lunedì 22 agosto 2022
lunedì 15 agosto 2022
L'INTERVISTA CHE HO RILASCIATO A DONATELLA ROSSETTI PER IL QUOTIDIANO ONLINE "IL FARO DI ROMA"
È uscito quasi un mese fa Il Mercato del Vento di Vincenzo Maria Oreggia edito da Galaad Edizioni. Narratore e poeta nato a Milano e residente a San Benedetto del Tronto, Oreggia si divide da oltre un ventennio tra la cittadina marchigiana e Dakar. Ha collaborato con riviste letterarie e quotidiani tra cui Il Foglio, La Repubblica e Il Manifesto. Dal 1995 pubblica racconti, scritti di viaggio, romanzi e poesie, riunite nella raccolta La misura degli anni (2017), sua precedente pubblicazione. Ha inoltre realizzato i cortometraggi Dal Basso (2009) e Il Miracolo del Pane (2014).
Il Mercato del Vento è un romanzo autobiografico che alterna vicende ambientate in Senegal a ricordi di una gioventù milanese. Vincent, alter ego dell’autore, porta accanto al nome di sempre quello islamico di Abdourahim e tiene vicino a sé, nella capitale senegalese, la madre malata di Alzheimer. Una scelta, quella di portare in un contesto così differente una donna anziana che ha quasi perso la memoria, presa contro il parere di molti e che si intreccia a tutta una serie di avventure dai toni a tratti umoristici e a tratti più meditativi. Oltre alla madre spiccano nella narrazione la figura di Penda, avvenente barista di cui Vincent/Abdourahim si invaghisce e che finisce per rivelarsi una specie di tiranno domestico, e quella di una vecchia Renault 12 break, che lo trascina in un labirinto di fantastiche peripezie. Questa mitica gloria dell’asfalto e l’infinita giostra di meccanici che le girano attorno diventa una metafora della vita africana, tra imbrogli, raggiri e prove di amicizia insperate. Sullo sfondo del turbinoso presente riemerge il passato imprenditoriale della famiglia del protagonista, che dall’agio fiabesco degli anni Ottanta del secolo scorso scivola nella crisi dei Novanta fino a precipitare dove non avrebbe mai immaginato.
Perché hai scelto come titolo del tuo libro Il Mercato del Vento, Marché Ngalau in senegalese?
Il Marché Ngalau è uno dei tanti mercati di Dakar, vicino al quale, a un certo punto della storia, si trova il protagonista. In un improvviso click mentale ho pensato che quello poteva essere il titolo del romanzo. La nascita di un titolo è piuttosto misteriosa. Per quanto tu possa sforzarti, il più delle volte non lo decidi a tavolino. Elabori soluzioni provvisorie, anche per mesi, fai una lista di titoli possibili senza esserne pienamente soddisfatto, poi, a un tratto, incappi in una parola o una frase illuminante. Così è successo per Il Mercato del vento, un titolo che fin dalle prime reazioni è stato accolto con favore. Credo che dipenda dalla sua capacità di suggerire in una sola espressione molti possibili significati: le maschere che portiamo nel corso della vita e mutano continuamente, l’aleatorietà di traffici e commerci che crediamo importanti e si vanificano col trascorrere degli anni, la transitorietà di tutto ciò che crediamo stabile. Un titolo, inoltre, che porta in sé una vitale contraddizione – una sorta di ossimoro – alludendo al commercio di qualcosa che è per natura imponderabile, che possiamo percepire ma non trattenere. Il vento è peraltro una metafora dell’Antico Testamento per indicare Dio, che si vede sulle cose che lambisce ma la cui origine e sostanza rimangono ignote.
Parte della tua famiglia si è trasferita in Senegal per affari. Tuo padre ha aperto una panetteria a Dakar. Puoi fare un po’ di luce a questo riguardo?
