domenica 13 ottobre 2024

A COLLOQUIO CON TOMMASO GIARTOSIO NELLA PUNTATA DI FAHRENHEIT (RAI RADIO3) DEL 18 SETTEBRE 2024

Qui di seguito il link alla puntata di Fahrenheit di Rai Radio3 in cui ho parlato con Tommaso Giartosio dello spettacolo "In Bilico su un Doppio Universo", presentato presso la Scuola Holden nell'ambito del Festival delle Migrazioni di Torino, e del significato dello stare in bilico tra culture lontane e plurime identità. C'è stato anche modo di far luce sulle qualità umane che ritroviamo in terre economicamente più deboli ma ancora piene di anima, sulla delicata fase di transizione politica che attraversa oggi il Senegal e su quella più drammatica di gran parte del Sahel:

https://www.raiplaysound.it/audio/2024/09/Fahrenheit-del-18092024-9d283526-a7f9-4f2c-a461-521bedcc8c79.html

L'INTERVISTA SUL BLOG DI GIUSY CAPONE IN CUI PARLO DI MIGRAZIONI, POLITICHE CULTURALI E DEL MIO ULTIMO LAVORO " IN BILICO SU UN DOPPIO UNIVERSO"

In occasione del Festival delle Migrazioni, in programma tra il 18 e il 22
settembre a Torino, ho incontrato Vincenzo Maria Oreggia, autore, accanto
ai musicisti Guglielmo Pagnozzi e Francesco De Martino, dello spettacolo
In Bilico su un Doppio universo. Si tratta di un reading scandito in sette
momenti, sette storie che corrono lungo il confine di un doppio universo e
mettono in relazione culture ed esistenze lontane, riflettendo sul senso
delle radici, dell’identità e della memoria. Chiedo a Oreggia non solo della
genesi di questo lavoro, ma anche della capacità che i processi culturali e
artistici possiedono d’imprimere maggior significato e pratica a parole
come convivenza, comunità, cura, diritto alla vita, inclusione, amore,
desiderio, sogno, visione di futuro.

La cultura svolge plurime funzioni. Può creare anche occasioni di confronto per attenuare la paura verso i migranti e stemperare, al contempo, l’inquietudine di chi è immigrato nei confronti di una società che non conosce, che sovente lo rifiuta e lo discrimina?
Certamente. La cultura può risultare utile in questo senso e farsi strumento di
azione sociale, influenzare e modificare la percezione del reale di una collettività. La parola cultura deriva dal latino còlere, coltivare la terra: un’azione concreta, basilare. Non sono sufficienti le occasioni di confronto su un piano squisitamente intellettuale o accademico; occorre trovare una lingua accessibile e modalità di intervento diffuse. Non si tratta soltanto di amministrare un patrimonio acquisito o alimentare preziosi dibattiti confinati a una cerchia di adepti. In un pianeta malato di rabbia e pullulante di voci che la fomentano gli uomini e le donne di cultura sono chiamati a incarnarne i valori. La tolleranza, il dialogo, la volontà di conoscere, il rispetto, la pace. Occorre muoversi concretamente verso ciò che chiamiamo l’altro, saperlo ascoltare con umiltà. Quanto accade ai migranti è orribile. Sono trattati come invasori e nemici, stipati in cosiddetti centri di accoglienza che sono in effetti centri detentivi. Disumanizzati, strumentalizzati a fini propagandistici e sottoposti a interessi di parte. Ci hanno talmente abituato a queste forme di abuso che non ne percepiamo più l’enormità. Fare cultura è andare in direzione contraria, comportarsi da autentici esseri umani, fautori di quel bene che viene quotidianamente negletto. Le paure possono stemperarsi solo grazie a un atteggiamento fraterno e ogni occasione di confronto e incontro ad esso ispirata sarà un piccolo passo verso un mondo più giusto, una versione dell’uomo più degna.

Le occasioni di conoscenza e di incontro fra le persone riescono ad abbattere i pregiudizi. Quali i metodi e gli strumenti concreti per un confronto interculturale in cui si consideri la diversità una ricchezza?

