Poco più di trecento mirabili pagine che in un’architettura caleidoscopica proliferano attorno al fulgido cuore di Gerda, al secolo Gerta Pohorylle, leggendaria fotoreporter di guerra travolta giovanissima da un carro armato al ritorno dal fronte di Brunete, dove documentava la Guerra di Spagna al fianco delle milizie antifasciste. Filando un tessuto composito di cronaca e immaginazione e dando prova di uno stile che non di rado riverbera lampi da grande scrittrice, Helena Janeczek ricostruisce la vita di uno spirito libero e avventuroso che ha intercettato momenti e personaggi cruciali della storia e dell’arte del secolo scorso. Le voci cui affida il ruolo di testimone della vicenda sono quelle di due innamorati dell’ammaliante esule di origini ebraiche stanziata a Parigi e in fuga dal nazismo montante nella nativa Germania: il ricercatore emigrato negli USA Willy Chardack, corteggiatore eternamente frustrato che nel corso di una passeggiata nostalgica per North Buffalo la ricorda a distanza di molti anni, e il dott. Georg Kuritzkes, impegnato in indagini scientifiche attorno a luce e colori, ex membro delle brigate internazionali in Spagna e maquisard sul monti dell’Alta Savoia, che specularmente, nello stesso 1960, aggirandosi per Roma torna ai cruciali anni Trenta in cui era stato amante della ventenne fotografa prima che divenisse compagna di un altro esule ebreo ungherese, André Friedman, presto celebre con il fantastico nome di Roberta Capa. E in mezzo alla coppia di sopravvissuti a guerre e persecuzioni, nel capitolo centrale del libro, danno corpo ulteriore alla narrazione le memorie di Ruth Cerf, coinquilina di Gerda nella capitale francese nonché collaboratrice del minuscolo laboratorio fotografico da cui germogliò la prestigiosa agenzia Magnum.
Helena Janeczek
Accanto al racconto polifonico che insegue l’astro della giovane donna coraggiosa e imprendibile, capace di inanellare passioni senza tradirne nessuna, dotata di un fascino e un talento spesi fino all’estremo, scorrono le vite di artisti fotografi come Fred Stein, David Seymour e soprattutto Capa, catturate in quel crocevia di formidabili destini che fu la Parigi di allora. Le esistenze da rifugiati bohemien, le fughe salvifiche e rocambolesche, le impennate di ardore e di genio e la lunga odissea della resistenza europea al nazifascismo - tutti gli entusiasmi, insomma, e i patemi di un’epoca grandiosa e drammatica -, scendono dal pulpito della grande storia e si fanno sostanza tangibile nelle pagine della Janeczek. “Discendenti dello stesso verbo” scrive in una delle ultime, confessando insieme un metodo e un’intuizione, “rinvenire e inventare rammentano che per ritrovare qualsiasi cosa bisogna attingere alla memoria, che è una forma di immaginazione.” In perfetto accordo con queste parole, congeda un romanzo che non si dimentica.
(la recensione è stata pubblicata sul quotidiano Il Cittadino del 23/11/2017)