VINCENZO MARIA OREGGIA

BIOGRAFIA, LIBRI, RECENSIONI, INCONTRI, REPORTAGE

domenica 11 settembre 2011

V.S. NAIPAUL - LA MASCHERA DELL'AFRICA


Un’Africa terribile, viscerale, irrazionalistica, a tratti irresistibilmente fascinosa ma spesso perduta “nel pozzo senza fondo delle credenze e delle superstizioni tradizionali”, malata di un vitalismo primitivo, che spinge ogni rivoluzione modernista verso una cronica entropia e rende fallimentare il bilancio sociale ed economico di quasi tutti i suoi stati. I sei lunghi reportage narrativi raccolti in questo volume dal Premio Nobel per la Letteratura 2001 si sono attirati non poche critiche per il loro sguardo clinicamente laico e distaccato sul Continente africano, passato al vaglio di un’osservazione che concede il minimo alla fascinazione dell’esotico e non nasconde il disagio intellettuale, il disgusto o la pura e semplice noia di fronte a culti dalle pretese misteriche, inclini a sacrifici cruenti e alquanto poveri di contenuti filosofici. Se a tutto ciò si aggiunge la speciale idiosincrasia per le forme più tradizionaliste di società islamica e la generale diffidenza suscitata dalle grandi religioni monoteiste penetrate in Africa e abbracciate senza rinunciare al secolare orizzonte animistico, potremmo eleggere il libro di V.S Naipaul a esempio di illustre conservatorismo contemporaneo: pagine che versano lacrime sugli eleganti quartieri dei bianchi razzisti di Johannesburg, ormai fatiscenti e deteriorati dall’atavica incuria africana subentrata al vecchio efficientismo coloniale, o che colgono nella sofferenza di vacche e gatti sacrificati con metodi atroci i segnali di una spaventosa forma di inciviltà. Ma lo scrittore di Trinidad ha notevoli riserve stilistiche e ampie capacità analitiche, così che il coraggio di una parzialità per nulla politically correct regala, accanto a eccessi di discutibile ripulsa, tesori di verità che anche l’amante più sognatore dell’Africa deve chinarsi a raccogliere. L’indagine attorno alle religioni tradizionali - questo il dichiarato obiettivo del tortuoso itinerario in sei stati africani - compiuta tra il marzo del 2008 e il settembre del 2009, inizia nell’Uganda reduce dalle spietate dittature di Idi Amin (1971-1979) e di Milton Obote (1981-1985), la cui capitale Kampala non smette di estendersi in un’esplosione dissennata di metastasi cementizie. E’ nelle magnifiche campagne verdeggianti dell’antico regno del Buganda che si respira la tensione di una tregua apparente, la vita che malgrado la ruota scandita dalle occupazioni quotidiane rimane intimamente legata alla stregoneria e alle rivalità sanguinarie di villaggio in villaggio, configurando agli occhi del viaggiatore “un mondo suscettibile da un momento all’altro di dissoluzione razionale.” Un inventario di violentissimi fatti di cronaca emerge da stralci di giornali locali che danno il polso reale di un paese allo sbando dopo quarant’anni di guerra civile. La gita naturalistica sul lago Vittoria verso l’isola delle scimmie è il controcanto spettacolare di un Continente lacerato, l’immagine grandiosa di una natura a tratti incontaminata che scorre indifferente e parallela alle carneficine umane. Il mondo degli spiriti e delle pratiche tradizionali diventa protagonista della narrazione quando Naipaul si occupa della civiltà autoctona ugandese sopravvissuta fino alla metà dell’Ottocento e testimoniata da esploratori occidentali come Stanley, tra i primi ad addentrarsi in regni governati da re onnipotenti, venerati come emanazioni divine: leggendarie terre in cui era d’obbligo versare lo hongo tribale, sorta di tassa pedonale che non garantiva ai viaggiatori l’incolumità assoluta ed era sempre suscettibile di arbitrari