VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

mercoledì 4 settembre 2019

LAURENS VAN DER POST - IL CUORE DEL CACCIATORE - ADELPHI 2019



Nato in Sudafrica, nel cuore del territorio dei boscimani, da una famiglia di origini boere, Laurens van der Post sperimenta fin da piccolo il senso di un’intimità assoluta con la natura di quei luoghi e ha modo di assaggiare precocemente - attraverso la sua vecchia tata di colore, Klara, di madre boscimana - i racconti straordinari delle genti che prima della loro quasi totale estinzione a seguito di reiterati soprusi e feroci campagne di assimilazione li abitavano da più di ventimila anni, contendendo ai pigmei dell’Africa centrale il primato della longevità sul Continente. Organizzati in gruppi familiari, massimo una trentina di persone di corporatura minuta e grande resistenza, questi ultimi sopravvissuti dell’età della pietra, detentori di sapienza e segreti ancestrali, disdegnano il raggruppamento in comunità più vaste così come, in genere, l’astratta conoscenza dei numeri, prediligendo il nomadismo e vivendo da cacciatori e raccoglitori lungo le sconfinate lande desertiche del Kalahari. Lo scrittore ed esploratore che combatté nelle fila dell’esercitò britannico, fu imprigionato e torturato per tre anni dall’esercito giapponese, dedicò una parte importante della sua vita e del suo lavoro alle ricerche sull’universo dei boscimani. Il mondo perduto del Kalahari, pubblicato nel 1958, fu il primo brillante risultato, seguito dall’omonimo documentario realizzato per la BBC e da questo libro, tradotto in italiano dopo quasi sessant’anni dalla sua comparsa, che raccoglie le scoperte di un intellettuale raffinato e ricco di esperienza, capace di intrecciare le competenze dell’etnologo militante e quelle del profondo studioso di miti e simboli (si avvicinerà alle teorie di Jung) unite al talento del narratore di razza. Sempre mirabili sono le descrizioni del paesaggio in cui si muove, che sanno restituire con meticolosa capacità immaginativa le variazioni della luce, le mutevoli condizioni degli eventi atmosferici, le più sottili sfumature del cielo, delle albe, dei tramonti, degli agglomerati di nubi temporalesche che si gonfiano in benefiche promesse di pioggia all’orizzonte delle immense piane desertiche. Raccontando la spedizione nel Kalahari in compagnia di fidati operatori e del mitico Dabé, guida nativa, Laurens van der Post si avvicina con formidabile capacità di ascolto alle esistenze dei cacciatori nomadi, che ha modo di incontrare in un ambiente miracolosamente intatto, e dai quali assorbe un’eccezionale quantità di informazioni. Le prodezze della caccia con arco e frecce avvelenate agli animali erranti negli immensi spazi di sabbie e terre rosse, struzzi, tassi, zebre, istrici, grandi predatori oltre a svariate specie di antilopi, gli eleganti steenbuck, i veloci e balenanti druiker, le danzanti saltatrici springbok, il nobile e possente eland, e poi la luna, gli immancabili fuochi notturni, la traccia opalescente della Via Lattea e le luminose stelle protettrici: ogni creatura o elemento del paesaggio è un tutt’uno con l’anima del boscimano, che se ne serve e da cui è servito. Restando immersi in un contesto simile, la natura, anche per l’animo del viaggiatore, diviene “una faccenda personale” e “qualsiasi nozione scientifica se ne abbia svanisce rapidamente fino a che nella mente non rimane più nulla di astratto.” Lo scrittore fa tesoro di racconti iniziatici, comprende il senso profondo del riso primitivo, il dono della mimica, “uno dei maggiori talenti del boscimano”, verifica la straordinarietà delle sue percezioni extrasensoriali, condivide gesti e forme del vivere uguali da mille anni.

            boscimani sotterrano uova di struzzo riempite d'acqua, che serviranno da scorta lungo il cammino 