Mio padre fu un brillante imprenditore dolciario che raggiunse l’apice del successo finanziario sul finire degli anni Ottanta. Nel corso del decennio successivo l’azienda fondata dai nonni iniziò a navigare in cattive acque e subì il colpo di grazia dalle multinazionali che rappresentava in Italia. Nel libro, un romanzo di ispirazione autobiografica, racconto una parte di questa vicenda. Quello sul finire del secondo scorso è stato un frangente economico cruciale e spesso tragico per le sorti di tanti imprenditori vecchio stampo che sono stati fagocitati, anche con manovre proditorie, da holding sempre più invadenti, destinate a diventare le padrone del mercato mondiale, con le nefaste conseguenze che abbiamo sotto gli occhi. Il padre del protagonista de Il Mercato del vento, con le ultime sostanze scampate alla rovina si è lanciato in un’avventura commerciale in Senegal, aprendo una boulangerie (panetteria, ndr) e avviando un commercio di prodotti per la panificazione a Dakar.
È la prima volta che scrivi di te stesso? Che sensazione ti ha dato?
Premetto che esiste una differenza decisiva tra autobiografia e romanzo autobiografico. Fare di se stessi un personaggio di romanzo significa reinventarsi, dare la sensazione di essere se stessi, come teneva a precisare il grandissimo Philip Roth. La scrittura letteraria non è un banale calco del vissuto ma una sua radicale rielaborazione nella lingua. Un romanzo di un certo valore ha vita autonoma rispetto alla biografia dell’autore; partendo da circostanze personali approda a una forma di impersonalità dove queste circostanze diventano significative per chiunque. In ogni caso, tornando alla domanda iniziale, non è la prima volta che la mia immaginazione si innesta su fatti che mi sono accaduti. È già successo in un romanzo precedente, Pesce d’aprile a Conakry, che può considerarsi la prima tappa di un percorso continuato ne Il mercato del vento. La sensazione che mi ha dato lavorare su materiali autobiografici è un misto di straniamento e intimità, riappropriazione del passato e presa di distanza da esso. Scrivere di sé offre la consolazione di farsi compagnia, di rivivere epoche perdute e dialogare con figure estinte, rimanendo consapevoli che tutto ciò non esiste più. Un cocktail di piacere, nostalgia e disincanto.
Viaggi e soggiorni in Senegal da oltre vent’anni. Quando ci sei arrivato per la prima volta ti sei sentito fuori posto?
La prima volta ci si sente profondamente spaesati e affascinati. Avevo già viaggiato in moltissimi paesi, anche del sud-est asiatico, ma niente mi ha trasmesso il senso di un mondo nuovo come l’Africa subsahariana. Nonostante le influenze occidentali, resta la terra delle origini, del contatto con una natura che in Occidente ci illudiamo di addomesticare, con odori, suoni e colori inediti, e soprattutto con un contesto umano per cui ha ancora senso parlare di comunità. Quel sentirmi fuori posto si è placato presto e ho incontrato persone che mi hanno offerto un’ospitalità straordinaria. In Senegal potrei dormire e condividere il pasto presso decine di famiglie con cui sono venuto a contatto, una cosa ormai impensabile da noi. Poi, come dappertutto, esiste il bene e il male, non idealizzo nulla, ma la temperie sociale, l’apertura al prossimo e l’istintiva compartecipazione alle avventure e disavventure altrui sono cose che respiri a ogni angolo di strada.
Quanti occidentali abitano a Fann Hock, il quartiere di Dakar in cui hai ambientato parte del tuo romanzo?
Fann Hock è un quartiere a ridosso del centro di Dakar, un tempo abitato da pescatori di etnia lebou, i fondatori della città, e diventato oggi un’ambita zona residenziale. I prezzi degli immobili sono lievitati così come la presenza degli occidentali, che rimangono comunque una netta minoranza. Ciò che ne rende apprezzabili le caratteristiche è la compresenza di modelli di vita tradizionale e sviluppo di stampo europeo, una sorta di sincretismo urbanistico e sociale che si nota in tutta la capitale senegalese. Negli ultimi decenni le politiche governative non hanno posto limiti a una cementificazione incoerente e speculativa che non preserva i luoghi di interesse storico e muta sempre di più il volto metropolitano, anche se la vita quotidiana dei senegalesi resiste bene a questa modernizzazione selvaggia e omologante.