Sappiamo poco dei contesti da cui provengono i nostri ospiti. Ne abbiamo notizia quando si verificano macroscopici eventi bellici, clamorose stragi, disastri naturali. Di interi continenti quali Asia, America meridionale o Africa ignoriamo le culture, le specifiche modalità relazionali dei popoli, le credenze, la complessità del tessuto sociale. Riassumiamo un’immensa varietà di esseri umani sotto l’unica sigla di Migranti, parola che allude a una condizione di moto continuo, che ci protegge dalla realtà che il loro viaggio è compiuto e sono qui, ora, accanto a noi. Un escamotage per sentirci deresponsabilizzati dai doveri di accoglienza, preferendole la gestione, l’amministrazione di un’anonima folla in transito. Da un lato bisognerebbe insistere su ciò a cui accennavo, un cambio di atteggiamento e un incontro diretto; dall’altro dovrebbero iniziare veramente a informarci sulle diverse società di origine e le tante culture che non conosciamo. Il sistema mediatico è molto carente a proposito. Ogni iniziativa che si dedichi a colmare questa lacuna è importante. Conferenze, dibattiti, rassegne e festival che prevedano anche azioni dirette nel corpo sociale, come il Festival delle Migrazioni di Torino, ad esempio, giunto alla sua sesta edizione. La diversità può diventare una ricchezza se ci impegniamo a conoscerla. Se ci limitiamo vederne l’involucro, la pura forma esteriore, sarà sempre percepita come una minaccia. Il pregiudizio è la bandiera dell’ignoranza e prima o poi impugna le armi.

I processi culturali e artistici che parlano di Migrazioni hanno il compito di smontare la violenza del sistema, la violenza del confine fisico e mentale, per dare significato e pratica a parole come convivenza, comunità, cura, diritto alla vita, inclusione, amore, desiderio, sogno, visione di futuro. Qual è l’anima tangibile del vostro intervento?
La cultura, la conoscenza e l’arte sono un nutrimento che può portare con sé i frutti dell’ironia e di un benefico relativismo. Più cresce la consapevolezza del diverso e delle moltissime forme in cui si può stare al mondo, più percepiamo noi stessi come il piccolissimo tassello di un grande disegno; l’egocentrismo di cui soffriamo si attenua e accettiamo più serenamente il confronto con chi vive in modo diverso. La violenza del sistema è l’espressione di una volontà accentratrice che si prodiga per uniformare le differenze, secondo una logica soldatesca, brutale. Illusoria, tra l’altro. Abitiamo di fatto una società già pluralistica e multietnica e certi proclami che ne demonizzano alcune parti suonano anacronistici, ignorano o fingono di ignorare una situazione con cui dobbiamo imparare a convivere in modo pacifico. Quando sento il rancore che sgorga a fiotti dalle parole di certi politici, ma anche di molta gente comune, avverto un grave pericolo. La violenza delle spranghe è preparata dalla violenza delle parole. È accaduto sempre nel corso della storia. I processi culturali e artistici vanno ancora una volta in senso contrario a tutto ciò: demistificano queste orribili e deliranti ambizioni e insegnano pratiche di convivenza democratica. Esaltano le qualità umane e i valori ai quali faceva riferimento.
Quanto al nostro intervento – per me, almeno, che ho scritto e interpreto i testi – si è trattato un po’ di uscire da un guscio. Scrivere è un esercizio solitario e le occasioni di incontro con il pubblico si concentrano quasi tutte dopo l’uscita di un libro. Quando ho pubblicato Il mercato del vento, un paio d’anni fa, abbiamo organizzato una decina di presentazioni durante le quali ho provato un piacere nuovo nel comunicare, una naturalezza e un coinvolgimento che prima non avevo conosciuto. Uno dei musicisti con cui avrei lavorato, Francesco De Martino, mi aveva aiutato per la presentazione del romanzo a Bologna. Nel seguito di quella serata Francesco mi lanciò l’idea di lavorare a un reading che attraversasse un po’ tutti i miei testi. In seguito si è unito a noi un altro musicista di grande esperienza e talento, Guglielmo Pagnozzi, e così è nato In Bilico su un Doppio Universo – sette passi per voce, fiati e spiriti: sette come i libri che fino ad ora ho pubblicato. Da uomo che svolge un lavoro solitario ho iniziato a trasformarmi in scrittore che cerca di far rivivere ciò che ha prodotto in pubblico, condividendolo con persone che sono lì con te, fisicamente.
ciò che serve affinché questo piccolo miracolo di comunione si realizzi, ancora prima della tecnica, sono le emozioni. Emozionarsi ogni volta ed emozionare: due cose inseparabili. Recitare o leggere un testo in sé non vuol dire nulla quando non si accende questa scintilla, l’anima del nostro lavoro.