È un equilibrio umano e cosmico che resterà immutato fino a quando l’armonia del Kalahari e dei suoi cacciatori verrà compromessa dall’insolenza occidentale e dalla pressione di aggressive popolazioni nere. La stessa sopravvivenza fisica dei boscimani, vessati da deliranti multe per la loro semplice attività di caccia, costretti a lavori insostenibili, detenuti per futili motivi, violentati e spesso così alienati da impazzire, sarà minata fin quasi all’estinzione. Di ritorno dalla spedizione nel deserto, il loro estimatore e amico bianco, che si era già fermamente opposto all’apartheid, intercede presso un alto rappresentante del governo affinché prenda provvedimenti utili ad arginare il processo di sterminio. Qualcosa le autorità faranno per rendere la fine di un popolo più lenta e meno dolorosa, ma un altro male, più profondo, resterà invece senza alcun rimedio: un vizio che mina alle fondamenta la nostra esausta modernità. Laurens van der Post spende parole memorabili illustrando le mancanze e la futilità di un uomo cosiddetto progredito che non riesce più a guardare la realtà “con gli occhi dello spirito oltre che con quelli del corpo”. “Il problema”, riflette sugli errori dei dominatori occidentali, “era che vedevamo gli africani solo con l’occhio esterno e non anche con l’occhio del cuore, e secondo me non è possibile conoscere realmente gli esseri umani se non li si guarda anche in quel modo, in altre parole se non li si conosce anche attraverso il senso di meraviglia che suscitano in noi.” Lo studioso di miti primordiali si allea con il lettore del Nuovo Testamento e non usa mezze misure di fronte alla miseria dell’uomo contemporaneo. “Siamo sempre mendicanti rispetto a quello che eravamo nati per diventare. È il rifiuto o l’incapacità di riconoscere questo che sbarra la strada e crocifigge l’uomo nuovo in noi. Ed è questo il significato del grido: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. Siamo un popolo, anzi un’intera epoca, chiuso nell’oscura nube di quell’ignoranza.” La terza e conclusiva parte del Cuore del cacciatore, dopo i contatti intimi con la vita dei boscimani e della loro casa di sabbia e stelle, la cronaca dolente dell’epilogo e la constatazione della povertà spirituale cui si sono condannate le nostre società con la tracotanza delle loro menti, torna a riflettere sul mondo creaturale del deserto. 

Laurens van del Post

I panni dello studioso di simboli e segni si avvicendano a quelli del filosofo e del viaggiatore, e dai toni del reportage passa alla decifrazione della cosmogonia boscimana, le cui tracce sono ancora visibili nelle celebri pitture rupestri, dove a fare da protagonisti sono gli animali e le loro metamorfiche sembianze, a partire da quella creatura sacra che è incarnazione del primo spirito: Mantide, espressione dell’unico Senso, significato stesso della creazione, sogno che si è fatto carne. E da Mantide si scende e ci si espande, arricchendo un delta meraviglioso, un grandioso albero genealogico composto di nomi ma soprattutto avventure, lotte, trasformazioni vissute da elefanti, manguste, babbuini e molte altre concrete e visionarie manifestazioni della vita che permettono al boscimano di accedere al significato più radicale del conoscere e, specularmente, a quel “senso di essere conosciuto”. Un senso di parentela universale con qualsiasi cosa incontri, arcanamente reciproco e così forte che gli consente di rivolgersi agli astri “come fossero membri della sua famiglia”.  


venerdì 5 luglio 2019

LUIGI MALERBA - MOZZICONI - QUODLIBET 2019



La casa editrice maceratese Quodlibet e la sua raffinata collana di narrativa Compagnia extra tornano a ospitare il neoavanguardista, eclettico scrittore e sceneggiatore emiliano, al quale, a circa un decennio dalla scomparsa, è stato dedicato nel 2016 un Meridiano che ne ha raccolte le opere maggiori. Luigi Malerba riappare qui con un libro snello ma ben rappresentativo della sua produzione, esilarante e denso di un umorismo paradossale: una “favola”, come dichiara l’autore narrando le peripezie del protagonista, l’eretico e svagato Mozziconi, romano che detestando l’insulso clamore dell’urbe e l’aggressività truffaldina dei più spocchiosi abitanti, decide di distruggere la casetta che abita all’Acquedotto Felice e stabilirsi nel greto del Tevere. 