Nel tuo libro, passando dai ricordi milanesi al presente africano, ci offri uno spaccato inedito di Dakar. Cosa ti affascina e cosa ti respinge di questa città?
Penso che uno dei tratti più originali di questo romanzo sia lo sguardo di un occidentale che ha lungamente vissuto in una città africana, immerso nella vita quotidiana della gente. L’elenco delle cose che mi affascinano e mi respingono di Dakar sarebbe lungo. Tra le prime potrei scegliere quel senso di comunità cui accennavo, una forma di socialismo spontaneo che crea un tessuto umano avvolgente, vitalissimo. Abitando in Senegal non avverto il senso di isolamento che provo in un appartamento di una città europea. La porta di casa non resta mai del tutto chiusa, le visite e i contatti abbondano. Se esco a farmi un giro nel quartiere dove abito a Dakar mi fermo a far due chiacchiere con chiunque, dal falegname al sarto, dai gestori dei piccoli spacci alimentari al farmacista, cosa che in Italia non succede da almeno mezzo secolo. Tra le cose che invece mi preoccupano di Dakar primeggiano il diluvio edilizio e l’affluenza straordinaria di giovani disoccupati in cerca di fortuna che giungono dalle campagne. È un’emergenza sociale che crea disagio, frustrazione ed episodi di criminalità pressoché sconosciuti agli inizi del secolo. Siamo lontani dai livelli delle metropoli sudamericane, la società senegalese dispone di anticorpi ancora robusti, un sistema di valori religiosi e tradizionali che funzionano, ma i governanti africani dovranno fare attenzione nelle loro scelte per gestire questa forma di urbanizzazione incontrollata, ponendo un altolà al furore speculativo e avviando politiche sociali più assennate.
Il protagonista, tuo alter ego romanzesco de Il mercato del vento, è spesso raggirato, vittima di truffe e furberie. Incontra personaggi che lo aiutano ma anche un sottobosco di figure che lo mettono nei guai. La relazione con un’affascinante donna senegalese si traduce in un minaccioso assedio. Succede spesso, tutto ciò, in Senegal?
È molto difficile parlare o scrivere con equanimità della società africana, e se a provare a farlo è un occidentale i fraintendimenti e gli attacchi frontali abbondano. Riguardo all’Africa siamo spesso soggetti a sentimenti ispirati a un buonismo preconcetto o, viceversa, a moti di ripulsa che sfociano nel razzismo. Si tratta di un Continente tutto sommato poco conosciuto e molto immaginato, stiracchiato insieme ai suoi abitanti a proprio uso e consumo, a fini di puro intrattenimento mediatico, demagogici o propagandistici. Pur sviluppando la materia in un romanzo, io sono partito dalla mia esperienza diretta e ciò che racconto, nonostante le appendici fantastiche, è in sostanza fedele al mio vissuto. Il Senegal è un paese complesso, ricco di vitali ma anche imbarazzanti contraddizioni. A una spiritualità e a un sorprendente senso del soprannaturale si associa una ricerca spasmodica di beni materiali. È una società povera e ricchissima, in cui convivono livelli di cultura elevata e analfabetismo, con una forbice tra abbienti e poveri larghissima. Il senegalese in genere non è violento, tende alla mediazione nei conflitti, ma adattandosi a condizioni così difficili può assumere atteggiamenti che non brillano per onestà, come accade in tanti paesi con un reddito medio molto basso e un costo della vita sproporzionatamente alto. L’occidentale è considerato da gran parte della popolazione un privilegiato, a prescindere dalla sua specifica provenienza, e questo complica le cose. Gli