Racconti
morali, come recita il sottotitolo, quelli riuniti nell’ultima raccolta di
Coetzee, che conducono a scandalose aporie, attestanti l’impossibilità del
giudizio e l’insufficienza della ragione nel tracciare un confine tra giusti ed
iniqui, ligi assennati e refrattari agli schemi. L’aria che si respira in
queste pagine, il passo sincopato e incalzante della prosa che le incide,
inquieta e seduce; vi aleggia un continuo mistero, un non detto che semina
allarmi e sembra tradurre l’originale stupore di fronte al sopravvenire
inconsulto dell’esperienza, alla sua infrangibile sostanza. Le cose,
magnifiche, orrende, repellenti o irresistibili, sono esattamente come si
mostrano, come accadono nella loro stringente necessità, e Coetzee, impassibile
agnostico, si limita a registrarle, illuminarle. Una donna sposata intrattiene
una relazione perfetta, senza la sbavatura di un senso di colpa con un uomo che
vede una o due volte la settimana; non si chiede che genere di donna sia per
trovare così naturale l’infedeltà, ma la gusta con un’appagante, pacifica
capacità di scissione. E non si tratta del ritratto di un mostro; anzi, quando
tutto sarà finito “tornerà ad essere una donna sposata, sposata sempre, di
giorno e di notte, con il ricordo sepolto dentro di sé di com’era stare distesa
sul letto un caldo giorno d’estate, divorata dallo sguardo di un uomo che,
anche se non ti sa dipingere, per il resto della sua vita porterà scritta sul
cuore questa immagine di nuda bellezza.” La madre sessantacinquenne di Vanità, che per il suo compleanno si
presenta a figli con un taglio di capelli giovanilmente malizioso e un trucco
fiammante, resiste con splendido candore a una tacita o circonlocutoria
riprovazione. “Tranquilli, dura poco (…) Ancora una volta o due nella vita
voglio essere guardata come si guarda una donna. Tutto qui, solo guardata.
Niente di più. Non voglio uscire di scena senza ripetere ancora
quell’esperienza.”
J.M. Coetzee
Ma il personaggio più affascinante, che ritorna in diversi
racconti, è la scrittrice Elisabeth Costello (la stessa protagonista dell’omonimo
romanzo del 2003, anno del Nobel a Coetzee), signora anziana, malata e
disillusa che il figlio e la figlia vorrebbero avvicinare, opponendosi alla sua
ferma volontà di passare i suoi ultimi giorni in solitudine, secondo un’idea
personale della “buona morte”. Qui le riflessioni di Coetze/Costello si moltiplicano
con una brillantezza e una concisione che in poche manciate di pagine gettano
luce su dilemmi cruciali: il modo in cui sia più opportuno morire, l’utilità di
una bellezza condannata dal tempo, il senso dell’invecchiare e della
scricchiolante, insincera armonia familiare. Isolata ai margini di uno sperduto
paesino sull’altopiano della Castiglia, con la sola compagnia di una comunità
di adorati gatti e del matto locale, Elisabeth conduce la più frugale delle
esistenze, e mentre le forze fisiche e mentali precipitano decide di passare
una volta per tutte dalla “tribù dei cacciatori” a quella delle prede più
vessate e indifese tra tutte: i cari animali, nei confronti dei quali la
spietata disonestà intellettuale dell’uomo tocca i suoi vertici. Nel momento in
cui il figlio John riduce a una semplice e in fondo banale scelta la condotta
di Elisabeth, la donna lo interrompe. “So che cos’è una scelta, non c’è bisogno
che me lo spieghi (…) So esattamente l’effetto e il sapore del processo di
riflessione e decisione, esattamente quanto poco ti pesi fra le mani. Ma
l’altro modo di cui parlo io non ha a che vedere con la scelta. È un assenso, è
una resa. È un Sì senza un No. O sai di che parlo o non hai idea di che cosa
vado dicendo. Non dirò altro.”
(la recensione è apparsa sulle pagine culturali del quotidiano Il Cittadino il 6 giugno 2019)
(la recensione è apparsa sulle pagine culturali del quotidiano Il Cittadino il 6 giugno 2019)