Luigi Malerba

Capita ogni cosa, nella capoccia esplosiva dell’ “anarchista e ribellone”, che non si è mai fatto un amico perché non ha mai avuto un nome da unire al cognome. Malerba ne segue le gesta con una lingua scanzonata, inventiva, prodiga di neologismi e costruzioni sintattiche che occhieggiano al parlato. Ma Mozziconi non è solo uno strampalato e monologante barbone; è l’esempio di un uomo che con la sua marginale condotta mette a soqquadro l’ordine costituito del mondo, denunciando l’ipocrisia dei sapientoni che giudicano dall’alto, le speculazioni di milionari palazzinari, i politici sempre a caccia di pretesti per guadagnare consensi e quei cittadini impettiti che si scandalizzano per un nonnulla e scaricano rifiuti e improperi dove nessuno li vede. Nel suo modo da eccentrico sconclusionato è anche un convinto tutore della natura; semina piante e ortaggi lungo i corridoi di terra che abbracciano il fiume, parla e ascolta parlare pesciolini e uccelletti, e nelle pause tra una e l’altra delle sue attività sublima l’arte del grattarsi la pancia e tira le somme di calcoli astrusi, misurando la velocità del buio, sostenendo che si possono dividere i numeri dispari ma non quelli pari, raccogliendo pagine di vecchi giornali e mandando a memoria le assurdità dell’universo ‘di sopra’. Un saggio sui generis, insomma, che affida le sue intuizioni più care a foglietti sigillati in bottiglie che navigano alla volta di sconosciuti destinatari. E infine, trovata delle trovate, si ingegna a piantare cespugli di ciliegio marino così che formino un verde striscione offerto ai passanti. Alla M seguirà una E, quindi una R, una D e a suggello la A. Scoppia uno scandalo, i dignitari si allarmano, la voce si sparge, e ci andrà di mezzo niente meno che il sindaco, “ladrone e truffone” ovviamente, destinato a finire in prigione.                


(recensione pubblicata il 27 giugno sul quotidiano Il Cittadino)

MARTIN AMIS - L'ATTRITO DEL TEMPO - EINAUDI 2019



Apparsi sulle più prestigiose riviste e testate inglesi e americane nell’arco dell’ultimo trentennio, questi saggi e reportage frutto della piena maturità di Martin Amis sono eclettici regali di arguzia, passione e grande stile. La sistemazione, a temi alterni, ricorrenti, del variegato materiale, apre e chiude il libro con l’ambito più specificamente letterario, dove lo scrittore britannico mostra tutto il suo notevole talento, in particolare con indagini scrupolose e appassionate attorno ai due autori in cima alla scala dei suoi prediletti, Vladimir Nabokov e Saul Bellow, seguiti, alla voce Letteratura - che ritorna puntualmente come basso continuo e cuore del volume - da una ristretta cerchia di poeti e narratori di primissimo livello: Philip Larkin, Iris Murdoch, Don De Lillo, J.G. Ballard, Anthony Burgess, Philip Roth e John Updike. Negli spazi che si aprono tra i diversi capitoli del sottile lavoro di saggista si disinnesca invece l’onnivora curiosità dello scrittore postmoderno alle prese con il disordine del mondo. 

Martin Amis

Ubbidendo alla prensile volontà di smascherare le seducenti superfici ma soprattutto le contraffatte oscenità del contemporaneo, Amis passa dal resoconto di un torneo di poker cui partecipa muovendosi tra la colorata umanità dei tavoli da gioco, i bar, le stanze d’albergo e tutte le iperboliche nonché pacchiane invenzioni di Las Vegas alla disincantata analisi della pruriginosa febbre popolare cresciuta attorno al tremendo epilogo della principessa Diana e alla reazione di quel cuore eternamente abbottonato della regina madre, dalle perlustrazioni nei devastati barrios colombiani in cerca dei giovani assassini menomati della città di Cali alle indagini dal vivo nell’universo in espansione della più pesante pornografia americana, dal ritratto dell’anarchico Dieguito Maradona a quello riuscitissimo di John Travolta, ripreso tra vertiginosi successi, improbabili resurrezioni e drammatici sprofondi. Ma il ventaglio si apre ulteriormente, e sotto la rubrica Sport il vecchio amore per il tennis si traduce in divertiti e gustosi affondi nelle bizze caratteriali e negli esorbitanti ego di campioni d’epoca quali Jimmy Connors, Andre Agassi e John MacEnroe, puerilmente intemperanti se paragonati a un altro fenomeno morigerato e saggio come Pete Sampras. Non mancano, infine, le stoccate anticonformiste a una certa indulgenza buonista e liberale verso un islam che assume troppo spesso accenti da fanatismo apocalittico. Alla voce Politica spiccano le pagine mordaci attorno al disastro, in primo luogo psichico e linguistico, di Donald Trump, mentre si rileggono con commossa meraviglia le parole dedicate all’amico ormai morente Christopher Hitchens, la cui eccezionale libertà di pensiero, sfidando tornaconti personali e infischiandosi di occasionali impertinenze, si è sempre gloriosamente guardata da ogni compromesso.      

