Un fatto fantastico, tenebroso, un fatto che porta il marchio dell'epoca attuale, dell'epoca nostra.
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo
Questa non è la mia patria di Vincenzo Maria
Oreggia è una narrazione che fin dalle prime pagine impegna il
lettore a seguire i diversi fili di una trama forte, costellata di sfasature
temporali che l'autore compone in un sapiente montaggio di presente e passato
attraversato da descrizioni di ambienti e situazioni lessicalmente ricercate,
cesellate, a tratti finemente poetiche. Una narrazione ritmata,
cinematografica, nell'ultima parte del romanzo incalzante, attraversata da
attente analisi e riflessioni sulla nostra società presente e
sull'attualissimo tema dei diritti di cittadinanza, accoglienza e integrazione.
"Ogni cosa ha raggiunto il suo posto nel
silenzio dell'alba. Macigni rugosi addossati alla parete esterna dell'argine,
il bacino del porto come una tavola lucida da cui emergono bolle di ossigeno di
animali marini, ombre e riflessi argentei di squame sul fondo limaccioso."
(p.72). Si
sta per concludere la prima parte del romanzo e Juan José Nevarez,
"Nevio" per "una di
quelle negligenze fatali che aprono il corso a un intero destino" (p.131), 27 anni, diventa suo
malgrado un "immigrato costretto ad arrangiarsi muovendosi negli
interstizi abusivi, tra le maglie sfilacciate di regolamenti contraddittori, in
attesa di documenti che nessuno gli può garantire" (p.81). Ha già
intrapreso il viaggio fatale della sua vita nel viaggio avventuroso che è di
per sé la vita stessa e che lo ha portato dall'Ecuador, "la colonia più
povera del carrozzone statunitense" (p.115) (come dice Ascanio, il
fratello) in Italia. Un Ecuador del Terzo Mondo, nell'accezione fallimentare
del termine, nel 1999 economicamente al tracollo, "dollarizzato",
schiacciato dalla povertà e dalle pressioni consumistiche che non risparmiano -
anzi vi hanno gioco facile - neppure i disperati delle favelas che nella
baracca fatiscente trovano comunque un posto a televisori e tecnologia ormai
obsoleti nel nord ricco del mondo.
In Italia vive da anni la madre Elvira,
badante e succube amante di un peruviano perverso e violento; il padre Alfonso,
mite "insegnante soccorrevole e tenace nella pratica dei suoi sani
principi" (p.120) è rimasto a
Quito. Nevio vorrebbe vivere regolarmente in Italia, ha studiato, potrebbe
essere "mediatore culturale e interprete multilingue". Nel frattempo
fa il volontario sociale per i connazionali, il badante, le pulizie.
Anticamere, promesse, parolai. Niente. Resta un clandestino, i pochi soldi
finiscono e "si rifugia nell'immobilità di un'attesa priva di
prospettive"... quando arriva Ahmed, un marocchino ricco che, come "un
brano fiabesco nel vangelo dei poveri" (p.31), gli propone un "viaggio" a Milano. In quella
stessa "attesa priva di prospettive" gli si affacciano dalla
cronaca, a soccorrerlo, temporaneamente catartici ma non salvifici, come in una
trasognata, zavattiniana visione fanciullesca, Lachemere e Sancha, due elefanti
sequestrati ad un circo perché privi di documenti regolari di ingresso in
Italia: "una preistorica immensità costretta in rivoli di carte
bollate" (p.56).
Durante il viaggio per Milano, Lachemere e Sancha gli sono accanto al sedile, in un ritaglio di giornale. Sono per lui "una quiete al centro del vortice degli spettacoli umani" (p.55) che, tragico picaro precipitato inesorabilmente in un "abisso orrido e immenso" di abiezione, ha visto intorno a sé, diventandone attore. Lavoro nero, spacciatori, prostitute, caronteschi barconi straripanti di umanità allo stremo, ingannata da "magnifiche sorti e progressive" inesistenti. Nevio arriva ad immaginare se stesso come quei disperati di un incomprensibile "navigare necesse est" "nello scafo che slitta veloce sulla tavola nera del mare... scodellato su una spiaggia notturna"... fino all'inatteso e sorprendente, terribile epilogo di quella "preghiera solitaria verso il cielo di Milano" che non ha nulla di liberatorio e religioso.
Durante il viaggio per Milano, Lachemere e Sancha gli sono accanto al sedile, in un ritaglio di giornale. Sono per lui "una quiete al centro del vortice degli spettacoli umani" (p.55) che, tragico picaro precipitato inesorabilmente in un "abisso orrido e immenso" di abiezione, ha visto intorno a sé, diventandone attore. Lavoro nero, spacciatori, prostitute, caronteschi barconi straripanti di umanità allo stremo, ingannata da "magnifiche sorti e progressive" inesistenti. Nevio arriva ad immaginare se stesso come quei disperati di un incomprensibile "navigare necesse est" "nello scafo che slitta veloce sulla tavola nera del mare... scodellato su una spiaggia notturna"... fino all'inatteso e sorprendente, terribile epilogo di quella "preghiera solitaria verso il cielo di Milano" che non ha nulla di liberatorio e religioso.