Esistono diversi tipi di migrazioni, con cause e conseguenze differenti, inscindibili dalla questione climatica e da quella della sovranità alimentare, insieme all’avanzamento delle guerre in corso. Quant’è rilevante approfondire questi temi mediante la testimonianza di persone con background migratorio?
La maggior parte di coloro che fanno informazione non ha avuto esperienza diretta dei luoghi e dei popoli di cui parla e su cui tira spesso conclusioni affrettate. Riguardo all’Africa, ad esempio, penso sia il Continente più immaginato e meno conosciuto di tutti. I racconti e le testimonianze di un reporter che ha toccato con mano e visto con i propri occhi certe realtà o quelle di chi le ha vissute in prima persona sono essenziali. Niente come una parola nutrita di esperienza può avvicinarci a contesti e persone lontane. Attraverso questa mediazione germinata da un approccio più concreto, fisico, possiamo percepire in modo profondo le diverse vicende e difficoltà umane, evitando, ad esempio, di classificare in ordine gerarchico le sofferenze derivanti da condizioni climatiche, guerre o insufficienza alimentare. La disparità di trattamento tra chi fugge da un conflitto e chi dall’impossibilità di ottenere cure indispensabili per sé e i propri cari è ingiusta. Considerate i migranti economici come migranti di serie b è frutto dell’inconsapevolezza delle tragedie causate dalla povertà.

“In bilico su un Doppio Universo” è un reading spettacolo. Ebbene qual è la scansione delle letture?
Il disegno narrativo dello spettacolo si snoda attraverso sette tappe, sette storie che hanno come comune denominatore lo stare in bilico tra due mondi, due universi geografici e interiori. In una prima parte racconto storie di giovani migranti venuti a cercare fortuna in Europa, due africani e un sudamericano sorpresi in momenti critici delle loro vite, dove si è incrinato definitivamente qualcosa. Sono brani scelti da libri fondati su esperienze reali. La vicenda di Nevio, il soprannome di Jan Josè Nevarez, giovane ecuadoriano che nel corso di una delirante nottata finirà, disilluso e ubriaco, in una pensioncina insieme a due prostitute nigeriane, è basata sulla testimonianza di una ragazza che ha vissuto un’esperienza migratoria in Italia. Inizialmente temevo che il legame tra le diverse storie fosse troppo esile e l’ascoltatore si sentisse frustrato dalla difficoltà di non poter seguire un unico filo narrativo, poi, confortato da alcuni riscontri positivi, mi sono accorto che questa costruzione a mosaico può funzionare, che le sospensioni tra una storia e l’altra creano una sorta di suspense e le deviazioni di percorso stimolano la curiosità. La cesura più netta nella progressione delle storie avviene a circa metà dello spettacolo, quando dalle vicende di immigrati in Europa si passa a quelle di un europeo che vive un’esperienza speculare e decide di vivere in Africa. Il racconto muta dalla terza alla prima persona ed entra in gioco la mia esperienza biografica. Negli ultimi vent’anni ho vissuto lunghi periodi in Senegal e in Africa occidentale e ho sperimentato una sorta di migrazione contraria, dettata da ragioni meno drammatiche di una guerra o della miseria ma dai risvolti comunque complessi, che hanno creato un doppio radicamento. Alle mie prime radici si sono aggiunte quelle affondate in una nuova terra. Culture e modi di vivere lontani si sono riuniti in una stessa persona e hanno fatto di me una figura in cammino lungo un crinale sottile. In questo reading cerco, in parte, di raccontarlo.