vengono propinati servizi a costi molto superiori a quelli effettivamente correnti e, specie se non è esperto, può incorrere in raggiri. Nel mio romanzo ciò viene raccontato anche in chiave umoristica. Al protagonista capita di trovarsi in situazioni che lo fanno sentire come un burattino nelle mani dei ‘cari e furbi senegalesi’. È un aspetto del libro che non esaurisce la complessità dello sguardo sulla società senegalese, ma che non vuole nemmeno chiudere gli occhi di fronte a una realtà che ho sperimentato sulla pelle. Qualche anno fa scrissi una sceneggiatura perlopiù ambientata a Dakar e il membro di una commissione senegalese chiamato a valutarla mosse critiche del tipo: ‘Ma come si permette un occidentale di giudicare la nostra società?’. In realtà non giudicavo nulla, raccontavo semplicemente ispirandomi a fatti reali. L’essere umano è in ogni parte del mondo una mescolanza di buono e cattivo, in Occidente come in Africa, ma i pregiudizi sono all’ordine del giorno, rinforzati dall’orgoglio che vorrebbe dare un’immagine integerrima o superiore agli altri del proprio Paese. Un orgoglio che dopo il colonialismo e uno sfruttamento secolare si riaccende facilmente in un africano. Mi trovo dunque in una posizione scomoda, ne sono consapevole, con la pelle bianca ma culturalmente a cavallo di due Continenti. Un meticcio culturale, potrei dirmi, forte di questo ruolo ma esposto alle critiche che ne conseguono.
Via via che procede il romanzo prende sempre più spazio il personaggio della madre del protagonista, malata di Alzheimer, che il figlio decide di portare in Senegal. Come ha reagito una donna che perde progressivamente la memoria a contatto con l’universo africano?
Donna Elena, o la Signora del balcone, come chiamo spesso nel libro questa anziana signora affetta dal morbo di Alzheimer, alludendo alla sua altolocata provenienza e alla sua straordinaria capacità di osservazione, è una specie di divinità ispiratrice. La sua condizione, che la costringe a vivere in una forma di presente assoluto, non ha i contorni tragici che assumerebbe in un contesto occidentale, dove la malattia è vissuta come una condanna. Donna Elena è una figura straordinaria, un mistero in carne e ossa che si muove nel mondo guidata da una grazia sovrumana. Il modo di considerare la malattia, in Senegal, paese di diffusa e quasi endogena religiosità, è completamente diverso dall’approccio freddamente medico che prevale in Occidente. La madre del protagonista è contornata da bambini che giocano con lei, si diverte a suonare tamburi, scorrazza liberamente nel cortile e si esibisce nelle sue bizzarrie accompagnata con tenerezza dai suoi tutori, in primo luogo dal figlio. Nonostante le difficoltà dell’assistenza, nessuno ne fa un dramma, perché così hanno deciso piani soprannaturali e così va accettato il destino. Lei, la smemorata, non può che beneficiare di un mondo in cui non viene marginalizzata ma che la mette al centro delle cure. Un vecchio, o una vecchia, gode in Senegal di un rispetto eccezionale, pressoché sacro, avvolto anche da quelle che per un europeo sono strane superstizioni. Penda Ndiaye, la donna che attrae il protagonista de Il mercato del vento in una delle sue più pericolose avventure, considera la Signora del balcone una sorta di totem dalle sembianze umane, le cui parole vanno ascoltate come vaticini e che le suggeriscono curiose offerte alle divinità.
Tornando a Penda Ndiaye, cosa puoi dire di questa bellissima senegalese, fascinosa e opportunista, ma anche sfuggente e ambigua?