 (recensione pubblicata sul quotidiano Il Cittadino il 4 luglio 2019)

venerdì 7 giugno 2019

J.M. COETZEE - BUGIE - EINAUDI 2019



Racconti morali, come recita il sottotitolo, quelli riuniti nell’ultima raccolta di Coetzee, che conducono a scandalose aporie, attestanti l’impossibilità del giudizio e l’insufficienza della ragione nel tracciare un confine tra giusti ed iniqui, ligi assennati e refrattari agli schemi. L’aria che si respira in queste pagine, il passo sincopato e incalzante della prosa che le incide, inquieta e seduce; vi aleggia un continuo mistero, un non detto che semina allarmi e sembra tradurre l’originale stupore di fronte al sopravvenire inconsulto dell’esperienza, alla sua infrangibile sostanza. Le cose, magnifiche, orrende, repellenti o irresistibili, sono esattamente come si mostrano, come accadono nella loro stringente necessità, e Coetzee, impassibile agnostico, si limita a registrarle, illuminarle. Una donna sposata intrattiene una relazione perfetta, senza la sbavatura di un senso di colpa con un uomo che vede una o due volte la settimana; non si chiede che genere di donna sia per trovare così naturale l’infedeltà, ma la gusta con un’appagante, pacifica capacità di scissione. E non si tratta del ritratto di un mostro; anzi, quando tutto sarà finito “tornerà ad essere una donna sposata, sposata sempre, di giorno e di notte, con il ricordo sepolto dentro di sé di com’era stare distesa sul letto un caldo giorno d’estate, divorata dallo sguardo di un uomo che, anche se non ti sa dipingere, per il resto della sua vita porterà scritta sul cuore questa immagine di nuda bellezza.” La madre sessantacinquenne di Vanità, che per il suo compleanno si presenta a figli con un taglio di capelli giovanilmente malizioso e un trucco fiammante, resiste con splendido candore a una tacita o circonlocutoria riprovazione. “Tranquilli, dura poco (…) Ancora una volta o due nella vita voglio essere guardata come si guarda una donna. Tutto qui, solo guardata. Niente di più. Non voglio uscire di scena senza ripetere ancora quell’esperienza.” 

J.M. Coetzee

Ma il personaggio più affascinante, che ritorna in diversi racconti, è la scrittrice Elisabeth Costello (la stessa protagonista dell’omonimo romanzo del 2003, anno del Nobel a Coetzee), signora anziana, malata e disillusa che il figlio e la figlia vorrebbero avvicinare, opponendosi alla sua ferma volontà di passare i suoi ultimi giorni in solitudine, secondo un’idea personale della “buona morte”. Qui le riflessioni di Coetze/Costello si moltiplicano con una brillantezza e una concisione che in poche manciate di pagine gettano luce su dilemmi cruciali: il modo in cui sia più opportuno morire, l’utilità di una bellezza condannata dal tempo, il senso dell’invecchiare e della scricchiolante, insincera armonia familiare. Isolata ai margini di uno sperduto paesino sull’altopiano della Castiglia, con la sola compagnia di una comunità di adorati gatti e del matto locale, Elisabeth conduce la più frugale delle esistenze, e mentre le forze fisiche e mentali precipitano decide di passare una volta per tutte dalla “tribù dei cacciatori” a quella delle prede più vessate e indifese tra tutte: i cari animali, nei confronti dei quali la spietata disonestà intellettuale dell’uomo tocca i suoi vertici. Nel momento in cui il figlio John riduce a una semplice e in fondo banale scelta la condotta di Elisabeth, la donna lo interrompe. “So che cos’è una scelta, non c’è bisogno che me lo spieghi (…) So esattamente l’effetto e il sapore del processo di riflessione e decisione, esattamente quanto poco ti pesi fra le mani. Ma l’altro modo di cui parlo io non ha a che vedere con la scelta. È un assenso, è una resa. È un Sì senza un No. O sai di che parlo o non hai idea di che cosa vado dicendo. Non dirò altro.”  

