VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

lunedì 24 settembre 2012

JOHN O'HARA - APPUNTAMENTO A SAMARRA


Di ottima famiglia borghese, figlio dello stimato primario di una piccola cittadina della Pennsylvania, Julian English è sposato con l'onesta e avvenente Caroline. La vigilia di Natale del 1930, al circolo Lantenengo, ha inizio la prima tappa del suo breve e disastroso calvario. Sul solito palcoscenico di quarta provinciale, nel corso della consueta cerimonia trasudante snobismo stantio, l'intera società bene di Gibbsville è presente alla scena, pronta a dar fondo a meschine gelosie fondate su arbitrari indizi e ad accendere la miccia dei suoi troppi annoiati livori. Julian, ubriaco, getta un bicchiere di whisky in faccia al magniloquente barzellettaio Harry Reilly, irlandese, cattolico nonché proprietario della concessionaria di auto di lusso per la quale lo stesso Julian lavora. E' uno sfogo istantaneo e improvviso che sceglie un pretesto, più che un obiettivo reale, per voltare le spalle a un mondo e precipitare senza alternative plausibili in un vortice di maledettismo alcolico. Lo scandalismo della gente di Gibbsville non si fa attendere e i pettegolezzi corrono fino ai fantastici retroscena di una relazione amorosa tra Harry Reilly e Caroline English. Julian, ormai impermeabile a ogni chiacchiera, nei tre giorni che seguono, anziché arrestarsi, moltiplicherà le sue sbornie compiendo gesti sempre più plateali e pericolosi. Il romanzo di John O'Hara, autore americano a suo tempo celeberrimo e lodato da Hemingway, di cui l'editore minimum fax avvia un'interessante riscoperta, condensa l'azione narrativa tra la sera della vigilia di Natale e la notte di Santo Stefano. Il sipario, sullo sfondo della Grande Depressione e del proibizionismo, si apre lentamente sulla società dell'America provinciale anni 30' restituendone scorci eloquenti, come quelli sulla vita degli immigrati nelle miniere di carbone, o ritratti vivissimi, tra cui quello di Tony Murasco, alias Al Greco, figlio di italiani che si districa in mezzo a vari furtarelli, tenta la carriera di pugile, assaggia la prigione, diventa un asso alla carambola e finisce per lavorare per il temibile contrabbandiere di alcolici Ed Charney. L'arena in cui le contraddizioni dell'amara e fulminea parabola del protagonista toccano le corde forse più drammatiche è quella della relazione con la moglie Caroline, che offre a O'Hara l'occasione di addentrarsi nelle dinamiche erotiche e amorose della coppia. I due, pur amandosi, non riescono a comprendersi. La rigidità forgiata nel perbenismo familiare di lei si scioglie completamente solo nei momenti di maggiore intimità dove la sottomissione nell'atto amoroso fa da controcanto alla forza spadroneggiante nelle restanti faccende della vita. Julian è invece un uomo che sta dando fuoco a tutto ciò che lo tiene legato al contesto di Gibbsville e la forza centrifuga coinvolge nel rogo anche il suo sentimento più caro. Enormemente ubriaco corteggia l'amante compiacente del boss Ed Charney sotto gli occhi di sua moglie e del guardiano Al. Si assenta con lei per addormentarsi in macchina mentre tutti li credono attori di un'avventuretta peccaminosa. Anche Caroline fraintende e ne resta avvilita. Ma Julian non si arrende e a un altro circolo cittadino combina l'ennesimo guaio, una rissa in cui malmena un avvocato polacco, mette a terra un cugino menomato della moglie e scaglia una caraffa contro un terzo malcapitato. Poi prende la macchina e si allontana da Gibbsville nel gelo invernale. Quando si accorge del nulla che lo attende, non diverso da quello che si è lasciato alle spalle, fa retromarcia, diserta un appuntamento importante e si seppellisce nel salotto di casa da cui la moglie è scappata. "Adoperava il vaso di fiori per bere da fermo e il bicchiere quando si muoveva." La sua avventura finirà di lì a poco. A trent'anni. Il 26 dicembre 1930. 

