Nato
in Sudafrica, nel cuore del territorio dei boscimani, da una famiglia di
origini boere, Laurens van der Post sperimenta fin da piccolo il senso di
un’intimità assoluta con la natura di quei luoghi e ha modo di assaggiare
precocemente - attraverso la sua vecchia tata di colore, Klara, di madre
boscimana - i racconti straordinari delle genti che prima della loro quasi
totale estinzione a seguito di reiterati soprusi e feroci campagne di
assimilazione li abitavano da più di ventimila anni, contendendo ai pigmei dell’Africa
centrale il primato della longevità sul Continente. Organizzati in gruppi
familiari, massimo una trentina di persone di corporatura minuta e grande
resistenza, questi ultimi sopravvissuti dell’età della pietra, detentori di sapienza
e segreti ancestrali, disdegnano il raggruppamento in comunità più vaste così come,
in genere, l’astratta conoscenza dei numeri, prediligendo il nomadismo e vivendo
da cacciatori e raccoglitori lungo le sconfinate lande desertiche del Kalahari.
Lo scrittore ed esploratore che combatté nelle fila dell’esercitò britannico, fu
imprigionato e torturato per tre anni dall’esercito giapponese, dedicò una
parte importante della sua vita e del suo lavoro alle ricerche sull’universo
dei boscimani. Il mondo perduto del Kalahari,
pubblicato nel 1958, fu il primo brillante risultato, seguito dall’omonimo
documentario realizzato per la BBC e da questo libro, tradotto in italiano dopo
quasi sessant’anni dalla sua comparsa, che raccoglie le scoperte di un
intellettuale raffinato e ricco di esperienza, capace di intrecciare le
competenze dell’etnologo militante e quelle del profondo studioso di miti e simboli
(si avvicinerà alle teorie di Jung) unite al talento del narratore di razza. Sempre
mirabili sono le descrizioni del paesaggio in cui si muove, che sanno
restituire con meticolosa capacità immaginativa le variazioni della luce, le
mutevoli condizioni degli eventi atmosferici, le più sottili sfumature del
cielo, delle albe, dei tramonti, degli agglomerati di nubi temporalesche che si
gonfiano in benefiche promesse di pioggia all’orizzonte delle immense piane
desertiche. Raccontando la spedizione nel Kalahari in compagnia di fidati
operatori e del mitico Dabé, guida nativa, Laurens van der Post si avvicina con
formidabile capacità di ascolto alle esistenze dei cacciatori nomadi, che ha
modo di incontrare in un ambiente miracolosamente intatto, e dai quali assorbe
un’eccezionale quantità di informazioni. Le prodezze della caccia con arco e frecce
avvelenate agli animali erranti negli immensi spazi di sabbie e terre rosse,
struzzi, tassi, zebre, istrici, grandi predatori oltre a svariate specie di
antilopi, gli eleganti steenbuck, i veloci e balenanti druiker, le danzanti
saltatrici springbok, il nobile e possente eland, e poi la luna, gli
immancabili fuochi notturni, la traccia opalescente della Via Lattea e le luminose
stelle protettrici: ogni creatura o elemento del paesaggio è un tutt’uno con
l’anima del boscimano, che se ne serve e da cui è servito. Restando immersi in
un contesto simile, la natura, anche per l’animo del viaggiatore, diviene “una
faccenda personale” e “qualsiasi nozione scientifica se ne abbia svanisce rapidamente
fino a che nella mente non rimane più nulla di astratto.” Lo scrittore fa
tesoro di racconti iniziatici, comprende il senso profondo del riso primitivo,
il dono della mimica, “uno dei maggiori talenti del boscimano”, verifica la
straordinarietà delle sue percezioni extrasensoriali, condivide gesti e forme
del vivere uguali da mille anni.
boscimani sotterrano uova di struzzo riempite d'acqua, che serviranno da scorta lungo il cammino
È un equilibrio umano e cosmico che resterà immutato
fino a quando l’armonia del Kalahari e dei suoi cacciatori verrà compromessa
dall’insolenza occidentale e dalla pressione di aggressive popolazioni nere. La
stessa sopravvivenza fisica dei boscimani, vessati da deliranti multe per la loro
semplice attività di caccia, costretti a lavori insostenibili, detenuti per
futili motivi, violentati e spesso così alienati da impazzire, sarà minata fin
quasi all’estinzione. Di ritorno dalla spedizione nel deserto, il loro
estimatore e amico bianco, che si era già fermamente opposto all’apartheid,
intercede presso un alto rappresentante del governo affinché prenda
provvedimenti utili ad arginare il processo di sterminio. Qualcosa le autorità
faranno per rendere la fine di un popolo più lenta e meno dolorosa, ma un altro
male, più profondo, resterà invece senza alcun rimedio: un vizio che mina alle
fondamenta la nostra esausta modernità. Laurens van der Post spende parole memorabili
illustrando le mancanze e la futilità di un uomo cosiddetto progredito che non
riesce più a guardare la realtà “con gli occhi dello spirito oltre che con
quelli del corpo”. “Il problema”, riflette sugli errori dei dominatori
occidentali, “era che vedevamo gli africani solo con l’occhio esterno e non
anche con l’occhio del cuore, e secondo me non è possibile conoscere realmente
gli esseri umani se non li si guarda anche in quel modo, in altre parole se non
li si conosce anche attraverso il senso di meraviglia che suscitano in noi.” Lo
studioso di miti primordiali si allea con il lettore del Nuovo Testamento e non
usa mezze misure di fronte alla miseria dell’uomo contemporaneo. “Siamo sempre
mendicanti rispetto a quello che eravamo nati per diventare. È il rifiuto o
l’incapacità di riconoscere questo che sbarra la strada e crocifigge l’uomo
nuovo in noi. Ed è questo il significato del grido: Padre, perdona loro, perché
non sanno quello che fanno. Siamo un popolo, anzi un’intera epoca, chiuso
nell’oscura nube di quell’ignoranza.” La terza e conclusiva parte del Cuore del cacciatore, dopo i contatti
intimi con la vita dei boscimani e della loro casa di sabbia e stelle, la
cronaca dolente dell’epilogo e la constatazione della povertà spirituale cui si
sono condannate le nostre società con la tracotanza delle loro menti, torna a
riflettere sul mondo creaturale del deserto.
Laurens van del Post
I panni dello studioso di simboli
e segni si avvicendano a quelli del filosofo e del viaggiatore, e dai toni del
reportage passa alla decifrazione della cosmogonia boscimana, le cui tracce
sono ancora visibili nelle celebri pitture rupestri, dove a fare da
protagonisti sono gli animali e le loro metamorfiche sembianze, a partire da
quella creatura sacra che è incarnazione del primo spirito: Mantide, espressione
dell’unico Senso, significato stesso della creazione, sogno che si è fatto
carne. E da Mantide si scende e ci si espande, arricchendo un delta
meraviglioso, un grandioso albero genealogico composto di nomi ma soprattutto
avventure, lotte, trasformazioni vissute da elefanti, manguste, babbuini e
molte altre concrete e visionarie manifestazioni della vita che permettono al
boscimano di accedere al significato più radicale del conoscere e, specularmente,
a quel “senso di essere conosciuto”. Un senso di parentela universale con
qualsiasi cosa incontri, arcanamente reciproco e così forte che gli consente di
rivolgersi agli astri “come fossero membri della sua famiglia”.