(la recensione è apparsa sulle pagine culturali del quotidiano Il Cittadino il 6 giugno 2019)    

                           


venerdì 10 maggio 2019

GRACE PALEY - TUTTI I RACCONTI - EDIZIONI SUR 2019



Saper rendere viva, scintillante ogni parola e riunire in una lingua originale i trasparenti accenti del parlato accanto a momenti di una riflessione così concisa e veracemente ironica da impietrire: sono doni che caratterizzano l’intera produzione di racconti di Grace Paley, non moltissimi - tre raccolte in tutta la carriera - ma tra i migliori della seconda metà del Novecento. L’immagine dell’America e soprattutto di New York che ne emerge è un brulichio di vite perlopiù appartenenti a classi povere, dove sussidi, famiglie numerose di bambini con giovani madri solitarie, custodi di qualche piccolo benessere e cacciatori di improbabili fortune fanno da protagonisti a un incessante scambio di confidenze, furtive avventure di sesso e amore rubate al trito quotidiano, sfoghi di dolore e di piacere. Eroi ed eroine di un universo all’ombra dei reboanti eventi storici, ma che attorno a un tavolo di cucina o a zonzo per un parco giochi periferico restituiscono il polso di un paese in modo più reale e immediato di tante ambiziose costruzioni romanzesche. Una voce unica, immancabile, quella della scrittrice newyorkese di famiglia ebrea russa scomparsa nel 2007, capace di sedurre autori del calibro di Philip Roth o Donald Barthelme. “Qualunque oggetto, qualunque gesto umano, ha in sé un’infinità di parole che potrebbero descriverlo (…) Poi arriva Grace Paley: apparentemente incapace di una frase banale, un’osservazione buttata lì, un passaggio narrativo distratto” ricorda George Saunders nell’intensa e commossa introduzione, e di fatto, ogni pagina di queste narrazioni sembra trovare proprio le parole necessarie, puntuali, grazie a una specie di orecchio assoluto, un registratore impeccabile di dettagli illuminanti.

Grace Paley

 Il controcanto del grande sogno americano, l’ondata tumultuosa degli hippies e dei ribelli al sistema, il ventre risonante della contestazione politica e sociale, estrosi perdigiorno, anarchici e comunisti trattati come eretici, abitatori erranti di quartieri stravolti dal degrado: tutto ciò è incarnato in esistenze che testimoniano una lotta volta a proiettarle come al di là di se stesse, verso un paradiso terrestre sfiorato quasi accidentalmente, nel delirio amoroso, nel canto nostalgico e insieme liberatorio di un’infanzia perduta, nell’ambizione realizzata di ritagliarsi attimi di irregolare gioia nonostante il dissesto, l’apparente sconfitta, lo spettro del definitivo fallimento. Le conclusioni dei racconti della Paley non hanno mai triste o lieto fine, restano aperte, pudiche nell’azzardare un punto fermo al fluire senza soluzioni della vita. Il suo più illustre e naturale predecessore è Cechov. Un salto vertiginoso di contesto e ambiente sociale ma lo stesso approdo a un’efficacia artistica che rende straordinario, e memorabile, ciò che senza la lente di simili maestri può sfuggire inavvertito sotto gli occhi.      
(la recensione è apparsa sulle pagine culturali del quotidiano Il Cittadino del 9/5/2019)             