aggiustamenti. I nomi dei mitici regnanti sono quelli di Re Mutesa o del Kabaka Sunna, la cui tomba rimane un’attuale meta di pellegrinaggio nonostante le ottocento persone che riuscì a condannare a morte in una sola giornata e le svariate atrocità commesse con la dispotica leggerezza di un capriccio regale. Il soggiorno dello scrittore sessantasettenne in Nigeria è un’immersione nel paganesimo religioso, avvicinato grazie all’incontro con diversi capi tradizionali, dall’oba (re) di Lagos al babalawo, figura ricorrente di mago o stregone, fino all’oni di Ife, lo chef spirituale del popolo yoruba. Il ricevimento presso l’emiro di Kano, antica città del nord musulmano, offre lo spunto a una documentata dissertazione sulle ferree regole di vita dell’harem, in cui alle donne che allattano viene coperto il volto affinché il neonato non memorizzi i lineamenti materni, in modo da prevenire l’insorgere di un nucleo familiare potenzialmente capace di destabilizzare il generale assetto poligamico. Naipaul passa di mentore in mentore, ricevuto e accompagnato sul posto da guide autorevoli e bene introdotte in ambienti politici e religiosi. In Ghana, antica Costa d’oro nonché regno degli ashanti, il cui potere verrà fortemente limitato dalla dittatura del primo presidente Nkrumah, sarà la volta di Pa-Boh, segretario e amministratore di sette capi tradizionali, che introduce il reporter al gran sacerdote dei ga. Queste visite ad autorità religiose e a officianti di culti diffusi sono avventure in locali bui e labirintici, stanze oppressive e affollate, una costellazione di segni e prescrizioni dal sapore esoterico che inquietano l’animo cartesiano di Naipaul, educato al giudizio pacato e a una ragionevolezza che l’Africa non ha mai fatta propria. Quello che ad altri esploratori di ieri e di oggi è sembrata la porta intrigante a saperi misteriosi, a lui pare il solito ritornello della cerimonia pagana che spostandosi di latitudine varia alcuni ingredienti ma non la sostanza della ricetta: un commercio con le ricorrenti e occasionali divinità del pantheon politeista, offerte costose, strambe, spesso cruenti, e un culto degli antenati che si spinge fino a dolorosissimi eccessi sacrificali. Da scrittore umanista, Naipaul non si limita a un freddo sguardo antropologico, ma integra la sua indagine con rilievi che tengono conto degli universali diritti umani, di una Costituzione morale trasversale rispetto a etnie e popoli, una carta invisibile che gli consente di stigmatizzare comportamenti e pratiche inaccettabili anche se provenienti da terre remote e fondate su arcaiche abitudini sociali. L’ultimo appuntamento in Ghana è con l’ex presidente e capitano dell’aeronautica Jerry Rawlings, protagonista di due colpi di stato che restituirono il governo ai civili, rivoluzionario e mito vivente intervistato in un’elegante villa della capitale Accra. La rotta africana del distinto signore di lettere punta quindi su Abidjan e su una Costa d’Avorio che ritrova trasformata rispetto a una visita di qualche decennio prima. Il cielo serale oscurato da sciami di pipistrelli detti volpi volanti e portatori del virus Ebola è il luttuoso sudario che copre una città un tempo ariosa, densa di un fascino coloniale, e ora preda, come l’intero paese, di immobiliaristi e speculatori selvaggi. Il re della foresta si trasforma nel racconto del lunghissimo regno del vecchio presidente Houphouët-Boigny, altro mito nazionale, amato dal popolo e dai francesi, prodigo di opere grandiose quanto deliranti e votate alla fatiscenza, “che permise ai francesi di gestire la nazione, mentre lui si dedicava alla magia a suo uso e consumo, sperperava la ricchezza del suo paese, costruiva monumenti religiosi, come un faraone.” 