Mi ha stupito favorevolmente il fatto che in alcuni lettori, a discapito delle apparenze, Penda abbia suscitato sentimenti di simpatia. È un personaggio che rivela progressivamente la sua natura. Una natura non semplice da decifrare. A prima vista potrebbe essere etichettata come la classica venere africana a caccia di un occidentale capace di offrirle nuove opportunità economiche, e questo è anche vero, ma è soltanto una parte di verità, la parte più scomoda e rischiosa per Vincent/Abdourahim, che a un certo punto della storia decide infatti di fuggire. L’altra parte della cosiddetta verità emerge da una considerazione più ampia e umana del personaggio. Penda è una donna che nonostante i suoi modi maliardi e i suoi calcoli che sconfinano nel proditorio aiuta Abdourahim ad occuparsi della madre. Ha origini umili, un livello culturale lontano da quello del protagonista, nutre attese che vengono sconfessate, si comporta come un tiranno ma è anche vittima della sua condizione. Dicevo di come sono contento che sia risultata simpatica, nel senso etimologico del termine, ovvero compresa con quello sguardo di autentica compassione che in un momento del racconto appartiene allo stesso protagonista. Quando l’occidentale abbindolato si reca nella povera abitazione di Penda Ndiaye si rende conto del mondo da cui proviene e in un certo senso ne viene illuminato, elevando la sua percezione a un grado di commossa comprensione.
Anche aggiustare una macchina, in Senegal, sembra una questione di Stato, un problema che fa perdere giorni o settimane. Cosa è successo con questa famosa Renault 12 break?
Se ci ripenso torno a sorridere. La vecchia automobile francese costruita in Turchia su concessione della Renault – un modello ormai leggendario sulle strade africane – è uno dei fili portanti del romanzo, che intreccia storie diversissime in un affresco a cui ho lavorato per un quinquennio. Non si tratta soltanto di una macchina, ma di una creatura magnetica che affascina il protagonista e diventa un’ossessione portante, un veicolo di avventure tra personaggi improbabili eppure concreti, fedelmente ispirati a uomini che ho incontrato. Anni fa conobbi un signore, ne ricordo ancora il nome, Dudù Sidibè, che stava facendo un viaggio di duemila chilometri per portare un pesante pezzo di ricambio in una località sperduta al confine con la Guinea Conakry, dove la sua moto era caduta in panne. Una fatica mostruosa vissuta con leggerezza e fatalismo, come una delle tante necessità quotidiane. Era un cercatore d’oro, di quelli che in alcune parti del mondo lavorano ancora con il setaccio lungo i torrenti, con il quale avevo fatto amicizia dirigendomi anch’io verso la lontana regione di Kedougou. L’Africa è questa terra dell’arrangiarsi, del calarsi nei minimi rivoli dell’esistenza per riparare le cose più piccole, con una dedizione che annulla il tempo. Parlo della vita del popolo ovviamente, quella che ho sperimentato e che mi interessa, non per semplice curiosità, ma perché mi fa sentire partecipe di una cura attenta al dettaglio, alla conservazione di ciò che è utile, alla preservazione di ciò che altrimenti buttiamo senza badare al suo valore. A questa automobile che ho prestato al mio romanzo non ho dedicato settimane, ma mesi, anni, e tra arrabbiature e momenti di gioia mi ha permesso di unirmi a una variegata serie di esseri umani. Ho subito truffe, piccole e meno piccole, da meccanici improvvisati e ogni sorta di personaggi che sono ruotati attorno al mio caro cimelio, ma la cosa più importante non è questa, è l’universo che mi ha dato modo di scoprire. Sembra una follia quando lo racconto ma è successo davvero, e nel libro ne do testimonianza. Gli eredi di Don Chisciotte, in Senegal, esistono davvero, e io sono stato uno dei tanti, che al posto delle pale di mulino ha scelto per ingaggiare il suo duello con i sogni un radiatore fumante e un carburatore capriccioso.