domenica 14 aprile 2019

SAUL BELLOW - TROPPE COSE A CUI PENSARE - EDIZIONI SUR 2019



A sorprendere, in un concerto di qualità, sono l’inventività dello stile, l’ampiezza di vedute storiche e sociali, il culturale eclettismo, la facoltà di sintesi, e soprattutto quel senso misterioso e intimo della letteratura - quindi dell’umano - che accompagna in ogni momento Saul Bellow, capace di infrangere con la più profonda intuizione dell’artista ogni forma di nichilismo più o meno consapevole. I ventuno saggi qui raccolti e ripubblicati egregiamente dalle Edizioni SUR, coprendo un arco di ben cinquant’anni di attività dello scrittore americano di origini ebraico-russe scomparso nel 2005, spaziano da inquadramenti sociologici del fatto letterario a ritratti di celebri colleghi (Ernest Hemingway, Philip Roth), da perlustrazioni attorno alla narrativa moderna e contemporanea a riflessioni sull’identità ebraica (e sul senso in genere dell’identità in tempi di vuote astrazioni), fino a vividi stralci autobiografici che illuminano il contesto di alcuni suoi capolavori. E tra queste pagine di memorie private, spiccano come veri gioielli quelle dedicate al giovanile periodo parigino e all’improvviso insorgere, quasi per transfer, della lingua spericolata e ariosa che darà vita alle Avventure di Augie March


Saul Bellow

Illuminanti e ristoratori, i saggi di Bellow, per chiunque riconosca il valore intrinseco della letteratura, al di là delle sterili sentenze di morte o dei necrologi che condannano all’estinzione la vitalità della narrativa, romanzesca o meno: magniloquenti quanto insipidi risultati di un ostinato e miope intellettualismo. Saul Bellow, criticando feticci e limiti di ogni ideologia o pensiero che si pretenda esaustivo, peggio ancora ultimativo, osserva con sapiente distacco le differenti strategie adottate da un farraginoso “mondo mentale” che giunge a dichiararsi scettico perfino di fronte alla realtà di ciò che lui considera un dato di fatto, ovvero “il nucleo originario della coscienza.” Occorre scendere, ci insegna, oltre “questo mondo popolato di coscienze moderne, istruite, progredite”, per potere attingere all’identità da cui germina la voce originale, autentica di noi stessi, e liberarci dalle tenaglie di un criticismo cocciutamente applicato all’irriducibile cuore dell’uomo. “Esiste un elemento di crescita, negli esseri umani, che non può essere racchiuso all’interno dei robusti involucri che fabbrichiamo di continuo.” Grazie a una visione schietta e magistrale, e con un’intensità persuasiva dai salutari effetti maieutici, il grande artista della parola ci rende così partecipi della propria esperienza interiore, trasformando il memorabile prodigio della letteratura in una scuola di vita. 

(Questa recensione dei saggi di Saul Bellow è stata pubblicata dal quotidiano Il Cittadino l'11 aprile 2019)

lunedì 25 febbraio 2019

PHILIP ROTH - PERCHE' SCRIVERE - EINAUDI 2108



Potremmo scegliere diverse porte per entrare in questa illuminante miscellanea del grande scrittore americano scomparso il 22 maggio scorso. La sezione iniziale, che ripropone, parzialmente rivista e per la prima volta in italiano, la raccolta di scritti Leggere me stesso e altri, spazia da un saggio narrativo su Kafka, in cui Roth immagina il genio praghese scampato al regime nazista e approdato negli Stati Uniti, a interventi che raccontano come molti romanzi del maestro originario di Newark, smontando i diffusi e accomodanti pregiudizi attorno al classico tipo dell’ebreo probo e remissivo, abbiano trovato forti resistenze proprio in seno alla comunità ebraica, procurando all’autore l’accusa iniqua quanto paradossale di avere favorito grazie alla sua opera atteggiamenti antisemiti. E ciò a partire dal primo clamoroso successo, Lamento di Portnoy, del quale viene descritta, accanto alla controversa accoglienza, la genesi lunga e tortuosa. 

Philip Roth premiato dal presidente Obama, nel 2011,
con la National Humanities Medal