il premio Nobel caraibico V.S. Naipaul


Se la trattazione di aspetti politici e sociali - malgrado gli intenti dichiarati dell’autore di una ricerca in ambito prevalentemente religioso - si fa più serrata nello scritto conclusivo dedicato al Sudafrica, la dimensione animistica e spirituale caratterizza l’intero reportage dal Gabon, in cui la religione della foresta e il suo fitto sistema di credenze diventano i protagonisti assoluti della narrazione. Risalendo il fiume Ogooué e addentrandosi nella riserva nazionale della Lopé tra distese di foresta vergine e acque popolate da geni e temibili fantasmi, Naipaul assiste a cerimonie danzanti con maschere e tamburi dall’ossessività magnetica, viene informato di segrete iniziazioni, del culto dell’iboga, pianta sacra dalle componenti fortemente psicoattive, e si documenta sulla vita dell’etnia fang e su quella degli ultimi pigmei, straordinari conoscitori della farmacopea tradizionale e di ciò che occorre per sopravvivere in un ambiente estremo popolato da creature animali e vegetali di ogni genere. Si tratta di luoghi dove tutto ha un’anima e si puo’ uccidere per impossessarsi dell’energia di un rivale, dove gli antenati sono i soli intercessori presso il dio unico, venerati in reliquiari nascosti in villaggi seppelliti tra fusti secolari. Compagno di viaggio è il trentasettenne Mobiet, americano bianco da anni insediato in una zona interna del Gabon, integrato tra i nativi, iniziato ai culti tradizionali e animato da un’autentica tensione mistica. L’ultima stazione gabonese è quella sull’isola di Labaréné, stretta lingua di terra lunga 25 chilometri in mezzo alle acque dell’Ogooué, antica e cadente residenza del dottor Schweitzer, tratteggiato con poca simpatia per il suo algido distacco dagli indigeni, ai netti antipodi del meno celebre ma eroico reverendo Nassau, insediato con la sua missione nella stessa zona. La Maschera dell’Africa, titolo che allude a un costante e metamorfico travestimento di un Continente che oscilla tra svariate identità, minaccioso e attraente come una natura madre restia al controllo, onnivoro per uno spasmodico amore del presente, dell’attimo da deglutire come un dono passeggero, questo viaggio nel magma primordiale di credenze e riti, follie e scorci meravigliosi che anestetizzano e sospendono il disgusto, si conclude con un’ampia ricognizione attorno all’unico paese africano dall’economia efficiente, il più prossimo, in apparenza, al modello occidentale, e in cui si annidano brucianti contraddizioni. V. S. Naipaul scrive di un Sudafrica in cui i vecchi coloni bianchi sono spariti dalle prime linee ma hanno trovato alleati in un gruppo ristretto di africani compiacenti, spartendosi con essi l’azionariato delle società che contano. Nonostante la Commissione per la verità e la riconciliazione, le ferite sono rimaste aperte e la questione razziale è tuttora la più grave emergenza del paese. Dalla voce di Winnie Mandela sprizzano scintille velenose, accuse al leader Nelson che ha tradito scendendo a un compromesso ingiusto, che ha accettato la consegna del Nobel a braccetto del suo carceriere. Winnie non ha mezze misure: “Siamo stati truffati. Una libertà basata su compromessi e concessioni, è questo che Mandela ha accettato. Il potere economico ai neri: figurarsi! E’ stato un trucco dei bianchi in combutta con i capitalisti bianchi sudafricani. Hanno scelto dei neri malleabili e li hanno fatti diventare soci delle loro aziende. Ma quelli che avevano lottato, che avevano dato il sangue sono rimasti con niente. Vivono ancora in baracche: senza elettricità, senza fognature, senza possibilità di istruirsi.” L’ostacolo più grosso a uno sviluppo reale, capace di mutare le coscienze, è l’arretratezza del sistema scolastico, volutamente limitato o reso inaccessibile alla larga maggioranza degli oppressi o dei poveri, circostanza che costituisce il male maggiore, accanto alle privazioni alimentari, di quasi tutti gli stati africani. La condizione del Sudafrica attuale è magistralmente compendiata nelle storie di un narratore, Rian Malan, e del suo My Traitor’s Heart, di cui Naipaul offre una notevole recensione incastonata nel corso del suo scritto. Orrendo e intollerabile è, in piena Johannesburg, il mercato dei muti, gli oggetti richiesti ai clienti dagli stregoni, tra cui spiccano costose teste di cavallo e pezzi di animali vari. Orrende e intollerabili sono le pratiche sacrificali usate per le mucche, che devono muggire forte mentre le scuoiano affinché le sentano gli antenati. Non manca, nella caleidoscopica officina dello scrittore di lingua inglese, la rievocazione storica dell’esodo dei boeri da Città del Capo nella prima metà dell’Ottocento. Un po’ più tardi, negli anni Novanta dello stesso secolo, un ospite illustre viaggiò in condizioni disastrose da Durban a Johannesburg e quindi a Pretoria: si chiamava Mohandas Gandhi, un timido avvocato giunto in Sudafrica per assistere un ricco mercante indiano di religione musulmana. Giovane e inesperto, subì angherie e umiliazioni, resistendo anni e anni in questa terra, fino a trasformarsi in un uomo di mezza età - l’avvocato finalmente dissolto nel mahatma - pronto a dare fondo ai suoi prediletti strumenti politici: “la disobbedienza civile, il digiuno, la spiritualità universale.”                         

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