John O'Hara
 fiori per bere da fermo e il bicchiere quando si muoveva.iato alle spalle, fa retromarcia, diserta un appun  

sabato 15 settembre 2012

MARCO AIME - IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA


L’immagine dell’antropologo vecchio stampo, metà scienziato e metà avventuriero in mondi e società sconosciute, è stata oggi sostituita da quella di uno studioso alle prese con un complesso sistema di relazioni umane da sondare verificando di continuo la propria posizione di osservatore. L’antropologia culturale, prese le distanze dall’etnocentrismo di matrice coloniale, predilige un atteggiamento relativista, consapevole del fatto che la metodologia di approccio condiziona i risultati e che l’equilibrio da ricercarsi corre lungo il labile confine tra sguardo eccentrico e osservazione partecipante. Marco Aime, in questo libro che è un compendio del pensiero antropologico degli ultimi due secoli e al tempo stesso una sua rilettura originale, sceglie per la sua esposizione un approccio “percettivo” e attraversa molteplici sistemi culturali partendo da concetti elementari quali corpo, procreazione, alimentazione, comunicazione, scambio, creatività, credenze soprannaturali. Dopo una panoramica introduttiva sulle diverse scuole di pensiero cha vanno dall’evoluzionismo sociale della seconda metà dell’Ottocento al postmodernismo statunitense nato negli anni Settanta del Novecento sulla scia della decolonizzazione, l’indagine attorno al corpo racconta la sua trasformazione, comune a tutte le società, da corpo naturale in corpo culturale. Le capigliature rasta delle popolazioni oromo dell’Etiopia, le pitture facciali e quelle corporali degli hagen della Nuova Guinea, le scarificazioni e i tatuaggi, questi ultimi di origine polinesiana ed esportati in occidente dai marinai dell’epoca, sono segni di un corpo malleabile. Si tratta di interventi che incidono a volte oltre la pelle, come nel caso dell’allungamento del collo, dei piattelli labiali, della dolicocefalia o allungamento del cranio presso i mangbetu congolesi, della compressione dei piedi e delle mutilazioni genitali, fino alle varie pratiche della chirurgia estetica e a quella del piercing. In conformità all’idea di un uomo che inventa la propria vita restando in bilico tra natura e cultura, pulsioni istintive ed elaborazioni concettuali, anche la procreazione, la crescita e la morte sono percepite in modo specifico nei differenti contesti sociali. Il parto gemellare può essere considerato un segno malefico o una benedizione. L’età biologica assume un significato sociale grazie a un sistema di divisione della popolazione per classi di età che ubbidisce alle regole delle diverse culture. L’idea di “commestibilità culturale” ci trasforma da semplici mangiatori biologici a mangiatori sociali di un cibo che dev’essere prima di tutto “buono da pensare”, filtrato da condizionamenti religiosi e rigore tradizionale. Le forme di linguaggio, così come le scritture, siano esse pittografiche, logografiche, ideografiche o alfabetiche, sono marcate da una straordinaria biodiversità, che rende variegato anche il panorama delle tradizioni orali, specie africane, con la loro spettacolare dimensione teatrale. Povero e omologato è il nuovo linguaggio del web, delle chat lines, degli sms e delle email, in cui l’antropologo vede la deriva della scrittura verso modalità sempre più colloquiali. Il relativismo critico di Aime è particolarmente affilato quando, tra le varie forme di governo, passa al vaglio quella democratica. La misura della democrazia è da ricercarsi nella sua effettiva pratica partecipativa piuttosto che nella sua impalcatura formale, un modello che si regge essenzialmente sulla delega delle decisioni ad altri. La gestione collettiva e partecipata del consiglio di villaggio appare così più democratica di molti governi parlamentari africani modellati sul sistema occidentale. Un breve viaggio attorno al concetto di arte dimostra invece come l’originalità, ritenuta suo fondamento, non è in realtà un dato universale ma spiccatamente culturale e talvolta neppure indispensabile, come nel caso del Sudest asiatico, dove gli artisti tendono a riprodurre schemi tradizionali. 

