘incatturabile oggetto dei desideri’ che disinnesca l’arte delle trame, pensata quasi come un’arte tessile, con una simultaneità di linee che leva al tempo una specifica durata e consente libere contraddizioni, immaginazione piena e metamorfosi continue; si dedica quindi allo scarsamente letto Tommaso Garzoni, animato da vena comica e rabelesiana, che pubblica nel 1585 La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo, inventario onnivoro di attività e mestieri che ricorda la fantastica e dettagliatissima congerie pittorica di Bruegel. Altro trascurato narratore ottocentesco dall’umorismo audace rivalutato al meglio da questi celatiani Studi d’affezione è Vittorio Imbriani, che ricorre perfino all’arzigogolo, allo sgorbio e allo scarabocchio pur di far brillare la sua favola più movimentata e memorabile, Mastr’Impicca, tesa nel dilemma tra ingenuità e ironia, idillio e satira. 

un'immagine di Gianni Celati

Ci avviciniamo progressivamente a noi e agli autori di un Novecento trasversale: quello di Federigo Tozzi, con la sua meravigliosa Ghisola di Con gli occhi chiusi, creatura femminile simile a ‘un animale umano radicalmente insalvabile, senza le finzioni di salvezza su cui si basano i modelli umani approvati’, e con quel suo sguardo ‘dal di dentro’ che sbaraglia le consuete trame narrative così come il fittizio romanzesco. Silvio D’Arzo (1920-1952) è una limpida meteora che con un sentimento dell’universale estraneità e una reticenza prossimi ai colori astratti e raffinati di Henry James elimina dai suoi racconti il simbolismo dell’azione e l’insipiente culto dei fatti. Il dotto e leggerissimo Celati approda nel penultimo di questi scritti a una delle più alte e meno frequentate voci del secolo scorso, Antonio Delfini, che nelle rapsodie affilate dei Diari ci restituisce un raro affresco dei costumi del suo tempo, e sciogliendo corpo e anima in una prosa da incantato perditempo - il superiore ozio assunto per chiamarsi fuori da ogni logica competitiva - pubblica con Il ricordo della Basca il libro di racconti forse più bello del Novecento italiano. Chiude questo spassionato e rischiarante volumetto il Discorso sull’aldilà della prosa, in cui alle bolsaggini retoriche dei troppi seguaci del Manzoni - con l’eccezione di una figura come Gadda, capace di radicalizzarne l’impianto e le premesse per reinventarsi un universo a parte -, si preferisce ‘la linea astratta della prosa leopardiana’, che ‘non mette in prosa blocchi di pensiero già pronti, ma insegue idee che si sviluppano man mano nel flusso delle parole’: linea erratica e frammentaria, fulgida nelle Operette morali, che dà origine a una limitata riserva di scrittori e pensatori successivi, tra i quali, per ricordarne alcuni, Carlo Michelstaedter, autore di un unico libro filosofico dove ‘la moralità dell’ottimismo moderno viene messa duramente in questione’, Giorgio Manganelli, per cui ‘ogni idea di progresso storico diventa l’idea di un disastro che si espande’, e i contemporanei, prossimi al Celati stesso, Daniele Benati ed Ermanno Cavazzoni.  

domenica 12 giugno 2016

SOLO COSI'


Poteva finire solo così,
sopra un foglio al rovescio,
incerta, smaccata,
a strappi e per soste
lunghe di esitazione.

Poteva finire soltanto
un attimo prima di fermarsi,
cogliendo il rumore imprevisto,
l'equilibrio malcerto del bimbo,
lo scalpiccio delle suole,
le grida che passano il vetro,
e il fiato,
le soste
- sempre di più,
sempre più puntuali -

e tutto il ronzio dell'ambiente,
l'ape elettronica,
la muta dolcissima cantilena del giorno.

(testo edito nell'Antologia EJELE dell'Associazione Tapirulan, 2016)