Periferia di Dublino, quartieri popolari, gente qualunque, quella di cui si sente parlare solo se ammazza qualcuno o viene ammazzata. Il marito di Paula, Charlo, più di dieci anni prima è assurto a entrambi gli onori della cronaca. Nel corso di una rapina ha preso in ostaggio una donna, le ha sparato ed è stato a sua volta atterrato da un proiettile della polizia. Ha lasciato la moglie, che picchiava regolarmente, sola, con quattro figli e impelagata nell’alcolismo. Quando l’occhio di Roddy Doyle la sorprende e ne segue passo passo la vita, Paula si sta ripulendo. E’ un anno che non tocca una bottiglia piena, anche se quelle vuote le fanno l’effetto di un’esca irresistibile. Le annusa alla ricerca degli ultimi effluvi, prova a inumidirsi le labbra con una goccia che scivola lungo le pareti vetrose. L’astinenza si fa sentire in momenti impensati, senza appuntamenti, indifferente agli umori. Può succedere per noia, per rinnegare o amplificare un dolore, ma anche per un apparente capriccio, un peccato di gola che prende una punta ossessiva. Quello di chi smette di bere “è un altro mondo. Non è sicura che le piaccia poi tanto. Ma è una donna nuova, una vecchia che sta imparando a vivere.” Nella mente e nel corpo di questa vecchia quarantottenne Doyle si incarna con perfetta mimesi. Ne registra i pensieri e segue le mosse di una quotidianità grigia e coraggiosa, di chi faticosamente risale la china facendosi protagonista di un eroico anonimato. Paula vive con due figli: Leanne, ventiduenne scontrosa e anche lei alcolizzata con cui lotta quasi ogni giorno combattuta tra rabbia e sensi di colpa, e Jack, adolescente timido e diligente che si mantiene gli studi servendo da bere al pub del quartiere. Poi ci sono Nicola, la figlia maggiore, madre responsabile ed equilibrata, e John Paul, il figlio scomparso per nove anni, ex tossicodipendente riapparso all’improvviso con una moglie, due figli, e una vita scandita da normali abitudini. Con ognuno di loro l’eroina del suburbio dublinese cerca di ricucire un rapporto sfibrato da anni di incuria in cui la madre sfortunata e cattiva si trascinava da una stanza all’altra tramortita dal vizio e dolorante per i segni lasciati dalle botte di Charlo. Il romanzo procede senza altisonanti colpi di scena e lo sforzo del narratore si concentra sui minimi traguardi di Paula che assumono proporzioni straordinarie. La prima minestra preparata con cura che diffonde negli ambienti domestici un profumo di cibo quasi scomparso dalla memoria; l’apertura del primo conto in banca alle soglie dei cinquant’anni; i risparmi per il computer del figlio o per uno stereo decente da mettere in cucina. Paula si batte per queste cose. Lavora cinque giorni la settimana per un’impresa di pulizie. In un pulmino pieno di africane va a raccogliere cartestracce e lattine di birra vuote nella platea erbosa di un concerto rock lavorando a braccetto con le immigrate. Tutto ciò che di buono viene dalla vita è un regalo per una reduce come Paula. E’ perfino orgogliosa della stupida targhetta con scritto “personale autorizzato”. Quel che sorprende e rende autentica la scrittura di Roddy Doyle è la distanza da qualsiasi retorica del tragico o del pietoso. Siamo nella dura, piena e carnale Irlanda del popolo e del disagio sociale. Tra voglia di bere e braccia rotte all’ospedale, mezzi pubblici dove Paula resta seduta “circondata da fiumi di gin e di Guinness” e carrelli di supermercato riempiti con il contagocce. E dove ormai “sono tutti alcolizzati. Chi è pallido e chi è troppo rosso, chi zoppica, chi si trascura e chi si cura troppo.” Sullo sfondo Il Grande Fratello, l’universo di Internet, le cronache del pianeta in guerra snocciolate da una radiolina gracchiante accanto ai fornelli.
lo scrittore irlandese Roddy Doyle
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