Lavoratore instancabile, Philip Roth, la cui prosa di sontuosa e armonica complessità è frutto di una dedizione assoluta, quasi monacale, all’arte della scrittura, ha pubblicato nel corso della sua feconda carriera trentuno opere di altissima e costante tenuta qualitativa, oscillando sempre, ad ogni uscita, e per circa mezzo secolo, dal notevole all’eccelso. Un’officina creativa tra le maggiori della letteratura contemporanea, scoperta spesso, nei retroscena, dalle pagine di questo volume imperdibile, e non solo per i suoi appassionati. La parte seconda, Chiacchiere di bottega, riproduce una serie di articolate conversazioni con autori del calibro di Aharon Appelfeld, Primo Levi (“concentrato e immobile”, nella sua casa torinese, “come uno scoiattolo che osservi qualcosa di sconosciuto dalla cima di un muretto di pietra”), Ivan Klima, Isaac Bashevis Singer, Milan Kundera, oltre ai ritratti e le folgoranti ricognizioni sull’arte di Bernard Malamud, dell’amico pittore Philip Guston (al secolo Goldstein) e di Saul Bellow. Nella parte conclusiva - Spiegazioni -, torna di nuovo a fare da protagonista la produzione di Roth, considerata però da prospettive più eccentriche, che alimentano di note curiose e private quella terra magmatica di circostanze vere e presunte all’origine di un’opera che in modo soltanto riduttivo può essere definita di ispirazione autobiografica. Creare infatti l’illusione dell’intimità e della spontaneità, insegna il romanziere, significa essenzialmente “inventare un’idea del tutto nuova di come si fa a trasmettere la sensazione di ‘essere se stessi’”. Qualcosa di ben diverso da una semplice rielaborazione di eventi vissuti. Un’eterna, piuttosto, e superba questione di stile.         

ABRAHAM YEHOSHUA - IL TUNNEL - EINAUDI 2018



Inizia in sordina, con piccole falle, tasselli di memoria sfuggenti che inducono l’ingegnere stradale in pensione Zvi Luria a un controllo medico, dal quale risulta una lieve atrofia del lobo frontale, probabile avvio di degenerazione neuronale. Accanto a lui c’è la moglie Dina, dottoressa prossima al pensionamento: una coppia di anziani ancora pieni di amorose attenzioni e non sedata attrazione. L’ultimo romanzo dello scrittore israeliano racconta di un ospite ingrato e improvviso - morbo o demenza senile - che entra nella vita, alterando, sovvertendo, ma anche mettendo alla prova la capacità stessa di amare e proteggere. Yehoshua ci immerge nella mente e nel corpo di Luria, nelle preoccupazioni e nelle sparse amnesie che somigliano a stordimenti capaci di trasformarsi in strane avventure, derive che fanno slittare i segnali di una patologia in episodi fantastici. Non è tanto il dramma del progressivo disadattamento che interessa il romanziere, quanto piuttosto la traccia che sfugge a definizioni patologiche e conferisce una particolare facoltà di abbandono a un uomo che in modo riduttivo definiremmo malato. 

Abraham B. Yehoshua

Le eccessive apprensioni di Dina e dei familiari, che vorrebbero stringerlo in un’asfissiante rete di controlli, è lo specchio della diffusa incapacità di accogliere senza pregiudizi clinici quella che chiamiamo demenza. Dina è centrale, amorevole, necessaria, anche se esorbitante nel voler prevenire le defaillance del marito (un misto di ansia, compassione e complicità evocata splendidamente nel libro). Affinché l’ex dirigente mantenga vive le abilità intellettuali, è invitato ad affiancare un giovane ingegnere, Maimoni, che progetta una strada militare a sud del paese, nel cratere Ramon, dove il principale problema è quello di convincere i responsabili del progetto a risparmiare una collina, preferendo alla distruzione un tunnel che la attraversi. Alcuni sopralluoghi di Maimoni e Luria nel sito remoto diventano l’occasione di spostare la ‘demenza’ in un contesto imprevisto, di fronte a problemi e paesaggi naturali inattesi. In cima alla collina, tra antiche rovine nabatee, vivono un vecchio insegnante palestinese con il figlio e la figlia Ayalà: personaggi dalle identità incerte, provenienti da un villaggio oltre confine, ancorati per via di una complessa vicenda a quell’isolato pezzo di terra, non più palestinesi e non ancora israeliani. È così che Yehoshua colloca la storia di Luria nell’orizzonte delle ferite aperte tra Israele e i territori limitrofi. E la visionaria e sibillina conclusione del romanzo avrà per contesto proprio la collina sperduta insieme all’eponimo tunnel, al quale il vecchio ingegnere tornerà, di nascosto, nel corso di una giornata e di una notte pindarica, dove ciò che da fuori potrebbe apparire come un pericoloso smarrimento è in realtà la tenace decisione di capire quello che davvero sta succedendo: in fondo a un’anima, certo, prima che in un’anomala macchia registrata sul lobo frontale.