Marco Aime

giovedì 13 settembre 2012

IAN HOLDING - NEL MONDO INSENSIBILE



Ian Holding, che vive e lavora ad Harare, in Zimbabwe, si è ispirato alla storia di un suo allievo per raccontare in forma di romanzo il disastro sociale del proprio paese, le efferatezze e i saccheggi che hanno marcato la vicenda post-coloniale. Lo ha fatto con una capacità di scrittura che l’ha posto tra i finalisti del Dylan Thomas Prize e con l’onestà di spartire le responsabilità dei crimini tra bianchi e neri, mostrando tutta la bruta violenza che ammorba entrambe le comunità. Lo Zimbabwe è travestito da nazione senza nome, una specie di Stato esemplare, modello di tante simili situazioni africane. Davey è un adolescente cui una banda di sicari massacra i genitori Leigh e Joe Baker, agricoltori bianchi insediati da generazioni nella fiorente fattoria di Edenfields. Mandante dell’omicidio e dello scempio dei corpi è una volgare politicante nera, dispotica accaparratrice che si arroga il diritto di appropriarsi della terra senza curarsi di nessuna legge. Edenfields diventa così il campione di un quadro generale in cui gruppi di potere corrotti si scagliano sui fattori per strappare loro vaste proprietà che da granai del paese si trasformano presto in campi trascurati. Il racconto della tragedia sociale, causata dalla spropositata quanto strumentalizzata reazione al razzismo bianco, passa attraverso il dramma individuale di Davey, segnato a vita dall’esperienza di una crudeltà straordinaria. La zia Marsha che tenta di assisterlo giunge a pensare che per lui sarebbe stato meglio scomparire insieme ai genitori. L’elaborazione e le metamorfosi successive del dolore sono riferite con grande intuito psicologico dallo scrittore-insegnante. Dalla gelida apatia del ragazzo traumatizzato a una forma di masochismo compensatorio; dall’assunzione smodata di alcol e droghe alla trasformazione del sesso femminile in “una cavità umida in cui riversare il proprio odio come una nave cisterna che vomiti morchia.” Si tratta di un notevole climax che passando attraverso il torbido piacere provato nell’ammazzare un coniglio approda alla pulsione omicida che farà di Davey un vendicatore spietato. Il romanzo sviluppa attorno al nucleo della vicenda digressioni che completano l’affresco del dissimulato Zimbabwe allo sfascio. I sacchi da obitorio riciclati in cui sono avvolti Leigh e Joe, la trama di battute e atteggiamenti razzisti della ristretta comunità dei proprietari terrieri, l’incongruo servizio sulla rivista “Garden and Home” interessata al grazioso giardino di zia Marsha o la musica classica che inonda le verande coloniche, sono tasselli stridenti ma verosimili di un libro che precipita verso una disfacimento collettivo e privato. La lunga strada che Davey copre a piedi per compiere la sua vendetta è un’ulteriore iniziazione all’orrore inframmezzata da qualche ingannevole respiro bucolico. Tra gli incontri c’è quello di un vecchio ritirato in una capanna dalla vista magnifica che sotto un genuino anelito spirituale cova l’infondata speranza di diventare un agricoltore. Poco lontano da lui alcuni ragazzi scheletrici saccheggiano la marcescente carcassa di un bufalo nella savana e una coppia di bianchi alcolizzati sopravvivono a loro stessi torturandosi a vicenda. Il villaggio dove alcuni soldati irregolari trascinano Davey viene messo a ferro e fuoco. Immobilizzato e picchiato, il giovane bianco assiste ad atroci violenze. Prima di sfuggire alla mattanza scorge il cranio di un uomo sfondato a bastonate che ha in bocca il pene reciso del suo bambino. Siamo al road movie dell’orrore africano, immagini rabbrividenti dal mondo insensibile che una buona letteratura a tinte fortissime sa raccontare. Tra la legittima rivendicazione di uguaglianza e autonomia e lo sfogo di un sentimento di rabbia fomentato da neri incapaci il cui obiettivo sono i benefici del potere corre un filo sottile che Holding esplora dal cuore dell’Africa.  

