VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

martedì 10 luglio 2012

KEN SARO-WIWA - SOZABOY


Dukana è un tranquillo villaggio nigeriano in cui gli echi della politica e dei disastri del regime militare arrivano attutiti, per via di occasionali racconti. Il Pastore Bàrika annuncia la fine del mondo, il capo villaggio, Chief Birabee, continua le sue piccole pratiche di taglieggiamento quotidiano a spese degli ingenui abitanti, ma tutto sommato la vita scorre insensibile agli ammazzamenti di Lagos e alle avvisaglie della guerra che si sta preparando. Lo sguardo attraverso il quale ci viene raccontata la storia è quello del giovane Mene, apprendista autista, che assiste a quel che gli capita con disarmato candore e sogna ad occhi aperti un favoloso avvenire. Prende in moglie la bella Agnes i cui seni lo sconvolgono come perfette colline appuntite e la porta nella casa materna mentre un altro sogno si fa strada nel suo animo semplice. Suggestionato dai mitici racconti delle gesta guerresche del compaesano Zaza, sedicente eroe di una campagna in Birmania contro il potente nemico Hitla (da leggersi come Hitler in un fantastico rimando al secondo conflitto mondiale), Mene ambisce con entusiasmo di giorno in giorno crescente a farsi soldato. Sconsigliato dalla madre ma appoggiato dalla giovane sposa raggiunge la città di Pitakwa in occasione di un incontro allo stadio, dove un alto graduato imbastisce un pomposo discorso in favore dell'arruolamento davanti a una folla di ragazzi giunti da villaggi vicini e lontani. Raccolta l'indispensabile bustarella per entrare nell'esercito Mene si trasforma così in Sozaboy, contrazione gergale di soldier boy, ragazzo soldato. Il capolavoro di Ken Saro-Wiwa, martire civile impiccato dieci anni fa al termine di un processo farsa per aver dato vita a una battaglia pacifica a difesa della sua etnia, gli ogoni, le cui terre venivano devastate dal dissennato sfruttamento petrolifero del delta del Niger, è un romanzo che racconta la guerra civile del Biafra guardandola dal basso e inventando un linguaggio, quello parlato dal Sozaboy, che come premette l'autore "è ciò che chiamo rotten English (pessimo inglese), un amalgama di pidgin nigeriano, inglese sgrammaticato, e buon inglese, con punte addirittura idiomatiche". La traduzione in italiano, tentata ora per la prima volta dopo vent'anni dalla pubblicazione del libro, riesce malgrado gli inevitabili impoverimenti a restituirne l'effetto sbalorditivo. L'eroe e io narrante di Saro-Wiwa è una specie di Don Chisciotte rivisitato da una trasecolata verve surrealista che al prezzo di una durissima serie di colpi impara ad essere uomo e a vedere la guerra in tutto il suo nudo e insensatissimo orrore. Vede arrivare un aereo e qualcosa che cade verso terra. Si mette a ridere come se un bizzarro uccello volante scaricasse bozzoli di escrementi ma un attimo dopo assiste al cruento spettacolo dei corpi dei compagni ridotti a brandelli dal bombardamento. In fuga per giorni nella foresta, il giovane soldato scampato al massacro viene raccolto, imprigionato e torturato dal nemico che lo grazierà per miracolo arruolandolo come autista nelle sue fila. Le avventure di Mene-Sozaboy sono una carrellata di orrori e assurdità per cui stare da una parte o dall'altra del fronte risulta assolutamente indifferente e quello che è certo è soltanto l'universale cataclisma della guerra civile. Nella corsa verso la conclusione queste avventure si trasformano in un fuga alla ricerca della madre e della moglie scomparse ormai da due anni. Sozaboy attraversa l'incubo inumano dei campi profughi con "tutta quella gente con i capelli lunghi lunghi e la pancia grande grande e le gambette da zanzara". Tra sorprese sconvolgenti che completeranno il suo percorso di iniziazione approderà stremato al villaggio natale, Dukana, in cui tutti sono pronti a linciarlo come un fantasma malefico e lo storpio Duzia gli darà notizia della morte sotto le bombe della madre e della bellissima Agnes. 

