1936, Alabama. Il fotografo Walker Evans e lo scrittore James Agee, accettando un incarico della FSA, la Farm Security Administration, si avventurano in un’indagine attorno alle condizioni dei fittavoli nel Sud degli Stati Uniti, circa nove milioni di raccoglitori di cotone, più della metà bianchi, costretti a lavorare a ritmi insostenibili e oppressi da un sistema di mezzadria che li ha gettati nella miseria più feroce. Per realizzare il reportage, i due “ficcanaso” nordisti scelgono una manciata di famiglie tipo, trascorrono mesi insieme a loro e pubblicano un libro, Sia lode ora a uomini di fama, che conoscerà nel tempo un grande successo e siglerà la fama postuma di Agee, morto a soli quarantacinque anni dopo una vita di tragici eccessi. Nel 1988, altri due esploratori delle sacche di degrado statunitensi, il giornalista Dale Maharidge e Michael Williamson, fotoreporter di The Washington Post, tornano negli stessi luoghi, la cittadina di Centerboro e i suoi dintorni rurali, riavvicinano gli stessi nuclei familiari e verificano cosa è rimasto di quel mondo scoperto cinquant’anni prima dai loro celebri omologhi. Un nucleo urbano pressoché identico, salvo i telai delle macchine e poche affissioni recenti, la medesima torrida immobilità in cui si respira l’asfittica depressione di una retriva mentalità provinciale, baracche di legno in frantumi, lembi di bosco e radure sabbiose da cui è scomparso il cotone ma non la miseria, e soprattutto volti, i volti affaticati e rugosi dei sopravvissuti accanto a quelli dei discendenti dei Gudger, dei Ricketts, dei Bridges, dei Woods e dei Gaines, una comunità di uomini e storie segnati da un’alienazione accettata come l’unica soluzione offerta per sopravvivere.
una famiglia di coltivatori di cotone del sud degli Stati Uniti ritratta dal fotografo Walker Evans (1903-1975)
Le immagini e la scrittura di Williamson e Maharidge si sviluppano in un continuo contrappunto con quelle di Sia lode ora a uomini di fama, seguono le tracce dei vecchi cronisti e se ne allontanano in digressioni narrative e a tratti sociologiche, riflessioni sul senso di ciò che è stato e sulle conseguenze disastrose lasciate da un sistema prossimo alla schiavitù a cui nessun provvedimento governativo è mai riuscito a porre fino in fondo rimedio. Come dolenti lapidi tombali affiorano le storie di Maggie Louise Gudger, che in una notte d’estate del ’36 sale su un tetto dell’Alabama in compagnia di James Agee e sogna le stelle e un futuro radioso, la stessa donna che dopo la scomparsa dei campi di cotone dal Vecchio Sud, alcolizzata e stremata, ingerisce per la terza volta veleno per topi e serrando la bocca giunge finalmente al suicidio, nel 1971. Oppure la vicenda di Emma Woods, che a sessant’anni inizia a scrivere un diario su quei tempi lontani e sul duro lavoro di emigrata in Mississippi, dove segue il pigro marito Lonnie tra bambini strillanti attorno ai quali costruisce il suo unico mondo possibile. Quella di allora era una povertà diversa, tragica e naturale, una condizione di cui Dale Maharidge ha il coraggio di mostrare anche i lati migliori. Si trattava almeno di una miseria non collegata a uno stigma sociale, vissuta con lo stoicismo di chi non conosce alternative e non con l’ammissione di sconfitta degli attuali falliti. I danni creati dal capestro della mezzadria cotoniera sono stati enormi. Famiglie che piegavano la schiena e si ammalavano di qualsiasi male per sporcizia e denutrizione. Uomini e donne senza nessuna assistenza e destinati a lasciare nipoti e pronipoti che declinata la raccolta manuale del cotone hanno allargato le fasce di emarginazione metropolitane. Raramente sono riusciti a cancellare le ferite inflitte alla loro genealogia. Di antichi suicidi e disperazione parlano con diffidenza e con la paura di rievocare fantasmi mai sopiti. Loro, gli eredi di quei vessati lavoratori, sono rimasti gli attori di un panorama mutato e immutabile in cui vige “un’oscena spietatezza nei confronti della sofferenza altrui.”
Il giornalista e scrittore Dale Maharidge
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