Maestro
americano scomparso nel 2014 a settantuno anni, Kent Haruf sceglie la cittadina
immaginaria di Holt, in Colorado, per ambientare le sue storie umanissime e
cristalline: dipinte, verrebbe da dire, da una prosa parsimoniosa ed evocativa,
costruita come se in fila, nei momenti più intensi, siano disposti versi di
poesie narrative. Grazia e leggerezza particolari che colgono le anime dei
personaggi quasi scattando istantanee all’invisibile, lasciando respirare i
silenzi e permeandoli di un senso potente e ineffabile, le pause dei dialoghi
che regalano esempi continui della distillata e particolare saggezza di un
romanziere in grado di contemplare la vita da un punto intimo ed eccentrico, facendo
vibrare nel suo lavoro moti di complicità, nostalgia e soprattutto grande pietà.
Ascoltare lo stile di Haruf è dunque dedicarsi a una vera e propria pratica
conoscitiva, un’esperienza che indaga e insegna l’universo degli esseri umani,
i loro dilemmi, le loro complesse scelte morali, l’incapacità, a volte, di prendere
vie che siano interamente buie o luminose, benefiche o portatrici di nefasti
accidenti, perdurando in quel purgatorio di ambiguità e incertezze che incarnano
spesso nei loro viaggi terreni, da cui si staccano poche, preziose schegge di
chiara autenticità. Come ricorda nella nota in coda al romanzo il traduttore
Fabio Cremonesi, quel che si aggiunge in quest’opera, rispetto ai lavori
precedenti e in particolare rispetto alla Trilogia
di Holt - pubblicata in tempi recenti come tutto Kent Haruf da Enne Enne
Editore - è una certa impazienza e un incalzare del tempo che viene a mancare.
Nella trama di una vicenda semplice e teneramente paradigmatica - la storia di
un amore senile inaspettatamente fiorito e poi, dopo una breve stagione
gioiosa, costretto a ridursi a un timoroso mormorio telefonico dalle violenze
dell’ipocrisia sociale che giudica e di nascosto invidia la felicità altrui -,
si riflette forse lo stato emotivo dell’autore che scrive quest’opera
nell’estremo frangente della sua vita (Our
Souls at Night verrà pubblicato un anno dopo la morte) come un malinconico
ma in fondo non pessimista testamento d’artista. Nonostante tutto, infatti,
l’ultima battuta che corre tra Addie Moore a Luis Waters, i due amanti, è una
domanda confidenziale, rassicurante, quotidiana - “Fa freddo lì stasera,
tesoro?” - che rilancia virtualmente all’infinito un dialogo che si temeva compromesso.
Una domanda, quella rivolta da Addie a Luis, che costituisce anche l’ultima
riga del libro nonché il rilancio di una speranza ancora presente e attiva.
Kent Haruf
Ma
prima di questo sapiente epilogo in levare c’è tutta la delicatezza con cui lo
scrittore fa avvicinare la settantenne vedova Addie a un altrettanto anziano e
vedovo vicino di casa: la schietta e apparentemente sfrontata proposta di
venire a dormire da lei, nel suo letto, solo per stare vicini, per raccontarsi,
nel buio o alla tiepida luce di un’abat-jour, ritrovando la piacevole,
affettuosa intimità che avevano forse sperimentato in un epoca lontana e forse mai
con una simile forma di abbandono. E insieme a questa intimità giunge il
desiderio di fare cose semplici e buone che tornano ad avere un gusto perduto:
un paio di giorni nella natura assoluta, ad esempio, dove ascoltare il rumore
dell’acqua in una tenda accanto a un ruscello di montagna mentre la piccola cittadina
bigotta chiacchiera e sparla delle visite notturne di Luis, pigiama e
dentifricio infilati in un sacchetto di carta come un adolescente scappato
dalla finestra, e delle sue scorribande nel paradiso di un miracoloso amore
tardivo. Le nostre anime di notte
assume per un buon tratto questo carattere di idillio sospeso e minacciato,
custodito gelosamente e assediato dalla malevolenza, vissuto da due anime
incanutite cui non resta null’altro che donarsi a vicenda il donabile, nel
piacere, oltre ogni verosimile tornaconto, di risentirsi puramente vivi,
partecipi e testimoni della propria esistenza. Una condizione meravigliosa e
precaria, questa passione distillata dagli anni, che accusa una brutale battuta
di arresto quando il figlio di Addie Moore, Gene, minaccia la madre di privarla
di ogni contatto con l’adorato nipotino Jamie se non interrompe subito la vergognosa
relazione con il vicino. Il coraggio dell’anziana donna si stempera di fronte al
ricatto avanzato dalla sua stessa famiglia - e qui è di nuovo perfetta
l’intuizione di Haruf nel cogliere la fisiologica, improvvisa e remissiva
debolezza di un corpo invecchiato - così che i due amanti si allontanano, fino
a riaprire, però, nelle battute conclusive la partita interrotta.
Le loro voci al telefono, niente di più: al
momento tutto quello che resta. “Fin quando potremo. Finché dura.”