È stato curioso leggere in Africa questo libro, che è una sorta di trattato etnografico in forma narrativa e poetica sul quotidiano vivere di un borgo nel vicentino degli anni Trenta. I giorni che racconta Meneghello sono sospesi nell’aura magica e infantile del ricordo e doppiamente stregati da quella lingua primigenia che è il dialetto. Sono i giorni di una piccola comunità legata ai ritmi delle primarie necessità dell’esistenza. Leggere “Libera nos a Malo” è stato curioso, sì, ma non così avulso da ciò che può accadermi intorno, non tanto nei contaminati ambienti metropolitani, quanto nei villaggi calmi e tutto sommato ancora arcaici della brousse. È proprio qui che la sostanza di una lontana Italia microprovinciale sopravvive sotto pelli, colori e climi differenti: qui, a esempio, che “la fatica”, o il ciclico lavoro di sussistenza, mantiene intatto il suo pieno senso.
Giusto un passo per ricordare Luigi Meneghello e quel suo mondo custodito in altre forme e in altri luoghi della terra:
“Il paese di una volta aveva un suo pregio: formava una comunità umana modesta ma organica. Ci conoscevamo tutti, il rapporto tra i vecchi e i giovani era più naturale, il rapporto tra gli uomini e le cose era stabile, ordinato, duraturo. Duravano le case, le piccole opere pubbliche, gli arredi, gli oggetti dell’uso: tutto era incrostato di esperienze e di ricordi ben sovrapposti gli uni agli altri. Gli utensili domestici avevano una personalità più spiccata, si sentiva la mano dell’artigiano che li aveva fatti; la parsimonia stessa del vivere li rendeva più importanti. Perfino i giochi dei bambini erano più seri: meno giocattoletti di plastica, meno sciocchezze. Tutto costava e valeva di più: perfino le palline “di marmo”, le figurine con cui si giocava erano tesori.” (Libera nos a Malo, pag. 173-174)
Nessun commento:
Posta un commento