Ian Holding

domenica 2 settembre 2012

La trappola amorosa delle perle


E’ iniziata aggirandomi nel frastornante labirinto dei mercati africani. Attratto dalle voci, dagli sguardi, dai richiami delle mani, dalle insistenze trascurate e dagli inviti irrinunciabili. E’ iniziata sedendomi a osservare, accanto a un tè e assi di legno che si riempivano di mercanzie. Collane di ogni sorta proposte come antiche e moderne, infilate di perle in vetro, pietre dure, fusioni in bronzo, ciondoli prodotti da svariate etnie, depositi europei giunti in Africa il giorno prima, anni, decenni o secoli prima. Un labirinto dentro un labirinto. Orientarsi era un miracolo. Ascoltavo la parola del mercante con prudenza, bilanciandomi tra stupore e diffidenza, confrontando le opinioni e cercando di capire senza assecondare subito il desiderio di portare a casa frammenti di un mondo sconosciuto. Occorreva pazienza, virtù che accomuna l’amante di perle al collezionista, al viaggiatore curioso, al cultore di oggetti che diventano scrigni di passato, sedimenti che riflettono un prisma infinito di storie, superfici, infine, riflettenti la pura bellezza delle loro profondità. Le perle sono questo: mirabili colpi di bellezza preparati da antiche sapienze artigianali, da equilibri di tinte, sfumature, inventiva di forme, preziosi pigmenti e il valore aggiunto del tempo, il lavorio degli anni e del caso che creano quella famosa patina antiquaria e in un processo di lunga selezione naturale rendono sempre più raro quell’unico pezzo superstite segnato in quel solo unico modo da secoli di invecchiamento. Ma allora, agli albori della passione tra i mercati di Dakar e Bamako o di qualche sperduto villaggio africano, non ero ancora affetto dalla tenera ossessione delle perle. Ero come un bimbo affascinato da un giocattolo, un innamorato ignaro di trovarsi a un passo dalla splendida trappola amorosa. Spigolavo nell’immenso serbatoio di vita dei mercati, raccoglievo i primi campioni e chiedevo a conoscenti, di ritorno dai miei viaggi consultavo libri, navigavo tra pagine cartacee e pagine di siti dedicati all’universo delle perle. Quelle di vetro catturarono gran parte della mia attenzione. Come me erano state segnate dal destino del viaggio. Nel caso delle più antiche, si erano mosse per secoli da una mano all’altra, da un Continente all’altro, assaggiando le sabbie del deserto, le tende dei nomadi, il petto di regine e popolane, assurte al rango di regalo principesco o trasformate in sostituti del denaro, alternativa alla moneta corrente o merce di scambio per comunità tribali ai cui occhi diventavano oggetti magici con valenze apotropaiche. La principale produttrice del secondo millennio fu Venezia. Le prime tracce in laguna risalgono al 1292, quando un decreto del Maggior Consiglio stabiliva che per ragioni di sicurezza le vetrerie non potevano più essere costruite a Venezia ma solo a Murano. I procedimenti di fabbricazione di vetri e quindi delle perle dovevano rimanere segreti e ne era vietata, sotto pena di morte, la divulgazione fuori dal territorio veneziano. Si trattava in principio di perle destinate a formare prevalentemente rosari e chiamate “paternostri”. Il metodo usato dai perlai “paternostreri” consisteva nell’accumulare attorno a un ferro coperto da un impasto terroso il vetro in barre scaldato a un’intensa fonte di calore. Era una tecnica già utilizzata nella più remota antichità alla quale seguì, verso la fine del Quattrocento, un nuovo modo di fare perle partendo da una canna forata che tagliata in pezzettini forniva altrettante perle dette paternostri “colorati”, “a rosette” e “oldani”. L’invenzione della canna forata consentì di produrre perle in grande quantità. Ai “paternostreri” di Murano si affiancarono i “margariteri”, dal nome di Maria Barovier cui viene attribuita la novità delle canne di vetro con sezioni colorate concentriche, mentre si andava sviluppando un’altra produzione, quella delle perle “a lume”, realizzate con tecniche di avvolgimento sulla fiammella di una lampada a olio. La richiesta internazionale si fece sempre più forte e al moltiplicarsi in varietà e numero delle perle veneziane, tra cui le celebri perle a “rosetta” o “chevron”, corrispose l’espatrio illegale di non pochi vetrai. Nel corso dei Seicento nuovi centri di fabbricazione si svilupparono nelle regioni baltiche, in Belgio, Francia, Svizzera, Inghilterra, Olanda, Russia, Boemia e Moravia, dove accanto a perle autoctone si producevano grandi quantità di perle “alla maniera di Venezia”. Ma nonostante la concorrenza i perlai della Serenissima riuscirono sempre a dominare il mercato e nel 1606 si contavano a Venezia ben 251 fabbricanti di perle di vetro. Dopo la crisi seguita alla caduta della Repubblica per mano di Napoleone, nel 1797, l’industria perliera veneziana riprese vigore nella seconda metà dell’Ottocento sulla scia dell’apertura dei commerci verso terre lontane. Esploratori, missionari e mercanti portavano con sé perle offerte in dono o utilizzate come merce di scambio con un gran numero di popoli e gruppi etnici, dagli indiani del Nord America agli abitanti dell’Africa. Nel quadro di attività commerciali lecite o vergognose come la tratta di schiavi (acquistati anche a suon di murrine!), conobbe così un enorme successo la grande e variegatissima famiglia delle cosiddette perle di baratto, le “trade beads” dei mercati anglofoni, che seguirono itinerari spesso tortuosi e vennero esportate verso colonie e terre di conquista fino alla prima Guerra Mondiale. Le perle veneziane di forma cilindrica con disegno a mosaico, particolarmente apprezzate e diffuse in Africa occidentale, si meritarono così l’appellativo di “africane”.