Donatella Rosetti
sabato 6 agosto 2022
L'INTERVISTA CHE HO RILASCIATO A ROSITA SPINOZZI PER IL QUOTIDIANO ONLINE "IL GRAFFIO"
"Le suggestioni dell'Africa, gocce di meraviglia"
“Il mercato del vento” verrà presentato venerdì 15 luglio alle ore 19 presso lo chalet Vino Ammare (concessione 80) di San Benedetto del Tronto, e mercoledì 27 luglio alle ore 18.30 sotto le Logge di Piazza Peretti a Grottammare Alta –
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Lo spettacolo di un continente osservato da un uomo che tiene strette le proprie radici ma, nello stesso tempo, riesce a metterne di nuove in un mondo lontano in cui porta accanto al proprio nome quello islamico di Abdourahim. Si potrebbe riassumere così, in estrema sintesi, “Il mercato del vento” (Galaad Edizioni), l’ultimo libro di Vincenzo Maria Oreggia che offre al lettore molteplici spunti di riflessione all’interno di eventi comici e drammatici, passioni e inganni, miracoli e rischiosi terremoti politici vissuti nel continente africano, dove nell’animo del protagonista fanno capolino anche i ricordi di una Milano rivisitata nei momenti salienti di tre decenni di storia. Eventi che fanno da sfondo ad una gioventù inquieta, vista con gli occhi di un esule che viaggia per il mondo ma abita soprattutto dentro sé stesso. Il tutto ripercorrendo le vicende di una famiglia che “precipita” dove non avrebbe mai immaginato.
Un libro molto bello in cui l’aspetto narrativo si unisce mirabilmente all’introspezione, dando al lettore un interessante visione di un’Africa vissuta a spasso per una metropoli, Dakar. Una “impresa” che riesce bene a Vincenzo Maria Oreggia non solo perché è un talentuoso scrittore – nato a Milano e residente a San Benedetto del Tronto – ma anche perché è un grande viaggiatore permeato da diverse culture che frequenta da un ventennio l’Africa occidentale, con base a Dakar. Narratore e poeta, Oreggia ha collaborato con importanti periodici, quotidiani nazionali e con storiche riviste di letteratura e teatro. Ha pubblicato i racconti Prossimi alla conclusione (1995), gli scritti di viaggio Bach tra gli elefanti (2005), i romanzi Pesce d’aprile a Conakry (2010) e Questa non è la mia patria (2013), gli incontri teatrali Archivio di voci (2014) e il libro di poesie La misura degli anni (2017). Ha inoltre realizzato i cortometraggi Dal basso (2009) e Il miracolo del pane (2014). Più che “lanciare messaggi”, con i suoi libri dice di accontentarsi di produrre qualche goccia di meraviglia nel lettore. A mio avviso ci è riuscito: scorrendo le pagine del suo ultimo libro è forte la sensazione di intraprendere al suo fianco un viaggio nei meandri di un mondo sconosciuto. Un mondo in cui accade il miracolo di recuperare il senso del tempo, immergendosi nell’hic et nunc, qui e ora.
“Il mercato del vento” verrà presentato venerdì 15 luglio alle ore 19 presso lo chalet Vino Ammare (concessione 80) di San Benedetto in collaborazione con la libreria Nave Cervo. A dialogare con l’autore sarà il giornalista Mario Di Vito, con letture a cura di Piergiorgio Cinì del Laboratorio Teatrale Re Nudo. Un altro incontro è in programma mercoledì 27 luglio alle ore 18.30 sotto le Logge di Piazza Peretti a Grottammare Alta, in collaborazione con l’Associazione Culturale Blow Up. Dialogherà con l’autore Marco Cruciani, antropologo e regista, con letture a cura di Vincenzo Pasquariello. L’ingresso è libero. Per saperne di più, abbiamo intervistato Vincenzo Maria Oreggia.
“Il mercato del vento”: cosa ha ispirato questo titolo e com’è nata l’idea di una storia che ti vede tornare alla narrativa dopo quattro anni di pausa?
