Potremmo
scegliere diverse porte per entrare in questa illuminante miscellanea del
grande scrittore americano scomparso il 22 maggio scorso. La sezione
iniziale, che ripropone, parzialmente rivista e per la prima volta in italiano,
la raccolta di scritti Leggere me stesso
e altri, spazia da un saggio narrativo su Kafka, in cui Roth immagina il
genio praghese scampato al regime nazista e approdato negli Stati Uniti, a
interventi che raccontano come molti romanzi del maestro originario di Newark,
smontando i diffusi e accomodanti pregiudizi attorno al classico tipo dell’ebreo
probo e remissivo, abbiano trovato forti resistenze proprio in seno alla comunità
ebraica, procurando all’autore l’accusa iniqua quanto paradossale di avere
favorito grazie alla sua opera atteggiamenti antisemiti. E ciò a partire dal
primo clamoroso successo, Lamento di
Portnoy, del quale viene descritta, accanto alla controversa accoglienza,
la genesi lunga e tortuosa.
Philip Roth premiato dal presidente Obama, nel 2011,
con la National Humanities Medal
Lavoratore instancabile, Philip Roth, la cui prosa
di sontuosa e armonica complessità è frutto di una dedizione assoluta, quasi
monacale, all’arte della scrittura, ha pubblicato nel corso della sua feconda
carriera trentuno opere di altissima e costante tenuta qualitativa, oscillando
sempre, ad ogni uscita, e per circa mezzo secolo, dal notevole all’eccelso.
Un’officina creativa tra le maggiori della letteratura contemporanea, scoperta
spesso, nei retroscena, dalle pagine di questo volume imperdibile, e non solo
per i suoi appassionati. La parte seconda, Chiacchiere
di bottega, riproduce una serie di articolate conversazioni con autori del
calibro di Aharon Appelfeld, Primo Levi (“concentrato e immobile”, nella sua
casa torinese, “come uno scoiattolo che osservi qualcosa di sconosciuto dalla
cima di un muretto di pietra”), Ivan Klima, Isaac Bashevis Singer, Milan
Kundera, oltre ai ritratti e le folgoranti ricognizioni sull’arte di Bernard
Malamud, dell’amico pittore Philip Guston (al secolo Goldstein) e di Saul
Bellow. Nella parte conclusiva - Spiegazioni
-, torna di nuovo a fare da protagonista la produzione di Roth, considerata
però da prospettive più eccentriche, che alimentano di note curiose e private
quella terra magmatica di circostanze vere e presunte all’origine di un’opera
che in modo soltanto riduttivo può essere definita di ispirazione
autobiografica. Creare infatti l’illusione dell’intimità e della spontaneità,
insegna il romanziere, significa essenzialmente “inventare un’idea del tutto
nuova di come si fa a trasmettere la sensazione di ‘essere se stessi’”.
Qualcosa di ben diverso da una semplice rielaborazione di eventi vissuti.
Un’eterna, piuttosto, e superba questione di stile.