Ken Saro-Wiwa

ROBERTO SAVIANO PARLA DI KEN SARO-WIWA E DI SOZABOY:


L'ULTIMA INTERVISTA DI KEN SARO-WIWA:

martedì 3 luglio 2012

JOSE' SARAMAGO - LE INTERMITTENZE DELLA MORTE




Le strategie romanzesche di Saramago prendono spesso avvio da paradossi eclatanti, sovvertimenti di regole naturali che producono conseguenze condotte dallo scrittore portoghese fino agli estremi sviluppi. In questo caso è la morte a indire un sciopero che scoccato alla mezzanotte del 31 dicembre sconvolge gli equilibri sociali e politici di un innominato paese. I moribondi restano eternamente tali, incidenti e tentati omicidi, benché efferati, non producono effetti letali e i ricoveri per la terza età, le tristi "dimore del felice occaso" si avviano a un sovraffollamento ingestibile. E' stato d'allarme. Il primo ministro, emesso un comunicato ufficiale che ratifica l'incredibile sciopero, riceve una drammatica telefonata dal cardinale. "Senza morte non c'è resurrezione e senza resurrezione non c'è chiesa." Il clero, se da una parte tranquillizza i fedeli invitandoli alla rassegnazione di fronte agli imperscrutabili disegni divini, dall'altra sente minacciate le fondamenta dei propri disegni e rimedi teologici. E come sempre nei frangenti cruciali c'è chi converte i disastri pubblici in copiosi tornaconti personali. I rappresentanti delle agenzie di pompe funebri, toccati nel portafoglio, chiedono che vengano ufficialmente riconosciute e diffuse la sepoltura e la cremazione degli animali domestici. Alcune famiglie, il cui esempio viene presto seguito da molte, iniziano a trasportare vecchi infermi e malati terminali oltre le frontiere dello stato, dove la morte non ha ancora cessato la sua attività. Il governo, nel tentativo di fermare questo increscioso traffico di moribondi, sparpaglia un po' dappertutto agenti e sorveglianti che vengono però malmenati dalla maphia, reinventata all'occorrenza con la semplice modifica della f in ph, la quale mafia finisce per gestire il traffico in proprio. A tutte queste ansie e malversazioni si aggiungono poi, secondo logiche quanto inverosinili deduzioni, altri problemi che affliggono l'amministrazione statale, tra cui la non piccola minaccia di dover pagare in eterno pensioni di vecchiaia e invalidità. José Saramago, avviluppando il lettore nella spirale della sua prosa dai tratti barocchi e concettuali, districandosi con provata maestria tra il novero di pietosi casi individuali e speculazioni ironicamente metafisiche, spinge il romanzo fino a un punto limite. Al direttore della televisione giunge una lettera firmata dalla morte stessa che annuncia la sospensione dello sciopero a partire dalla prossima mezzanotte. Manco a dirlo, è nuovo panico. Il direttore corre in udienza privata dal primo ministro, che decide di non rendere pubblico il comunicato prima delle ore 21 al fine di limitare a sole tre ore l'immaginabile stato di subbuglio generale. Ma dopo la mezzanotte un'altra bizzarria si aggiunge al ritorno della nera signora armata della sua falce millenaria. La morte decide di inviare a ciascun morituro nei confini del paese una letterina con la quale annuncia la propria visita con sette giorni di anticipo. Una pena insopportabile per i cittadini che si disperano nella consapevolezza di dovere spirare nel tal giorno e alla tal ora. Una pena per tutti tranne che per un solo uomo che rispedisce la letterina al mittente. Si tratta di un violoncellista quarantanovenne cui la morte, stupita di tanta impudenza, decide di fare visita. Si apre così il capitolo finale del libro, una virata che trasforma la fantastica storia collettiva dell'innominato paese in un'avventura tra un'artista solitario e un bellissimo fantasma che decide di concedersi per la prima volta un amore mortale. Galeotto, lo spartito della suite in re maggiore di Bach che finalmente, dopo vane prove e riprove, il violoncellista esegue con tocco impeccabile. Dopo averla ascoltata, "la morte tornò a letto, si abbracciò all'uomo e, senza ben capire quel che le stava succedendo, lei, che non dormiva mai, sentì che il sonno le faceva calare dolcemente le palpebre."    

José Saramago

JOSE' SARAMAGO INTERVISTATO DA SERENA DANDINI: