Ma ecco la lettera dal piglio schietto e accorato della mia amica:
Ciao
Vincenzo,
sono
da poco rientrata dal Senegal e per ringraziarti di tutte le buone dritte che
mi hai dato,
voglio
condividere con te alcune impressioni.
Il
mio è stato un lungo viaggio , anche emotivo, e agli amici che mi chiedono
“Com’è andata ? sei felice?” non riesco ancora a dare una risposta semplice.
Questo
secondo incontro con il Senegal è nato per dar seguito a un’urgenza , la voglia
di fare qualcosa per i bambini talibè, incrociati per caso a gennaio in una
periferia di Dakar.
Come
sai i talibè o “enfants de la rue” sono bimbi dai cinque anni in su , affidati
dalle famiglie a un maestro coranico , il marabut. Ufficialmente studiano e
dormono nel Daara , scuola coranica; di fatto, molto spesso, trascorrono le
giornate in strada mendicando cibo e soldi.
Ho
lavorato come volontaria in un centro di accoglienza diurna, preparando
colazioni, cercando di farli lavare, facendo medicazioni, ma anche semplicemente
giocando con loro. E mi sono sentita in pace , gratificata.
Questo
le prime settimane.
Con
il passare dei giorni, poco a poco, ho cominciato a comprendere quello che
realmente vedevo e in cui mi ero immersa.
Ti
racconto solo di Cheikh e Abi , due dei bimbi speciali che mi hanno fatto
riflettere molto.
enfants telibé per le strade del Senegal
Cheikh,
appena cinque anni e un visetto rotondo, è arrivato nella nostra infermeria
all’inizio di maggio, con evidenti lesioni in tutto il corpicino, viso compreso,
e da subito ho cominciato a chiedermi che cosa gli fosse successo … Devo dire che è stato scioccante capire che
aveva subito percosse proprio dal suo marabut, un giovane uomo di circa
venticinque anni!
Questa
cosa che i maestri spirituali, come metodo educativo, possono picchiare i
bambini non mi era nuova, avevo già avuto occasione di sentire altre testimonianze
e vedere le ferite, ma questo era un
caso particolarmente grave. Dovevo agire e ho chiesto aiuto al personale senegalese
che lavora al centro, in particolare all’infermiere-dottore-assistente sociale
che mi ha rassicurato: ci avrebbe parlato lui , minacciandolo!
Io
onestamente non sapevo se veramente l’incontro era avvenuto e cosa si fossero
detti , ma Cheikh continuava ad arrivare e con i suoi occhi grandi si metteva
silenzioso in un angolo, in attesa del suo turno , ogni mattina doccia per
contrastare l’infezione in corso e lunga medicazione. Le sue ferite stavano
migliorando.
L’ultimo
mio giorno di permanenza, come sempre abbiamo ripetuto il nostro rituale, ma
una volta ben pulito, come ho provato a mettergli i vestitini nuovi, lui si è
agitato moltissimo, aveva veramente paura e ha cominciato a ripetere
ossessivamente in wolof “ogni volta che mi cambiate i vestiti il
Marabut mi picchia”.
Sono
rimasta di sasso.
Poi
la rabbia. Come poteva quell’uomo essere così vile?
Volevo
denunciarlo; ma nulla, mi è stato detto che così facendo nessuno dei suoi talibè
sarebbe più potuto venire da noi e molto probabilmente anche gli allievi di
altri Daara avrebbero avuto lo stesso divieto.
Abi:
un gran simpaticone di otto anni, uno di quelli più assidui , che approfittava di
tutti i “servizi” offerti, persino del corso di alfabetizzazione. Un modello di
inserimento. Era la soddisfazione di tutti i volontari dell’associazione. Nel
pomeriggio, quando il centro era chiuso, Abi e il suo amico fraterno Gaye
arrivavano, senza disturbare, ovunque noi ci trovassimo, non importa che fosse
un pranzo a casa di una signora senegalese o una festa improvvisata nel quartiere.
Un
giorno abbiamo deciso di portare i due amici con noi al mare, gli abbiamo
comprato le ciabatte, la frutta, una bibita, abbiamo giocato con loro sulla
spiaggia, insomma li abbiamo fatti sentire bambini “normali”, gustare qualcosa
che non avevano mai avuto… Beh, quel giorno ha chiaramente rotto un precario
equilibrio. Abi è scappato dal Daara, per diversi giorni ha vissuto nascosto
nei dintorni della casa in cui eravamo ospitati, si faceva avvicinare
saltuariamente. In un paio di occasioni abbiamo provato a farlo ragionare, ma
di riprendere la sua vecchia vita proprio non se ne parlava!
Nonostante
le difficoltà linguistiche abbiamo capito che tornare avrebbe voluto dire botte
sicure, per la fuga e per i soldi che da giorni non consegnava al suo marabut.
Soldi
… ?
Si,
soldi.
Ogni
sera, entro le 19, i talibè devono rientrare e consegnare un certa somma al
loro maestro, altrimenti sono guai seri.
Il
nostro ospite senegalese aveva inoltre minacciato a gran voce il bambino che se
lo rivedeva girare intorno a casa, anche lui lo avrebbe picchiato.
L’infermiere
tuttofare si rifiutava di essere messo in mezzo e noi, in quanto toubab, ovvero
bianchi stranieri, non saremmo mai stati accettati come interlocutori.
Insomma
Abi era disperato e noi pure, presi dall’ansia di non saper come risolvere la
situazione .
Fortunatamente
è arrivata in nostro soccorso Ngone, la signora senegalese che lavorava con noi
. Una donna forte, fiera e dolcissima, che con molta discrezione ha riportato
Abi alla sua scuola , dicendo al marabut che era stata lei ad averlo ritrovato e dandogli i
soldi che noi in gran segreto avevamo offerto.
Devo
dire che nella mia testa girano ancora oggi molte domande: bisogna rispettare
la diversa cultura anche quando ci appare un evidente sopruso? Fino a che punto
può spingersi un volontario per non essere dannoso? Questi bambini colmeranno
mai la loro infinita carenza di affetto?
Riusciranno a reintegrarsi nella società? E poi ancora … Posso trovare un modo
diverso per aiutarli?
Si,
posso , anzi lo farò!La mia prossima volta in Senegal sarà con un’associazione
che toglie i bambini dalla strada, offrendo loro un’educazione, quando
possibile ricongiungendoli alle famiglie d’origine e comunque insegnandogli un
mestiere e permettendogli così di diventare adulti , forse un po’ più sereni.
Certo
non si può cambiare il mondo , ma vale
la pena lottare anche per aiutarne uno solo.
Un
abbraccio