murrine "africane" antiche

La prima volta che le incontrai ero a spasso in un mercato di Dakar. Oggi non sono più facili a trovarsi e hanno diversi soprannomi a seconda dei paesi. Il mio amico Babacar, appartenente a una famiglia di mercanti senegalesi da generazioni, me le indicò con lo stravagante nome di “ciaciaciò”. Una sua vecchia conoscenza ne aveva riportata un’interessante partita da Accra, in Ghana: alcune decine di pesanti collier di millefiori a mosaico e altre perle di baratto risalenti perlopiù alla seconda metà dell’Ottocento e di una varietà impressionante. Perle schiette, monocolore, perle a oliva con disegni floreali, perle con tracce consumate di avventurina, perle cilindriche, azzurre, trasparenti, a melone, decorate di piume, di palme dorate, chevron verdi e blu e molte altre, oltre ovviamente ai tronchetti millefiori di diversa specie. Non tutte provenivano da Venezia. Ce n’erano di olandesi, iugoslave, e una certa quantità di origine mediorientale accanto a esemplari di cui era difficile accertare la provenienza. Babacar raccontava dando fondo alle sue conoscenze mentre il mercante giunto da Accra attendeva una proposta di acquisto. Lo facemmo trepidare un intero weekend. Abusando della sua pazienza riportai dalla mia camera in affitto un libro dedicato alle perle africane ricco di disegni e fotografie. Babacar è un uomo che ama ciò che tratta e vuole conoscerlo sempre più a fondo, così che ci trovammo a trascorrere giornate sotto la tettoia della minuscola boutique mentre nel mercato si spargeva la voce che era giunto uno strano toubab (uomo bianco presso i wolof del Senegal) particolarmente esperto, forse un ricchissimo mercante europeo pronto a grandi acquisti. Alla partita di collier ghanesi ne seguirono altre di perle fabbricate in Africa, paste di vetro realizzate da svariate etnie tra cui gli Astanti e i Krobo, popoli che una volta appresa la tecnica dagli occidentali hanno iniziato a produrre perle con risultati sorprendenti. Spuntavano tè e mercanti ovunque. Il gusto della chiacchiera e della contrattazione trasformò la boutique di Babacar nel crocevia più vitale del mercato, mentre il mio imbarazzo cresceva insieme alla preoccupazione per il magro portafoglio che tenevo in tasca. “Babacar” mi confidai, “ora cosa faccio? Che dico a questa gente? Io posso spendere soltanto un centinaio di euro, non sono un mercante come credono…” Dalla bonaria autorità dei suoi cento chili Babacar tentò di rassicurarmi. “Non preoccuparti, fai quello che puoi, nessuno ti chiederà di più… C’est l’Afrique mon vieux, il faut faire l’habitude!” E l’abitudine la feci, chiedendo un prestito dall’Italia e precipitando all’improvviso, sotto il sole cocente del sahel, nella trappola amorosa delle perle. Da amante a sposo quasi senza accorgermene.