Un doppio universo, geografico ed interiore, per riflettere sul senso delle radici. Reputa che sia auspicabile un’identità plurale?
Credo che la nostra identità sia già, di fatto, plurale, dobbiamo soltanto scoprirlo, accettarlo, conviverci senza comodi infingimenti. Temo chi sostiene di avere un unico immutabile punto di vista sulle cose, o chi rivendica una coerente, tetragona identità. Le intolleranze, l’odio per il diverso e le varie forme di fascismo vengono da questo, questa bugia che si raccontano e fanno credere agli altri. Esiste un’avidità di certezze che nega il buonsenso e produce abbagli pericolosi. Quella che mi pare auspicabile è una consapevolezza inclusiva, in grado di accogliere ciò che sulle prime ci risulta estraneo, di conoscerlo e riconoscerlo come uno dei possibili sviluppi della natura umana. Ancorarci a una sola versione di noi stessi, e buttarcisi sopra come a una scialuppa di salvataggio, ci incattivisce. Sappiamo, in fondo, che le cose non stanno così ma non riuscendo ad ammetterlo chiudiamo gli occhi e ci armiamo contro l’evidenza. Un relativismo pacifico e un ampio sentimento di compassione: sono questi i migliori antidoti.

Da sinistra: Vincenzo Maria Oreggia, Guglielmo Pagnozzi e Francesco De Martino

Il suo intervento nasce dall’incontro con i musicisti Guglielmo Pagnozzi e Francesco De Martino. Come si sviluppa il connubio tra parola e suoni?
È una ricerca affascinante che corre su un filo sottile, come un corteggiamento
reciproco dove gli strumenti inseguono, accompagnano e a volte anticipano le parole, in punta di piedi. Inizialmente Guglielmo Pagnozzi ha voluto ascoltare la mia voce e gli ho inviato frammenti del copione ancora in fieri. Un lavoro partito da lontano, dallo studio preliminare di ciò che l’orecchio di un musicista distingue nel timbro e nella qualità della voce. Abbiamo continuato a lavorare così, a distanza, per un certo periodo, grazie a un frequente scambio di file in cui prendevano forma le prime idee, l’embrione dello spettacolo. Poi ci siamo trovati alla Scuola Jam Session di Bologna e sono iniziate le prove. Una delle tentazioni da cui ci siamo subito tenuti alla larga è quella del didascalismo, l’enfasi nel rimarcare musicalmente il testo. Un errore che equivale al calco manieristico da cui deve guardarsi l’attore. Chi legge e interpreta, in questa ricerca di equilibrio, avverte l’invadenza dei suoni che lo allontanano dalla giusta disposizione emotiva. Quando si giunge invece all’armonia, al connubio di cui parlava, tutto procede con una fluidità che intensifica la forza della voce. A Bologna abbiamo focalizzato le atmosfere sonore dei diversi momenti del reading e fissato spunti melodici e temi che sarebbero rimasti. Abbiamo conservato il buono e scartato il superfluo. Non esiste una rigida partitura musicale, ma piuttosto tracce di fondo, queste sì fissate, sulle quali ogni volta si possono innestare nuove idee. Ho la fortuna di collaborare con due musicisti dalla lunga esperienza nel jazz, e l’arte del jazz è improvvisativa, cresce liberamente variando attorno a primarie, culminanti intuizioni. Quando si approda al giusto equilibrio tra le parti e la magia delle cose funziona può diventare un vero regalo lavorare insieme e sentire che anche il pubblico ne diventa partecipe.

IL LINK AL BLOG DI GIUSY CAPONE:

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