Tornare a un raduno hippy nelle foreste
dell’Oregon dopo 25 anni dal primo acido e scoprire la triste epitome della
propria generazione, “una generazione di Peter Pan accuditi da Wendy austere e
materne come Bill e Hillary Clinton”. Avventurarsi per la seconda volta e
contro ogni buonsenso in una Liberia dilaniata da guerre civili mettendo a
durissima prova la capacità di resistere alla paura e all’orrore fino ad
ammettere, in un mare di guai, un cedimento alla codardia. Scegliere come
viaggio di nozze un’escursione nelle solitudini dell’Alaska alla ricerca del
metallo prezioso con cui costruire le fedi nella speranza realizzata di
ritrovare una vita fondata “su cose basilari e immutabili che traggono forza da
pochi elementi: fuoco, acqua, cibo, sesso, oro”. Atterrare in Etiopia con un
aereo stracolmo di sacchi di chat, l’erba eccitante più diffusa nel Corno
d’Africa, per raggiungere avventurosamente la Somalia e rimanere l’unico
giornalista americano a Mogadiscio dopo l’uscita delle Nazioni Unite.
Ritrovarsi a Dhahran quando scatta, nel 1991, la prima offensiva contro Saddam,
e ancora piombare in una Kabul appena conquistata da minacciosi guerriglieri
talebani con barbe intrecciate e turbanti sudici. Queste sono alcune delle
imprese che Denis Johnson ci racconta in questo libro trasformando il reportage
in un genere aperto a molteplici influenze e divagazioni. Da scrittore e poeta
in bilico tra conciso realismo e sprazzi di visionarietà psichedelica, tanto da
essere considerato uno dei migliori esponenti della drug literature, quando nel corso degli anni Novanta si trova ad
essere corrispondente internazionale per il “New Yorker” e “Rolling Stones”,
Johnson batte strade pericolose e marginali. Da una parte riesce a trovarsi in
prima linea dove divampano conflitti in cui sono impegnati, direttamente o
tramite la multiforme azione dei servizi segreti, gli Stati Uniti d’America,
dall’altra si cala in realtà e aspetti sociali più intimamente americani. E
anche qui, impegnandosi in illuminanti indagini “interne”, rivela una capacità
notevole nel cogliere lo spirito ottuso e gli scabrosi fanatismi di gran parte
della classe media. Nello scritto intitolato “Motociclisti nel nome di Gesù”
prendiamo parte a un ritiro del reverendo Douglas Copeland, della Kenneth
Copeland Ministries, azienda tele-evangelica dedita alla salvezza delle anime
su vasta scala. Si tratta di un motoraduno pervaso da aneliti spirituali in
tinta biker e infervorato da un trito ma funzionante populismo religioso,
davanti al quale ci chiediamo se la “Chiesa motociclistica di Cristo” non sia
un’espressione meno bacata di tanti altri fondamentalismi sparsi nel mondo. E’
anche questa l’America su cui occorre aprire gli occhi per capirne meglio il
riflesso esterno nelle scelte più intransigenti della sua politica
internazionale. Ma Johnson, addentrandosi nel dedalo di sette religiose più
tranquillizzanti che colorano la realtà americana, scende nei luoghi desertici
del sud lungo la punta orientale del deserto Yuma dove tra i segni di antiche
civiltà scomparse e il baluginio in mezzo al nulla della città di Las Vegas
trova “un paesaggio onirico di desolazione asteroidale e cumuli di scorie
laviche.” E’ qui, in un sito apparentemente invivibile, che si sono stabiliti i
Figli della Luce, 19 tra donne e uomini, una comunità di eletti che vive in
assoluta autonomia ascoltando la Voce dell’anziana guida Eletta Opale. Non
mettono nulla in vendita e non sollecitano contributi. Coltivano il cibo che
mangiano grazie alla miracolosa scoperta di un lago sotterraneo d’acqua dolce e
accumulano provviste per sopravvivere alla prossima fine del mondo ad opera del
fuoco. Sembra ormai di essere arrivati oltre
i confini degli Stati Uniti così come di qualsiasi altro paese. E la
silenziosa, apocalittica attesa dei Figli della Luce diventa un altro luogo
estremo che questo strano reporter a caccia di guerre e di istanti mistici
segna lungo il suo percorso.
Denis Johnson