venerdì 7 giugno 2019

J.M. COETZEE - BUGIE - EINAUDI 2019



Racconti morali, come recita il sottotitolo, quelli riuniti nell’ultima raccolta di Coetzee, che conducono a scandalose aporie, attestanti l’impossibilità del giudizio e l’insufficienza della ragione nel tracciare un confine tra giusti ed iniqui, ligi assennati e refrattari agli schemi. L’aria che si respira in queste pagine, il passo sincopato e incalzante della prosa che le incide, inquieta e seduce; vi aleggia un continuo mistero, un non detto che semina allarmi e sembra tradurre l’originale stupore di fronte al sopravvenire inconsulto dell’esperienza, alla sua infrangibile sostanza. Le cose, magnifiche, orrende, repellenti o irresistibili, sono esattamente come si mostrano, come accadono nella loro stringente necessità, e Coetzee, impassibile agnostico, si limita a registrarle, illuminarle. Una donna sposata intrattiene una relazione perfetta, senza la sbavatura di un senso di colpa con un uomo che vede una o due volte la settimana; non si chiede che genere di donna sia per trovare così naturale l’infedeltà, ma la gusta con un’appagante, pacifica capacità di scissione. E non si tratta del ritratto di un mostro; anzi, quando tutto sarà finito “tornerà ad essere una donna sposata, sposata sempre, di giorno e di notte, con il ricordo sepolto dentro di sé di com’era stare distesa sul letto un caldo giorno d’estate, divorata dallo sguardo di un uomo che, anche se non ti sa dipingere, per il resto della sua vita porterà scritta sul cuore questa immagine di nuda bellezza.” La madre sessantacinquenne di Vanità, che per il suo compleanno si presenta a figli con un taglio di capelli giovanilmente malizioso e un trucco fiammante, resiste con splendido candore a una tacita o circonlocutoria riprovazione. “Tranquilli, dura poco (…) Ancora una volta o due nella vita voglio essere guardata come si guarda una donna. Tutto qui, solo guardata. Niente di più. Non voglio uscire di scena senza ripetere ancora quell’esperienza.” 

J.M. Coetzee

Ma il personaggio più affascinante, che ritorna in diversi racconti, è la scrittrice Elisabeth Costello (la stessa protagonista dell’omonimo romanzo del 2003, anno del Nobel a Coetzee), signora anziana, malata e disillusa che il figlio e la figlia vorrebbero avvicinare, opponendosi alla sua ferma volontà di passare i suoi ultimi giorni in solitudine, secondo un’idea personale della “buona morte”. Qui le riflessioni di Coetze/Costello si moltiplicano con una brillantezza e una concisione che in poche manciate di pagine gettano luce su dilemmi cruciali: il modo in cui sia più opportuno morire, l’utilità di una bellezza condannata dal tempo, il senso dell’invecchiare e della scricchiolante, insincera armonia familiare. Isolata ai margini di uno sperduto paesino sull’altopiano della Castiglia, con la sola compagnia di una comunità di adorati gatti e del matto locale, Elisabeth conduce la più frugale delle esistenze, e mentre le forze fisiche e mentali precipitano decide di passare una volta per tutte dalla “tribù dei cacciatori” a quella delle prede più vessate e indifese tra tutte: i cari animali, nei confronti dei quali la spietata disonestà intellettuale dell’uomo tocca i suoi vertici. Nel momento in cui il figlio John riduce a una semplice e in fondo banale scelta la condotta di Elisabeth, la donna lo interrompe. “So che cos’è una scelta, non c’è bisogno che me lo spieghi (…) So esattamente l’effetto e il sapore del processo di riflessione e decisione, esattamente quanto poco ti pesi fra le mani. Ma l’altro modo di cui parlo io non ha a che vedere con la scelta. È un assenso, è una resa. È un Sì senza un No. O sai di che parlo o non hai idea di che cosa vado dicendo. Non dirò altro.”  

(la recensione è apparsa sulle pagine culturali del quotidiano Il Cittadino il 6 giugno 2019)