In realtà sono più di quattro anni. Il mio libro precedente, La misura degli anni, risale infatti al 2017 ed era una raccolta poetica. Gli anni intercorsi dal precedente romanzo, Questa non è la mia patria, sempre pubblicato con Galaad Edizioni, sono nove. Ma la pratica della scrittura narrativa non si è mai arrestata. Il mercato del vento aveva raggiunto proporzioni molto più ampie delle attuali, e solo dopo una lunga serie di revisioni è giunto a una misura che supera di poco le duecento pagine. Oltre al lavoro di affinamento stilistico, interi capitoli sono stati scartati avendo di mira una maggiore compattezza. Il libro può considerarsi il seguito di Pesce d’aprile a Conakry, del 2013, dove iniziava quel movimento geografico e interiore tra Europa e Africa che contraddistingue anche questo lavoro. Quanto al titolo, verso la fine del romanzo il protagonista arriva in un mercato di Dakar, il Marché Ngalau, che in wolof, la lingua più diffusa in Senegal, significa il mercato del vento. Mi è parsa una buona metafora, capace di condensare molteplici significati, primo fra tutti quello dell’esperienza di un uomo di fronte allo spettacolo così meravigliosamente fragile e passeggero della vita.
Quanto è sottile il filo che lega l’autobiografia alla finzione narrativa?
Si tratta di un filo estremamente sottile ed estremamente tenace. La scrittura, se ha aspirazioni letterarie, non è mai un banale calco del vissuto. Lo stesso processo del ricordare è una ricostruzione immaginifica di quanto è successo nella vita cosiddetta reale. Ci sono corrispondenze, più o meno notevoli, tra narrazione e vissuto, anche in libri che appaiono a tutta prima distanti dalla vita dell’autore, ma è ciò che succede lungo quel filo che veramente conta. È lì che nasce il romanzo, nella rielaborazione linguistica, dove in un certo senso si inventa il passato. Benché ne Il mercato del vento lo spunto autografico risulti evidente, specie ai quei lettori che un poco mi conoscono, trovo la questione dei risvolti autobiografici piuttosto oziosa, un motivo di curiosità legittima ma che non ha molto a che fare con la riuscita dell’opera. Narrare di sé è creare il personaggio di se stessi. Il dilemma dell’identità è uno dei fulcri del libro, che narra eventi accaduti lungo un arco temporale di oltre trent’anni, oscillando continuamente tra epoche diverse. Il narratore si racconta a volte in prima e a volte in terza persona, sfogliando come una rosa le immagini di sé che via via si sono accumulate nel corso della sua esistenza fino a ritrovarsi nudo, in una condizione da cui contempla passato e presente quasi fossero frammenti di una pellicola filmica. Un percorso di disillusione che apre le porte a quell’avventura spirituale cui si accenna anche nel risvolto di copertina.
L’Africa è un continente in cui la povertà è diffusa, ma è anche una terra generosa di suggestioni. Qual è lo spettacolo che si pone dinanzi agli occhi di un uomo che osserva una realtà che ben conosce a distanza di tanti anni?
Trattandosi di un continente vastissimo e scarsamente frequentato dagli occidentali, bisogna fare molta attenzione a non incorrere in facili stereotipi riguardo all’Africa. Viviamo in un mondo che si professa globalizzato, anche se ad essere globalizzate sono soprattutto le immagini trasmesse dai media a discapito dell’esperienza diretta, un fatto che ci rende infarciti di opinioni e carenti di sapere. La domanda in merito a ciò che è per me lo spettacolo dell’Africa dopo vent’anni di frequentazione apre contesti tanto vasti che mi è impossibile condensare una risposta in poche battute. Ma se dovessi scavare in fondo alle mie sensazioni, direi che ci sono almeno due cose che un africano non ha perso e che qui in Occidente diventano sempre più rare: la capacità di godere pienamente del tempo, di immergersi senza riserve nel qui e ora, e il senso del soprannaturale. Un senso vivo, ancestrale, al di là di fedi o confessioni specifiche.
Qual è il messaggio che vorresti percepisse il lettore leggendo “Il mercato del vento”?
Non credo che la letteratura debba prefiggersi messaggi precisi. È piuttosto un modo di condividere esperienze attraverso una finzione. Mi accontenterei di riuscire a coinvolgere il lettore nelle storie che scrivo e di accompagnarlo in un mondo che forse non conosce. Produrre qualche goccia di meraviglia. Ecco, mi basterebbe questo. Cosa poi queste gocce significhino nella vita dei lettori, preferirei eventualmente ascoltarlo da loro.
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